Leo annuì.

«Forse non lo sai, ma Elliot e io abbiamo avuto una bambina che è nata morta. L’avevo chiamata Julia».

Lo sguardo di Leo si ammorbidì, mentre Louisa fu assalita dai ricordi e abbassò gli occhi a terra.

«Non lo sapevo», le rispose dolcemente.

Non sapeva niente degli altri due bambini che aveva perso, ma aveva sempre pensato che fossero maschi, uno più grande e uno più piccolo di Julia. Quella figlia, che non aveva mai nemmeno respirato, aveva i capelli neri, come Elliot.

«Avrebbe avuto quasi tre anni, se fosse ancora viva», disse.

Non aggiunse che avrebbe avuto i capelli ricci e gli occhi verdi di Elliot. E che avrebbe chiesto di essere spinta sull’altalena. Più in alto, mamma. Più in alto! Gridando felice. I maschi le erano più difficili da immaginare, ma credeva che avrebbero avuto capelli chiari, come i suoi. Lasciò che quei volti svanissero e tornò a guardare Leo.

«Mi dispiace molto», le disse.

«Ho avuto anche due aborti, e come puoi immaginare venire a sapere di questo figlio è stato un colpo duro per me».

«Non avrei mai mentito su una cosa del genere».

«Lo so, sono io che non volevo crederci», disse lei scuotendo la testa.

«Mi scuso. Forse non avrei dovuto dirtelo».

Louisa scosse di nuovo la testa. Non poteva dirgli che si sentiva come se le avessero strappato il cuore dal petto e che stava usando ogni briciola di energia che le era rimasta in corpo per non crollare. «Non capisco come abbia fatto Elliot a mantenere un segreto del genere per tutti questi anni».

Ci fu un nuovo lungo silenzio. Alla fine fu Leo a parlare.

«Sono preoccupato per Conor. Zinnia sta male, e non può occuparsi di lui. E neppure io, quanto meno non abbastanza. A causa della siccità al nord la mia cannella è richiestissima, e non faccio che lavorare».

«Hai pensato a un affido, o una casa famiglia? Magari solo finché Zinnia non guarisce».

«Dio mio, no. Non potrei farlo… hai idea di che posti siano quelli? Zinnia non me lo permetterebbe mai!».

«Hai ragione, è stata un’idea stupida».

«Se potessi permettermelo lo manderei in collegio a Colombo, ma non posso. Al momento devo trovare un modo per vendere ancora più cannella e far girare bene gli affari».

«Stavo pensando…», esitò un istante. «Pensi che sarebbe possibile vedere tua cugina?»

«Ma… ne sei sicura?»

«Non sono sicura di niente in questo momento. Che malattia ha?»

«Credo siano i nervi. E dubito che voglia incontrarti. Sono più le volte che non mi fa entrare quando vado a trovarla, anche se poi quando riesco cerco di mettere a posto la casa. Vive immersa nel caos».

«Da quando è morto Elliot?».

Annuì.

«Lo amava?», chiese in un soffio.

«Penso di sì».

«Possiamo provare ad andare da lei?».

La osservò. Lei respirò profondamente, senza aggiungere una parola.

«Non pensi che la cosa potrebbe sconvolgerti di più? La casa è piena di ritratti…».

«Di Elliot?»

«Sì».

Louisa lo guardò e poi con determinazione disse: «Penso di aver bisogno di vedere con i miei occhi».

«Bene».

La condusse fuori di casa e giù per il sentiero. Attraversarono un campo allietati dal canto di un garrulo. A metà della discesa c’era una curva che portava a una costruzione mezza nascosta tra gli alberi. Passarono accanto a una fila di vasi pieni di piante rigogliose e profumate, poi Leo la superò e aprì la porta d’ingresso. Si girò a guardarla. «Siamo ancora in tempo per tornare indietro, se vuoi».

«Voglio vedere».

La condusse in un salottino. Louisa restò senza fiato davanti a tutti quei ritratti appesi alle pareti. Raffiguravano una donna con i capelli rossi e la pelle dorata, poi un bambino nelle sue diverse età, e infine Elliot. Tanti, tantissimi ritratti di Elliot, da solo o con il piccolo. Le tremavano le gambe e si appoggiò a Leo per non cadere. Lui la tenne per le braccia.

«Chi è?», disse una voce.

«Sono io, Leo», rispose lui.

«Sembra molto debole», sussurrò Louisa.

«Lo è. E in più di un senso».

Forse era davvero troppo, si girò e corse fuori. Leo la seguì. La trovò ferma con le braccia avvolte attorno al corpo, tremante, sconvolta da quel tradimento. “Non lo perdonerò mai”, pensò. Mai.

«Coraggio», le disse. «Ti accompagno alla macchina».

Proprio in quel momento arrivò un bambino, scalciando le foglie. Si fermò a guardarla e Louisa riconobbe i capelli ricci e scuri di Elliot e i suoi occhi verdi. Non c’erano dubbi, era proprio suo figlio. Vide il sorriso di Elliot, il suo stesso modo di guardare dal basso verso l’alto, il suo fascino. Praticamente la copia di una foto di Elliot da piccolo che Irene le aveva fatto vedere una volta. Era stato padre di questo bambino, per tutto quel tempo. Le parve di sentire la sua voce, se lo immaginò che giocava con Conor, che lo coccolava di notte. Le fece più male di quanto non sarebbe stata in grado di dire. Ascoltò i suoni di quel luogo, gli uccelli, il fruscio degli animali che si spostavano nella boscaglia, il vento tra gli alberi. Le parve di sentire persino il mare, in sottofondo. Tutto parve distillarsi in quell’unico istante, e Louisa sentì che non ne sarebbe mai più venuta fuori.

Lei rimase ferma, sbattendo velocemente le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Per un attimo nessuno parlò, e fu Leo a rompere il silenzio.

«Conor, saluta».

Il ragazzino si guardò i piedi.

Louisa si girò. «Non… non posso, non ce la faccio».

Leo disse al piccolo di entrare in casa, e che il cameriere gli avrebbe portato qualcosa per il pranzo, poi riportò Louisa alla macchina. Lei era in silenzio.

«Sarebbe meglio se entrassi in casa, non mi sembri in condizioni di guidare».

«Ho bisogno di andarmene…».

«Dài, Louisa. Bevi qualcosa e siediti un attimo. Ne hai bisogno».

Avrebbe voluto lasciarsi andare ai singhiozzi, tirare fuori tutto il suo strazio, ma aveva gli occhi asciutti. Le tornarono in mente quei ritratti e fece un passo indietro.

«No, voglio tornare a casa».

Salì in macchina e raggiunse la strada principale. Arrivata all’altezza della spiaggia decise di fermarsi. Parcheggiò e andò fino alla riva. Cominciò a tirare le conchiglie nell’acqua con quanta più forza aveva in corpo, e infine crollò a sedere sulla sabbia con la testa tra le mani.

24

Il tradimento di Elliot l’aveva ferita profondamente e si sentiva confusa su tutto. La sola idea di dar fiducia a qualcuno che non fosse suo padre l’angosciava. Ripensò alle assenze di Elliot. Erano state tante, ma lei aveva sempre accettato e creduto alle sue scuse, tollerato i malumori passeggeri. Realizzò che forse a un certo punto doveva aver deciso di accontentarsi scegliendo di non vedere quel che andava visto, e ne provò vergogna.

Stava per crollarle il mondo addosso, ma passò tutta la settimana successiva a finire i disegni per l’emporio. Quando una mattina suo padre andò a trovarla per un caffè, Louisa provò a protestare dicendo che era molto impegnata ma lui insistette e la condusse in salotto.

«Allora, hai proprio deciso di andare avanti con il progetto dell’emporio?», le chiese mentre Ashan versava il caffè.

«Sì, c’è un gioielliere che potrebbe essere interessato e andrò a Colombo la settimana prossima per incontrare lui e altri artigiani. Mi piacerebbe vendere anche dei quadri. In particolare sto prendendo in considerazione un artista che ho incontrato dagli Hooper, Savi Ravasinghe. Venderò anche scatoline di legno ed elefanti intagliati nell’ebano. Vorrei incontrare anche un’artigiana che lavora la seta, ho già visto alcuni suoi campioni. Non so se alla fine venderemo anche stoffe, ma ci sto pensando. E poi…».

La interruppe. «Tesoro, prendi fiato».

Louisa improvvisamente si sgonfiò abbassando lo sguardo a terra.

«Che problema c’è? Perché non me ne parli? Non c’è alcun bisogno di lavorare così tanto».

«Ma devo».

«Però c’è qualcosa che non mi stai dicendo, giusto?»

«Sono andata a Cinnamon Hills», rispose in tono piatto senza alzare lo sguardo.

«Ah».

«È tutto vero», disse d’un fiato. Dirlo avrebbe solo reso la cosa più reale. Rivide di nuovo quei capelli ricci e scuri, gli occhi verdi, lo sguardo calmo. «Ho visto il bambino. Non ci sono dubbi su chi sia suo padre».

Il padre le accarezzò una mano, lei gli diede una stretta affettuosa.

«Non è male se mi tengo occupata, diciamo», aggiunse fingendo che andasse tutto bene. E come altro avrebbe potuto sopravvivere, altrimenti?

«Dormi bene?».

In verità nei rari momenti in cui riusciva ad addormentarsi sognava che fosse tutto di nuovo normale, che Elliot fosse vivo, che non esistessero i debiti né il bambino.

«Solo se prima di andare a letto mando giù qualcosa di forte, allora sì».

Il padre sospirò. «Così non va bene».

«Io non so proprio cosa fare di tutta questa rabbia. Esco e mi metto a pedalare come una matta. Vado a nuotare. Sono andata anche a tuffarmi da Flag Rock. Eppure non riesco a smaltirla. Voglio sapere tutto di Elliot, e al tempo stesso non voglio sapere niente».

«Cara, devi rallentare. Lascia che il dolore venga fuori».

«Ma come? Vorrei solo urlargli addosso, e non posso più farlo. Vorrei aggredirlo, picchiarlo. Ed è la cosa peggiore».

Si era trattenuta nel confidare al padre la violenza dei suoi sentimenti, evitando di raccontargli tutte le cose orribili che immaginava di fare a Elliot.

«Lui non c’è più, e non avrò mai modo di fargliela pagare per quello che mi ha fatto. Mi sento come se mi avesse strappato a me stessa. Capisci?»

«Mi domando se non sia il caso di vedere un medico».

Ci aveva pensato anche lei. Forse stava impazzendo, tormentata dalle voci e dalle immagini del passato, convinta di poter allungare una mano e toccare davvero quello che le pareva di vedere, eppure incapace di farlo.

«Non voglio medicine».

«Vuoi che venga a Colombo con te?»

«No. Sono già d’accordo con Margo, mi accompagnerà lei agli appuntamenti».

Sulla strada per la capitale Louisa passò accanto ai soliti templi buddisti. Gruppi di monaci vestiti di giallo o di arancione passeggiavano tranquilli, mentre da lontano arrivavano i canti e i tamburi di qualche festa nei villaggi vicini. Trattenne il fiato quando passò nel punto in cui Elliot era uscito fuori strada, ma non riuscì a smettere di sentirsi arrabbiata. “Forse vedrò un demone danzare”, pensò, riferendosi ai demoni degli alberi venerati dagli abitanti della foresta. “Forse è quello di cui ho bisogno”. Un demone. Una volta le era capitato di assistere con Elliot a uno di quei rituali, e le erano rimaste impresse delle orribili maschere che l’avevano molto spaventata. Il ricordo di quell’esperienza si intonava ai suoi sentimenti disperati.

A Colombo, le strade affollate profumavano di cocco, cannella, pesce fritto, e quel miscuglio di odori provenienti dalle bancarelle che occupavano tutti i marciapiedi e vendevano tè e dolci. Louisa parcheggiò accanto al lussuoso edificio dei grandi magazzini Cargills, in mattoni rossi e crema, evitando per poco un carretto blu tirato da un bue che le filò accanto a gran velocità. Era pieno di mosche e zanzare, che doveva scacciare continuamente con la mano mentre passeggiava per il quartiere cinese su Chatham Street, superando piccoli negozi di stoffe pieni di seta, due o tre erboristerie e diverse botteghe che vendevano oggetti laccati.

Era tutto luccicante in quell’aria polverosa e ferocemente calda.

Poco più in là, dove l’aria sapeva di sterco, frutta e spezie, funzionari britannici e missionarie si mescolavano agli operai singalesi e tamil, circondati dai corvi che si appollaiavano ovunque trovassero appoggio in cerca di avanzi di cibo. Fu costretta ad aggirare diversi risciò che bloccavano il passaggio, e alla fine trovò la sala da tè che cercava e vide Margo seduta dietro la finestra. La giovane le fece cenno con la mano, e Louisa capì che era ora di mettere da parte le sue emozioni e concentrarsi su quella giornata di lavoro. Aprì la porta, sentì il suono del campanello e raggiunse Margo.

«Ho ordinato il tè anche per te», le disse la cognata.

«Splendido». Louisa si accomodò e poggiò la borsa su una sedia vuota. «Allora, racconta: come stai?»

«Io sto bene, ma mia madre no. Vuole di nuovo venire a stare un po’ da te. Ho cercato di dissuaderla».

«Perché vuole venire?»

«Credo sia perché vuole stare un po’ dove viveva lui».

Louisa scosse la testa. Non voleva angosciare Margo raccontandole quanto fosse difficile quel periodo per lei, ma certo Irene sarebbe stata un colpo di grazia. «Mi pare un’idea molto infelice, onestamente. Per come mi sento in questo momento… potrei ucciderlo con le mie stesse mani, Elliot», disse. «Se non fosse già morto».

«Allora è vero? Del bambino?».

Sospirò prima di rispondere. «L’ho visto, Margo. È la copia sputata di Elliot».

«Oh, tesoro. Mi dispiace tanto».

Louisa preferì cambiare argomento. C’erano volte in cui parlare non era d’aiuto. «Non ne parliamo. Raccontami di te».

«Di me? Io al momento mi sento una tale stupida per essermi fatta coinvolgere così tanto da un uomo sposato fingendo che fosse tutto normale. Mi ha detto che il suo matrimonio era in crisi e ho voluto credergli perché mi faceva comodo».

Louisa pensò a Elliot e ritornò silenziosa. Si sforzò di dire qualcosa per il bene di Margo. «Abbiamo entrambe commesso l’errore di credere in quel che ci faceva comodo. Magari, semplicemente, non hai potuto fare a meno di innamorarti di William».

«È quello che mi dico anch’io, ma so che c’è stato un momento in cui ho proprio scelto. Un momento in cui sarei potuta tornare sui miei passi».

«Pensi che anche Elliot si sia sentito così?»

«Cioè che fosse una questione di scelta, o che poteva tornare sui suoi passi?»

«Entrambe le cose».

«Chi può dirlo? Quel che so per certo è che il matrimonio di William non era affatto finito, e neppure il vostro. Mi sento in colpa da morire».

«Ma almeno tu hai chiuso. Elliot non l’ha fatto».

«Già».

«Ti manca ancora William?»

«Mi manca avere qualcuno. Mi faceva sentire speciale, non mi ero mai sentita così prima di lui».

Louisa le accarezzò una mano. «Sei speciale anche per me».

Margo le sorrise. «In casa nostra girava sempre tutto attorno a Elliot. Era lui a ricevere tutte le attenzioni. Non poteva mai sbagliare, e qualsiasi suo minimo successo veniva festeggiato con torte e dolci. Una volta alle olimpiadi scolastiche vinse il terzo posto in una gara di corsa e sembrava che fosse arrivato primo in tutte le gare della manifestazione. Quanto a me, mia madre mi notava appena. Ma è acqua passata ormai… Che dici, ci prendiamo un pasticcino alla crema? Sei davvero troppo magra».

«Oddio, mi sembra di sentire tua madre!».

Risero entrambe, e si tirarono un po’ su il morale.

Andarono a incontrare il gioielliere, cugino di quel commerciante con cui avevano parlato a Galle, e Louisa entrò subito in modalità donna d’affari. Effettivamente era interessato ad allargare il suo giro e sarebbe stato felice di esporre e vendere i suoi zaffiri all’emporio. Louisa era soddisfatta. Subito dopo si avviarono lungo un vicolo stretto che correva tra edifici molto alti, attente a individuare l’insegna della stilista che lavorava con la seta. La donna le accompagnò di sopra nel suo laboratorio, una stanza enorme e luminosissima grazie alle finestre dal pavimento al soffitto.

Faceva soprattutto sciarpe e caftani, ma la sua seta era tinta a mano, dipinta e decorata con straordinari motivi di tutti i colori. C’era una fila di campioni appesi lungo la stanza come tante bandierine.

«Questi si stanno ancora asciugando», disse vedendo che li stavano ammirando e toccando. «Poi li stiriamo e li confezioniamo».

«Come le dicevo nella mia lettera, sto cercando artisti e artigiani che siano interessati a usare il mio emporio per vendere le loro creazioni. Possiamo mettere a disposizione uno spazio in affitto, che pensavo di offrire gratuitamente per i primi tre mesi. Noi prenderemmo una percentuale sulla vostra vendita come rimborso per il mantenimento degli spazi e la pubblicità. Cosa gliene pare?»

«Interessante».

«Posso occuparmi di assumere una commessa fidata, a meno che non abbia già in mente qualcuno».

«Ho un’amica che vive a Galle. I suoi figli hanno appena iniziato la scuola, e penso sia disponibile».

«Ci piacerebbe tantissimo poter vendere le sue magnifiche stoffe».

La donna le sorrise, discussero brevemente per accordarsi sui prezzi e poi si strinsero la mano.

Non restava che andare all’ufficio di Elliot, quello della società delle spezie. Da quanto sapeva, lì gli affari andavano avanti più o meno da soli, ed era più che altro una visita formale. Nihil, il manager, la stava aspettando e appena arrivata le fece subito le condoglianze.

«Siamo rimasti tutti scioccati», le disse, «quando suo padre ci ha detto cos’era successo. Abbiamo portato avanti il lavoro, come d’accordo con lui, in attesa di una sua visita, e ora eccoci qui».

«La ringrazio», gli disse Louisa con un sorriso sforzandosi di mantenere quello scambio il più possibile leggero. «È molto gentile».

«Ha già pensato cosa fare di questa società?».

Annuì. Almeno lì non c’erano ricordi a tormentarla. «L’unico piano che ho è di andare avanti».

Nihil sembrò sollevato. «Temevo che volesse vendere».

«Non nell’immediato futuro, ma vorrei vedere i bilanci».

«Certamente. Vado a prenderli».

Tirò fuori due faldoni neri da un armadio.

«Suo marito ha trasferito una somma consistente, immagino servisse per un’acquisizione».

«Posso vedere?»

«Certo, ecco».

Vedendo le cifre si disse che effettivamente con quella somma poteva aver pagato l’anticipo per la tipografia. Restava ancora da capire che fine avesse fatto la restante metà dei soldi che lei gli aveva versato sul suo conto personale e che sarebbe dovuta essere ancora lì.

«Ma non siamo in rosso, vero?»

«Assolutamente no. Anzi, ci troviamo in una fase in cui sarebbe opportuno allargarci».

Louisa capì che non era una grande azienda, ma che le cose giravano bene. Promise di tornare a Colombo una volta al mese per assicurarsi che tutto filasse liscio e che avrebbe fatto il possibile per incrementare i rifornimenti di materie prime.

Subito dopo raggiunsero in macchina i Cinnamon Gardens, chiamati così per via della piantagione di cannella che un tempo occupava quell’area, dove avevano appuntamento con Savi Ravasinghe. Le strade erano costeggiate da alberi e grandi case coloniali. Savi abitava all’ultimo piano di una di queste, che era stata divisa in due appartamenti. La villa era circondata da un ampio giardino pieno di alberi e cespugli di rododendro. Louisa cominciava a patire il caldo e si passò una mano sulla fronte.

«Ma tu non hai caldo?», chiese a Margo.

«Oggi non si respira».

«Io non vedo l’ora che inizi la stagione delle piogge». Louisa evitò di aggiungere che sperava che l’intensità delle piogge avrebbe spazzato via anche il suo dolore, e l’incertezza che la consumava. Quand’era piccola le piaceva uscire in giardino di nascosto, con indosso solo il pigiama, allungare le braccia verso l’alto e toccare la pioggia. In genere la sua ayah la trovava e la riportava in casa, ma quanto le piaceva quella selvaggia libertà di stare fuori sotto la pioggia battente.

Savi andò loro incontro, elegante ed esotico come sempre.

«È un piacere rivederla», disse porgendo una mano a Louisa.

Gli presentò Margo, e poi lo seguirono su per le scale fino a un’ampia camera invasa dalla luce del sole, grazie a una fila di finestre che occupava l’intera parete. Il pavimento era coperto di piastrelle e bellissimi tappeti – persiani, come spiegò – e i muri bianchi erano pieni di quadri.

«Non sono tutti suoi?», gli chiese Louisa.

«I ritratti sono miei, i paesaggi di un amico».

Louisa li guardò, ammirò i colori tenui dei paesaggi e quelli più accesi dei ritratti. «Adoro il fatto che abbia scelto di ritrarre il volto di persone normali. Mi piacerebbe esporre alcuni di questi nella mia galleria».

«Ci sono anche altri ritratti di qua, non sono miei però». Le fece strada lungo un corridoio. Davanti al primo ritratto le si seccò la gola. A restituirle lo sguardo dal quadro c’era Elliot, inequivocabilmente, con il braccio attorno a una donna dai capelli rossi.

«Sono quadri di una mia conoscente», disse Savi. «Zinnia. Abbiamo parlato di lei quando ci siamo conosciuti, mi pare, anche se all’epoca non ricordavo il suo nome. Li ho trovati da poco in saldo e li ho comprati a buon prezzo. Non mi dispiacerebbe venderli. Li trovo particolarmente belli».

Louisa trovò una scusa e disse che preferiva tornare a guardare i dipinti nella sala. Erano più nelle sue corde, disse, ma Margo li aveva seguiti lungo il corridoio e quando Louisa si girò vide la cognata che fissava il ritratto di suo fratello a bocca aperta.

«Sono belli, non trovi, Margo?», le disse. «Ma vieni a vedere questi altri».

Si scambiarono uno sguardo, poi li raggiunse nella sala principale, visibilmente scossa. Louisa guardò la luce che entrava dalle finestre, le parve che tutti i colori attorno a lei iniziassero a girare e si sentì nuovamente accaldata. Temette per un attimo che sarebbe svenuta e allungò un braccio come per attutire l’eventuale caduta.

«Tutto bene?», le disse Margo ridestandola.

Fece qualche respiro e recuperò l’autocontrollo. Disse a Savi che sarebbe stata felice di esporre i suoi ritratti e anche i paesaggi, ma che ci sarebbe voluto ancora un po’ prima che la tipografia diventasse un negozio.

«Sarei felice di dipingere qualcosa di esclusivo. Forse qualcosa di più piccolo e facilmente trasportabile? Magari la prossima volta che tornerò in Sri Lanka».

«Bene, sarebbe perfetto».

Mentre si allontanavano Margo le chiese: «Ti senti bene?»

«Penso di sì. Avevo già visto quei ritratti quando sono andata alla piantagione».

«Dev’essere stato uno shock. Per me lo è stato».

«Avevo visto ritratti di lui con il bambino, ma non di lui con lei. E non pensavo che fossero quadri destinati alla vendita. Non so perché, ma ero convinta che li facesse per tenerli. Che fossero privati, in un certo senso».

«Magari aveva bisogno di soldi».

«Sì. Eppure ho il sospetto che Elliot si sia indebitato a causa sua. E non credo fosse felice che lei vendesse quadri in cui c’era lui. Mi verrebbe voglia di comprarli tutti e dargli fuoco».

«Sono un po’ troppo realistici, comunque».

«Rendono perfettamente l’idea». Louisa deglutì e disse a bassa voce: «Mi sembravano felici insieme, a te?».

«E se erano davvero tanto felici, perché non ti ha lasciato allora?»

«Perché il tuo uomo sposato non ha lasciato sua moglie?».

Margo si strinse nelle spalle, più triste che mai. «Non era previsto che lo facesse».

«Forse non facciamo che innamorarci delle persone sbagliate».

«A me è successo, ma questo non giustifica Elliot».

«Perché no?».

Margo sospirò. «Non posso giustificare quel che ha fatto, né posso giustificare quel che ho fatto io».

«Hai provato a mettere fine alla vostra relazione?»

«All’inizio, ma poi ero come ossessionata, non facevo che pensare a lui e alla fine l’ho richiamato».

«Non è tanto il fatto che Elliot si sia potuto innamorare di un’altra, anche se ovviamente c’entra anche questo, ma è soprattutto l’inganno che mi distrugge».

«Io non posso perdonarmi. E forse anche Elliot si sentiva allo stesso modo».

«Be’, aveva tutte le ragioni per stare con me, no? Tanti soldi, una bella casa grande, il suo lavoro. Se mi avesse lasciato, di sicuro mio padre non l’avrebbe tenuto. Che stupida sono stata a offrire il mio cuore a una persona che l’ha calpestato così».

«Di sicuro non glien’è mai importato niente dei sentimenti altrui, ma ti amava. Di questo ne sono certa».

«Davvero?».

25

Louisa camminava su e giù per la sua camera da letto, gettando di tanto in tanto un’occhiata alla cassettiera di Elliot. Si mangiò le unghie e, determinata a farla finita una volta per tutte, decise che l’unica cosa da fare era sbarazzarsi di tutte le sue cose. “Fuori. Voglio liberarmi di tutto”, pensò. “Così forse riuscirò a liberarmi anche di lui”.

In tono deciso e forzatamente allegro chiese a un inserviente di aiutarla a preparare un fuoco in giardino, senza ancora accenderlo. Portarono fuori vecchi giornali e trascinarono qualche ramoscello di quelli che aveva tagliato e messo a seccare. Poi salì di nuovo in camera da letto e osservò per qualche istante l’armadio prima di tirare fuori tutte le camicie e i vestiti di Elliot impilandoli sul letto. Poi aprì i cassetti uno dopo l’altro gettandone il contenuto sul pavimento. Per poco non le si fermava il cuore ogni volta che passava la mano su quegli indumenti, così familiari. Si portò una camicia al naso per cercare una traccia del suo profumo al cedro, poi provò con un’altra, ma erano state tutte lavate e non si sentiva più niente. Cercò nelle tasche dei vestiti e delle giacche e in un vecchio paio di pantaloni trovò una busta. Era sigillata ma non c’era scritto un nome né un indirizzo.

L’aprì, e lesse:

Mia cara,

non immagini quanto mi faccia soffrire sapere che vuoi mettere fine alla nostra relazione. Come sai, non sono potuto venire a trovarti spesso come avrei voluto perché Louisa ha perso il bambino e sono dovuto rimanere accanto a lei. Non è stata una mia scelta. Lo capisci, no? Puoi ripensarci? Cercherò di tornare il prima possibile, e devi sapere che io ti amo. Mi devi credere, ti prometto che presto verrà il nostro momento. Mi dispiace che sia passato già così tanto tempo, non vedo l’ora di poter stare con voi, e non manca tanto prima che io sia finalmente in grado di prendermi cura di voi.

Ho bisogno di mettere da parte un altro po’ di soldi prima di poterti offrire la vita che meriti, e per questo è meglio che io resti qui ancora un po’. Ho investito in un nuovo affare, una vecchia tipografia che dopo una ristrutturazione potrò rivendere per guadagnarci. Ti ho detto sin dall’inizio che amavo ancora mia moglie, ricordi? Ma certo, le cose sono cambiate quando è arrivato Conor. Ti prego, abbi cura di te e di lui. Ti manderò dei soldi tramite Leo se non potrò venire, e porterò un po’ dei tuoi quadri a Colombo per metterli in vendita. Ti prego, nel frattempo, di tornare sulla tua decisione. Non lasciarmi, amore. Non potrei sopportarlo.

Sempre tuo,

Elliot

Louisa la rilesse due volte e le venne da vomitare. Poi la strappò in mille pezzi e la gettò nel cestino, con la sensazione di aver fatto a brandelli la sua stessa vita. Non solo Elliot non aveva alcuna intenzione di mettere su quell’emporio con lei, ma voleva anche lasciarla. Un vero colpo di grazia, per il suo povero cuore.

Avvolta dal silenzio, fu travolta da un impeto di rabbia. Afferrò un mucchio dei suoi vestiti e uscì in giardino per accendere il fuoco. Iniziò a buttarci dentro tutto, prima le camicie, poi i vestiti, e infine le cravatte. Ogni tanto rientrava in casa a fare un altro carico e guardava le cose bruciare. “Via”, pensava. “Voglio disfarmi di tutto”. L’inserviente osservava la scena incredulo. Doveva sembrargli uno spreco, pensò Louisa, ma non sopportava l’idea che quei vestiti continuassero a esistere. Quanto aveva amato quell’uomo… Mentre i suoi abiti bruciavano scoppiettando nel fuoco Louisa iniziò a ridere selvaggiamente. Quel fuoco non stava solo nutrendo la sua rabbia: l’energia distruttiva stava iniziando a fare il suo effetto.

Era esaltata, quasi inebriata dal sollievo.

Sentì di colpo una voce alle sue spalle. Si voltò e vide Irene che la guardava immobile e atterrita. Accanto a lei c’era Harold, che le teneva un braccio attorno alle spalle, e Ashan con le loro valigie in mano. «Mi spiace, signora, avrei voluto avvisarla ma hanno insistito per entrare».

«Che cosa stai facendo?», strillò Irene. «Cosa stai facendo con i vestiti di mio figlio?».

Louisa non si mosse. «Irene, penso che sia evidente che li sto bruciando».

Irene corse verso il falò cercando di salvare una camicia con l’aiuto di un bastone. L’afferrò, tenendola a distanza ancora fumante. Louisa quasi scoppiò a ridere di nuovo vedendo il patetico gesto della suocera e Harold che tentava di tirarla via.

«Lascia!», le disse.

«Ma perché? Perché lo stai facendo?»

«Che cosa ti aspetti che faccia?»

«Ma non è troppo presto?», disse Harold. «Sembra che tu voglia liberarti di lui».

Louisa li guardò con freddezza. «Volete la verità? Magari potessi. Anzi, meglio ancora: vorrei non averlo nemmeno mai incontrato».

E così dicendo si girò e andò a chiudersi a chiave in camera sua, dove passò il resto del pomeriggio convinta di vivere in un mondo per lei ormai inconcepibile. Ashan bussò diverse volte alla porta chiedendole dolcemente di aprire e portandole bevande fresche, ma non si sentiva in condizioni di vedere nessuno.

Decise di vestirsi per la cena. Aspettava suo padre e voleva fare uno sforzo per amor suo.

Era furiosa all’idea che Irene e Harold si fossero presentati senza preavviso, ma non poteva certo mandarli via… Trovare quella lettera aveva stravolto ogni cosa. L’euforia scatenata dal falò non era durata a lungo e appena le tornava in mente la lettera le veniva voglia di correre in bagno a vomitare. Per Irene, Elliot era stato l’unico figlio maschio sopravvissuto, e ci sarebbe voluto un notevole autocontrollo per non urtare la sua sensibilità. Non era certa di riuscire a dissimulare la situazione, specialmente ora che agli occhi della madre Elliot era diventato ancora più santo di quanto non fosse mai stato.

Sospirò. Perché doveva essere tutto così difficile? Fece un bagno e si lavò i capelli per eliminare ogni traccia di fumo, poi indossò un sobrio abito in seta grigia e le perle e infine si avviò in salone, dove Irene e Harold erano già accomodati sul divano. Si guardò attorno. Irene aveva l’abitudine di spostare gli oggetti dove riteneva che stessero meglio, e nonostante Louisa avesse già discusso con Elliot in proposito, lui le aveva risposto che la riteneva una questione talmente sciocca che non valeva nemmeno la pena sollevarla. Louisa invece la considerava un’ennesima forma di interferenza.

Irene si tirò su sbuffando, con uno sguardo glaciale. «Vedo che hai deciso di degnarci della tua presenza».

Louisa strinse i denti. «Benvenuta, Irene. E vale anche per te, Harold».

Il suocero le sorrise debolmente.

«Forse ti va di spiegarci perché stavi bruciando i vestiti di mio figlio?», chiese Irene.

«Era arrivato il momento».

«Non ti è venuto in mente di chiederci se volessimo tenere qualcosa per ricordo?»

«I suoi abiti non avevano niente a che fare con voi. Potete tenere la sua penna, la pipa, la spazzola. Anzi prendete quello che volete, ci sono ancora tantissime cose. Scegliete pure».

«Ma niente che abbia indossato».

«Non credevo…».

Irene la interruppe. «Ed è proprio questo il punto. Come lo è sempre stato. Non pensi mai a me».

«Sono sicuro che non era quello che intendevi», disse Harold tentando di prendere la mano di sua moglie. Irene si scansò.

Louisa andò a versare tre bicchieri di sherry. «Vi prego, cerchiamo di non discutere. Sono veramente troppo stanca».

Irene non rispose, ma accettò il bicchiere.

Suonò il campanello e Louisa sentì Ashan andare ad aprire e dopo qualche istante entrò Jonathan, seguito da Margo.

«L’ho trovata alla stazione che litigava coi bagagli».

Margo rise. «E così, da gentiluomo, mi ha portato la valigia. Ho preso il treno per raggiungervi, per fortuna non c’era vento e mi sono risparmiata gli spruzzi di mare dal finestrino».

Irene si alzò tendendo le mani alla figlia.

Margo l’abbracciò, mentre lei sembrò quasi avvinghiarsi.

«Spero che non ti dispiaccia se sono venuta così all’improvviso, Louisa».

«Assolutamente no. Più siamo meglio è», esclamò sinceramente felice di vedere sua cognata. «Sicuramente il cuoco troverà soluzioni creative per la cena».

Dopo che tutti si furono accomodati con un bicchiere in mano calarono il silenzio e una certa tensione. Jonathan cercò di ravvivare la conversazione.

«Dunque, Irene, cosa ne pensi di questo governo?»

«Sarà meglio che tu lo chieda a mio marito. Non mi interesso di certe questioni, mentre sono sicura che lui ha più il polso della situazione, non è così, caro?».

Harold annuì.

«In linea di massima sì».

«Non pensate che il consiglio dei ministri dovrebbe controllare anche la polizia e l’esercito?», chiese Jonathan.

«Lui è convinto che l’opzione migliore sia che rimangano sotto il comando inglese», rispose Irene mentre Harold sospirava rassegnato. «Sarebbe assurdo che questa gente decidesse anche su leggi e ordine pubblico, no? Io dico che sarebbe meglio tenere tutto in mano nostra».

«Questa gente, Irene?», disse Jonathan con aria sbigottita.

«Mia moglie sicuramente non intendeva…».

Si intromise Margo. «Non c’è bisogno che tu la difenda sempre, papà. Dài, mamma, fammi un po’ di posto che voglio sedermi accanto a te».

Irene si spostò e Margo sedette tra il padre e la madre.

«Allora», disse Louisa al padre a bassa voce mentre Margo e Irene sembravano assorte in una conversazione sulla scomodità del viaggio in pullman. «Sei andato alla polizia? Hanno scoperto qualcosa?»

«Sì, l’ho fatto, ma penso che sarà inutile».

«Non hanno intenzione di prendere provvedimenti?».

Jonathan si strinse nelle spalle. «Non mi è sembrato che avessero le idee molto chiare veramente».

«Prendere provvedimenti?», si intromise Irene. «Che fate, parlate per enigmi?».

Jonathan lanciò un’occhiata alla figlia, che gli fece cenno di no con la testa. «Niente di importante».

«Ebbene, oggi ho trovato tua figlia che dava fuoco a tutti i vestiti di Elliot. Che ne pensi di questa?»

«Sono sicuro che mia figlia abbia fatto quel che andava fatto», rispose Jonathan. «Non può restare attaccata a ogni cosa, né deve».

«E poi, mamma, sono scelte personali non ti pare?», aggiunse Margo.

«Precisamente. E credo che Louisa stia passando un periodo già abbastanza difficile senza le nostre intromissioni».

Irene era furiosa. «A nessuno importa dei miei sentimenti», disse. «A nessuno».

«Irene, questo non è giusto», intervenne Harold. «Siamo entrambi scossi, ma…».

«Te lo dico io che cosa non è stato giusto. Sposare una donna che non è stata in grado di dargli un figlio vivo. Io non aspettavo altro. Forse era sperare troppo? Elliot sarebbe stato un padre fantastico. Premuroso, responsabile».

«Mamma», disse Margo in tono minaccioso mentre Harold scuoteva la testa.

«Volevo solo un nipote».

In un baleno Louisa si alzò in piedi, colma di rabbia e incapace di trattenerla. «Puoi star tranquilla, Irene, il tuo desiderio è già stato esaudito!».

«Di che diavolo parli?».

Louisa guardò Margo, che le stava facendo cenno di fermarsi, ma aveva già detto troppo ormai per rimangiarsi tutto. «Ce l’hai un nipote, Irene. Un piccolo figlio illegittimo. Spero che sia di tuo gradimento».

Preparandosi per andare a letto, Louisa ripensò a quel che era successo. Era mortificata per come erano andate le cose, e sapeva che rivelare tutto a Irene non era stata una buona idea. Le possibilità erano due: avrebbe negato la cosa con tutte le sue forze, oppure al contrario avrebbe insistito per essere coinvolta in prima persona nella crescita del bambino. In ogni caso Louisa doveva avvisare Leo. Prese la penna di Elliot, quella che lui teneva sempre sul suo comodino e iniziò a scrivere al proprietario di Cinnamon Hills. La mattina dopo avrebbe dato quella penna a Irene, chiedendole di prendere qualsiasi altra cosa desiderasse. Rigirandosela tra le mani si ricordò di Elliot che scriveva i suoi appunti prima di spegnere la luce.

Ripensò a quando si erano incontrati la prima volta. Lei era uscita in bicicletta e, nonostante fosse chiaro che avrebbe iniziato a piovere, si era avventurata fin sulla costa. Dopo un’ora il monsone aveva iniziato a dare il meglio di sé e il vento l’aveva sbalzata fuori strada. Nonostante si fosse ferita a una gamba aveva trovato il modo di mettersi dietro una roccia per ripararsi dalle raffiche, ma nel giro di poco era completamente zuppa di pioggia. Era trascorsa già mezz’ora quando, con grande sollievo, aveva visto arrivare una macchina. Dopo aver rallentato, il guidatore era sceso ad aiutarla, facendola salire sul sedile posteriore e caricando la bici nel portabagagli. Arrivati al Forte, si erano fermati a prendere una cioccolata calda. Elliot non voleva ripartire prima di essersi assicurato che qualcuno le medicasse la ferita, ma il tempo era comunque troppo brutto per proseguire verso Colombo in macchina, e così si era fermato a Galle per la notte, e poi il giorno dopo, e quello dopo ancora. Louisa si era innamorata di lui, del suo fascino, fin dal primo istante, con il cuore colmo di speranza per il futuro.

Mise giù la penna e decise di non mandare alcuna lettera a Leo. Sarebbe andata a trovarlo di persona.

26

Louisa si alzò quando l’alba stava colorando il cielo di un tenue color lilla, che si rifletteva sul mare come un pallido rosa. Era la sua ora del giorno preferita. Guardò dalla finestra verso le colline a nord, ancora avvolte da una leggera nebbiolina, e anche in giardino le foglie erano coperte di rugiada. A volte le capitava di sorprendere uno zibetto, attratto dai dolci semi della palma, ma non quel giorno. I suoi alberi di durio e di giaca attiravano moltissimi uccelli, e a lei piaceva molto guardarli. Intravide un solitario piccione imperiale fermo sul prato, con le sue ali argentate.

Non poteva permettersi di indugiare. Con la casa così piena di gente, rischiava di dover rendere conto a qualcuno circa i suoi programmi. Anche Jonathan si era fermato a dormire, forse pensando che la figlia avesse bisogno di un sostegno morale, data la presenza ingombrante di Irene.

Alla scioccante rivelazione di Louisa era seguita una raffica di domande. Chi è il bambino? Sei sicura che sia suo? Come l’hai scoperto? Lo sapevi da prima? Perché io, che sono la nonna, non ne sono stata informata? Poi quando aveva scoperto che anche Margo già sapeva di Conor era andata su tutte le furie. Non dava l’impressione di rendersi conto che l’esistenza stessa di questo bambino implicava il fatto che Elliot avesse tradito la moglie.

Louisa si vestì in fretta e scese in cucina, dove il cuoco stava ancora accendendo il fuoco sotto il bollitore. Niente caffè, quindi. Mentre saliva in macchina ripensò a un’idea che le era venuta per la sua nuova attività, quella delle spezie. Il manager, Nihil, le aveva detto che i tempi erano maturi per espandersi, e forse Louisa sapeva in quale direzione. Guidando lungo la costa pensò a cosa dire una volta arrivata. Prima di tutto avrebbe dovuto avvisare Leo che Irene sapeva dell’esistenza di Conor. Forse non sarebbe cambiato nulla, ma non si poteva mai sapere. E infine gli avrebbe parlato della sua idea.

A metà della salita che portava in cima alla collina individuò la sagoma della casa di Zinnia nascosta tra gli alberi. Serrò la mascella. “Ma che sto facendo”, pensò. Era una follia coinvolgere Leo nella sua idea? Eppure qualcosa dentro di lei, forse quel briciolo di speranza e di fiducia che le restavano, le diceva di andare avanti. Magari quel suo piano non era che un atto di ribellione, concepito a dispetto del tradimento di Elliot. In ogni caso era decisa, e non si sarebbe tirata indietro.

Fermò la macchina prima di arrivare e scese per annusare l’aria, godendo del profumo di cannella mescolato a quello, salato, del mare. Si guardò attorno. Avrebbe trovato Leo intento a lavorare? O intravisto il bambino, da qualche parte? Non vedendo nessuno, riprese la salita in macchina. Venire a sapere dell’esistenza di quel bambino l’aveva stravolta, ma non poteva evitare di ricordarsi che quel ragazzo aveva perso suo padre, ed essendo lei stessa cresciuta orfana di madre, sapeva quanto un’esperienza simile potesse essere dolorosa a quell’età.

Si fermò in cima, spense il motore e scese ad ammirare il paesaggio. Gli uccelli stavano ancora cantando e per un momento si godette la sensazione di trovarsi in mezzo a una piantagione circondata dalla natura. La sua voce la colse di sorpresa e si voltò di scatto. Indossava i consueti pantaloncini ormai logori e una camicia azzurra, che metteva ben in risalto il colore dei suoi occhi e il rosso dei capelli.

«Leo».

«Ciao. Non mi aspettavo di rivederti qui».

«Devo parlarti».

«Facciamo due passi?».

La condusse lungo un sentiero stretto tra gli alberi di cannella. Uno sciame di farfalle esotiche volò loro accanto.

«Di che si tratta?».

Louisa deglutì. «La madre di Elliot è venuta a sapere di Conor».

«E…?»

«Non è una donna facile. Potrebbe voler interferire».

Si grattò la testa. «Non saprei. Se fosse disposta a rendersi utile ora che Zinnia è malata, la cosa potrebbe non essere poi tanto male».

Louisa inorridì. «Io mi sento di sconsigliarlo assolutamente. Non si limiterebbe a rendersi utile. Vorrebbe prendere in mano ogni cosa, e sarebbe terribile».

«Sa che il bambino è qui?».

Louisa scosse la testa. «Non le ho fornito dettagli, le ho solo detto che esiste. E vorrei non averlo fatto».

«Se fossi in te non mi preoccuperei». Esitò, sembrava pensieroso. «Spero che Zinnia si rimetta presto. Nel frattempo, sto facendo del mio meglio per Conor. È così solo… cerco di mangiare con lui tutti i giorni e di portarmelo dietro quando mi è possibile».

«Il fatto che sia illegittimo potrebbe dissuadere Irene dal farsi viva».

Annuì, fece qualche passo e poi si voltò a guardarla.

«Cosa c’è?», gli domandò.

«Mi stavo chiedendo se ti andasse di bere qualcosa con me, o magari di visitare la piantagione».

Era esattamente quello che voleva e, pensando all’idea che le girava per la testa da quella mattina, annuì. «Raccontami, mi piacerebbe sapere come si produce la cannella. È un processo molto complicato?»

«La prima cosa che devi sapere è che i lavoratori vengono pagati a provvigione sul profitto, quindi più la squadra è efficiente e produttiva, più guadagnano. Dunque, un terzo del mio ricavo serve a pagare loro».

Camminavano lungo un ampio sentiero pieno di foglie. «La raccolta è molto laboriosa. La facciamo due volte l’anno, ma la cosa migliore è lavorare la corteccia durante la stagione delle piogge, perché è più cedevole».

«Quindi al momento non state raccogliendo?»

«Facciamo altre cose, tagliamo gli alberi per rinnovarli e raccogliamo le foglie secche per la produzione dell’olio».

«Una bella fatica».

Sorrise e Louisa non poté fare a meno di notare quanto apparisse a suo agio in quell’ambiente.

«Quando facciamo la raccolta tagliamo i rami, grattiamo via la corteccia esterna e spelliamo il tronco di quella interna, che in questo modo si arriccia a formare le classiche stecche. Se ci sono sezioni di corteccia più ampie le arrotoliamo riempiendole di stecche più piccole e frammenti, e poi le tagliamo in pezzi di circa un metro».

«E la cannella dello Sri Lanka è particolarmente buona?»

«Ha caratteristiche particolari, sì, ed è famosa in tutto il mondo. Lo sapevi che è stata portata per la prima volta in Medioriente via mare nell’antichità? E dicono che Nerone l’abbia utilizzata al funerale di sua moglie. La nostra cannella ha provocato anche delle guerre. Posso farti vedere come produciamo l’olio, se vuoi».

«Volentieri».

«Si raccolgono gli steli al mattino, quando fa ancora fresco, e si portano con i carretti o con i trattori fino ai capanni di lavorazione, mentre le foglie possiamo raccoglierle in qualsiasi momento».

La stava conducendo giù per la collina, verso un gruppo di capanne dal tetto di paglia piene di fumo e di vapore. Dietro un angolo c’era un fuoco acceso sotto un semplice bollitore.

«Produciamo l’olio dalle foglie e dai rametti. Col vapore».

Vide un uomo che riempiva una tinozza cilindrica di foglie e un altro, dentro, che pigiava.

«Dev’essere caldissimo».

«Sì. Lui ha il compito di pigiare le foglie finché non sono ben compattate. Ecco, ha quasi finito, guarda».

L’uomo uscì dalla tinozza e sigillò il tutto con del fango.

«Vedi quel tubo lì in basso?».

Louisa annuì.

«Ci passa dentro il vapore, attraverso il bollitore, estrae l’olio dalle foglie e poi riesce. Il vapore si condensa in liquido mentre passa attraverso un tubo immerso in acqua fredda».

«E poi?»

«Il liquido si va a raccogliere in un tubo e da lì recuperiamo l’olio, che anche grazie alla forza di gravità si separa dalla componente acquosa».

«È molto affascinante, e vedere tutto ciò mi ricorda la seconda ragione che mi ha portato qui oggi».

«Posso offrirti un caffè su in casa?»

«Volentieri».

Tornarono indietro in silenzio, a parte il suono dei loro passi sulle foglie secche lungo il sentiero. Una volta a casa, salirono le scale per accomodarsi in veranda e Leo ordinò il caffè.

«Ami molto questo posto, vero?», gli chiese.

Sorrise, e gli si illuminarono gli occhi. «Direi di sì, anche se a volte mi fa impazzire!».

«Come tutto ciò che amiamo».

«Immagino di sì».

Respirò a fondo prima di iniziare. «Non so come sei organizzato per l’esportazione della tua cannella, ma… Elliot aveva una società che esporta spezie in tutto il mondo. Adesso è mia, e credo sia giunto il momento di allargarci un po’. Mi chiedevo se fossi interessato a esportare attraverso di noi. Farò in modo che il mio manager ti tratti bene».

«Caspita, non me l’aspettavo», rispose lui evidentemente interessato. «Stavo giusto pensando di cambiare intermediario. Lavoro con una persona, a Galle, ma la mia produzione ormai è troppo grande per lui».

«Posso presentarti Nihil, il mio manager a Colombo. Che ne dici di dopodomani?»

«Mi sta bene. Si occuperà Kamu di Conor, per questa volta».

«Sì».

Sorrise. «Affare fatto allora. Non posso passare a prenderti con il furgone perché è guasto e non si riesce ad aggiustare. Però… non so se ti va… potremmo andare in moto, anche se è una vecchia lamiera e significherebbe rientrare molto tardi».

Perché no, si disse Louisa. Non era tempo di prendere il volo? «L’idea mi piace», rispose. Poi esitò un momento. Prima di fare quella domanda voleva provare a sembrare più calma di quanto fosse in realtà. «Come sta tua cugina?».

Si strinse nelle spalle. «Ultimamente un po’ meglio».

«Non so bene come dirlo, ma… se dovessimo lavorare insieme io preferirei non vederla».

«Non viene spesso a trovarmi, sono io che vado da lei».

«Di cosa vive?».

Sembrò un po’ imbarazzato. «Elliot la aiutava. Credo che abbia ancora qualcosa da parte». Distolse lo sguardo. «Mi spiace».

Louisa scosse la testa. «Vende anche i suoi quadri?»

«Era Elliot che li portava a Colombo per lei».

«Li ho visti», disse lei sospirando. «Quando andiamo a Colombo posso passare in banca a ritirare i soldi che Elliot ti ha lasciato. Puoi assicurarti che li riceva?»

«Sei molto gentile».

«No, non è questione di gentilezza. È questione di legge. E poi ha un bambino da crescere. Va a fare la spesa in paese?»

«Ci andava, sì, ma da quando è stata male ci pensa il mio inserviente. Quando va a comprare qualcosa per me pensa anche a lei».

«Quindi le dai una grande mano?»

«Faccio del mio meglio. È Conor che mi preoccupa, è un bambino molto particolare, mi tocca il cuore».

«Forse dovrebbe andare a scuola, come mi dicevi. I bambini hanno bisogno di stare con gli altri bambini, no?»

«Prova a dirlo a Zinnia».

Una volta a casa, trovò Margo ad aspettarla. «Mia madre sta riposando e papà è tornato a Colombo per lavoro. Abbiamo pranzato, ma sono avanzate molte cose. Non fa che parlare di questo nipote».

«Temevo che sarebbe accaduto».

Andarono in sala da pranzo e Louisa chiese ad Ashan di portarle qualcosa da mangiare.

«È un’insalata niçoise che ha preparato la ragazza francese, Camille. Non sapevo a che ora saresti tornata e ho optato per qualcosa che non avesse bisogno di essere scaldato», le disse Margo.

«Sono andata da Leo».

Margo fece un’espressone stupita.

«Può darsi che iniziamo a lavorare insieme», disse Louisa ridendo.

«Be’, non mi dispiace per niente l’idea che tu lo veda spesso».

«Mi ha portato a fare un giro per la piantagione».

«Immagino che sia stato interessante. Però… ascoltami, la ragione per cui sono qui è che ho una cosa da dirti. Con tutto quello che è successo ieri sera non ho avuto occasione di parlartene, poi stamattina sei andata via così presto…».

«Cioè?»

«Ieri, dopo che i miei sono partiti, è venuto un signore a casa nostra. Ha detto che cercava i genitori di Elliot per certi debiti che aveva lasciato. Non mi ha detto come si chiama. Non ho riferito niente a nessuno, per ora, ma ho pensato che fosse giusto dirlo a te».

«Maledetti debiti… dico davvero, mi si spezza il cuore. L’hai riconosciuto? Non era quell’uomo, De Vos, che abbiamo visto dal gioielliere il giorno che siamo andate alla tipografia? Ti ricordi?»

«No, non era lui. Mi sembrava che avesse un accento strano, ma non ne sono sicura. Mi ha colto un po’ alla sprovvista. La polizia non ha fatto progressi rispetto alle indagini per l’effrazione?»

«Non hanno alcuna traccia, dicono. E io continuo a non capire come facessero i ladri a sapere che in quel momento eravamo fuori».

27

Quando finalmente De Vos si presentò con il contratto, scusandosi per il ritardo, Louisa vide che era un accordo per un carico di gomma. Nelle sue solite maniere affettate, le disse che era una copia carbone, e che aveva l’originale in cassaforte, ma sperava che avrebbe fugato comunque ogni dubbio circa la veridicità del debito.

«Facciamo così», disse lei studiando confusa il contratto. Non le risultava che Elliot si fosse mai interessato al commercio della gomma. «Me lo lasci, e lo guarderò con calma».

Dopo che se ne fu andato, chiamò i cani e andò a passeggiare al Forte. Era maggio inoltrato, il mare era molto mosso e l’aria piena di insetti. Il vento le scompigliava i capelli, che spesso le finivano sugli occhi facendola lacrimare. All’orizzonte, una striscia gialla separava il mare dal cielo grigio, mentre sopra la sua testa volteggiavano i gabbiani. Restò in ascolto del respiro dell’oceano, delle onde che si gonfiavano e si infrangevano. Segno che la stagione dei monsoni non era lontana. Sapeva bene che viaggiare fino a Colombo in sella a una motocicletta era una scelta poco saggia, ma non aspettava altro che di poter riprendere a vivere lontano dall’ombra di Elliot. E un giro in moto era proprio quel che ci voleva. Magari avrebbe finito con l’inzupparsi tutta, ma sicuramente le avrebbe fatto battere il cuore. Si rigirò la fede sul dito. Era ora di toglierla?

Il mattino seguente si alzò alle sei per aspettare Leo. Aprì le finestre per godersi la vista sul cielo azzurro, ma anche Irene si era alzata presto e Louisa notò che aveva gli occhi rossi di pianto. Le fece tenerezza.

«Come stai, Irene?», le domandò in tono conciliante. «Vuoi del tè?».

Irene non faceva che torcersi le mani, senza parlare.

«Irene?».

Le parole le uscirono d’un fiato. «L’idea che avesse un figlio, per tutti questi anni. Com’è possibile che tu non lo sapessi?»

«Non lo sapevi neanche tu», le disse dolcemente Louisa.

«Ma tu vivevi con lui!».

«Partiva spesso, mi ci ero abituata».

Irene scosse la testa.

Entrò Margo.

«Vi siete alzate prestissimo, che succede?», chiese Louisa.

«Ho convinto mamma a rientrare a Colombo».

«Se pensi sia la cosa migliore», disse Irene soffocando un singhiozzo. «Io ormai non so più che cosa è giusto e cosa è sbagliato».

Louisa non poté fare a meno di notare che la suocera aveva un aspetto stravolto.

«Siediti, Irene», disse offrendole una sedia sulla quale per poco non collassò.

«Però ricordati, mamma, se qualcuno dovesse venire a chiederti di pagare un debito di Elliot devi immediatamente chiamare la polizia», la avvisò Margo.

Irene guardò la figlia con aria confusa. «Cosa? Quali debiti?»

«Non volevo dirti niente, ma sembra che Elliot fosse in difficoltà».

Irene cercò di minimizzare. «Sono certa che non può essere una grossa cifra. Tuo padre e io saremo felici di pagare quello che serve».

«No, mamma, pare che si tratti di una piccola fortuna».

«Non capisco».

«È meglio che tu le dica tutto», suggerì Louisa.

Margo spiegò alla madre quel che sapeva, mentre Louisa guardava a terra, con il cuore in gola. Ascoltare quella storia raccontata tutta insieme fu un vero colpo. Che genere di idiota non si sarebbe accorto di nulla? Le pareva quasi di sentirlo, lo spirito di Elliot, che rideva alle sue spalle.

Alla fine, Irene era piegata sulle ginocchia, con la testa tra le mani.

Louisa e Margo si scambiarono uno sguardo. Poi Irene si tirò su e puntò il dito contro la figlia. «Mi rifiuto di credere a una sola parola! Come osi abbassarti al punto da gettare fango sulla sua memoria! Sei sempre stata gelosa di tuo fratello!».

«Mamma, è la verità. Ed è stato uno shock anche per noi».

Irene era in preda all’angoscia. «Questo è davvero troppo, è troppo!».

Louisa vide davanti a sé una donna improvvisamente vulnerabile ed ebbe l’impulso di cercare di consolarla. «Era un buon marito. Non ho mai avuto ragione di sospettare qualcosa».

Irene la guardò con gli occhi pieni di lacrime. «E che mi dici del bambino?»

«Si chiama Conor».

«Tu l’hai conosciuto?»

«Non l’ho conosciuto, ma l’ho visto».

«E gli somiglia?»

«È la sua copia».

«Che posso dire? Sono contenta di tornarmene a Colombo oggi stesso in pullman, a meno che tu non voglia accompagnarmi», disse a Louisa con aria speranzosa.

«A dire il vero anche io sono diretta lì, oggi, ma ci andrò in moto».

«Non ti pare pericoloso? Con il mio caro Elliot che se n’è andato così recentemente?».

Fu il caro a farla scattare, e fu incapace di trattenersi. «Il caro Elliot che ha avuto una relazione clandestina per otto anni? Intendi lui, Irene?».

Le sue parole rimasero sospese nell’aria.

Poco dopo Louisa salì sulla motocicletta, abbracciando timidamente Leo da dietro. Cercò di restare calma, nonostante l’eccitazione generale e il calore del suo corpo così vicino la turbassero molto. Respirò profondamente. I suoi abiti profumavano di cannella e c’era anche una vaga traccia di dopobarba. Durante la corsa riuscì a rilassarsi, godendosi quell’intimità. Quanto le era mancato! Sentirsi connessa, sentire quel tipo di calore, la vicinanza. Lo conosceva appena, ma stargli accanto le dava una grande sicurezza. Era una bella sensazione, molto bella.

Il viaggio fino a Colombo l’avrebbe spettinata, ma non le importava. Nonostante la velocità, sentiva di potersi fidare di lui, e anzi ogni volta che accelerava le sembrava di liberarsi da tutti i suoi freni. Sentire il vento sul viso la rinvigoriva. Di tanto in tanto guardava il mare in tempesta e il cielo che andava scurendosi, ma fino a quel momento ancora niente pioggia. Si ballava parecchio su quella moto, e la consapevolezza dei loro corpi così vicini era costante. Alla fine arrivarono, un po’ stravolti ma sani e salvi. Scendendo sentì tremare le gambe, ma lui le porse subito una mano per aiutarla a tenersi in equilibrio. Gli sorrise e Leo scoppiò a ridere.

«Meglio?», le chiese.

«Decisamente».

Parcheggiò la moto, disse che doveva andare a comprare alcune cose e le diede appuntamento direttamente in ufficio. Le mise una mano su una spalla, e Louisa sentì un piccolo brivido. Lo guardò allontanarsi. Indossava pantaloni di twill e una giacca impermeabile sopra la camicia e la cravatta. Casual, come sempre, ma più elegante di come l’avesse mai visto fino a quel momento. Superò Cargills e raggiunse gli uffici della compagnia delle spezie.

Fuori dall’ufficio c’era un uomo. Avvicinandosi notò che non le stava togliendo gli occhi azzurri e algidi di dosso. Quando le rivolse la parola constatò che aveva l’accento australiano.

«Signora Reeve?»

«Chi vuole saperlo?». Era un po’ in ansia e avrebbe preferito che Leo non l’avesse lasciata. L’uomo era molto più alto di lei e stava bloccando l’entrata.

Sorrise. «È tempo che ci facciamo una chiacchierata».

«Vado molto di fretta, ho diversi impegni che mi aspettano». Era tesa, ma cercò di mantenere un tono deciso.

Il tipo scosse la testa. «Condoglianze per suo marito».

«Lo conosceva?».

L’uomo annuì. «E credo che lei abbia qualcosa che appartiene a me».

Si sentì mancare il fiato ma non abbassò lo sguardo. «Chi è lei?».

Le sorrise di nuovo. «Può chiamarmi Cooper».

«Sono sicura di non avere niente di suo».

«Voglio chiuderla in modo amichevole. Si tratta di una questione finanziaria. Credo che il mio collega, il signor De Vos, gliene abbia già parlato».

«Ah, è un suo collega?».

Annuì.

«Me ne sto già occupando, allora».

«Me lo auguro», le disse prendendole un braccio.

Louisa si guardò indietro e poi guardò di nuovo l’uomo. «Mi lasci».

Sentendo qualcosa, Louisa si voltò di nuovo e vide Leo che stava arrivando spingendo la moto. L’appoggiò addosso a un muro e poi, forse capendo che qualcosa non andava, si mosse velocemente verso di loro. L’uomo lasciò andare il braccio di Louisa.

Leo si irrigidì visibilmente e si avvicinò. Lo sconosciuto era molto alto, ma Leo era chiaramente più forte. Si guardarono in silenzio.

Dopo un po’ l’uomo rise tra sé e si strinse nelle spalle.

Louisa era convinta che Leo l’avrebbe strangolato, invece fece un passo indietro.

«Che cosa sta succedendo, qui?», chiese.

L’uomo non rispose.

«Sarà meglio che se ne vada».

Cooper si pulì le mani addosso e sorridendo freddamente a Leo si allontanò.

Louisa fece un passo indietro e un bel sospiro, portandosi una mano sul cuore.

«Grazie al cielo sei arrivato», disse con una certa angoscia nella voce. «Quell’uomo è un prepotente».

«Che cosa voleva?».

Gli raccontò dei debiti di Elliot. Parlarne era doloroso, proprio come ascoltare Margo mentre lo raccontava alla madre, ma le era chiaro ormai che non poteva più proteggere la reputazione di Elliot.

«Pensi che dovremmo denunciare quest’uomo alla polizia?», gli chiese.

«E dire cosa? Non so se sia un bene, onestamente. Ormai si sarà già dileguato e poi non potremmo comunque accusarlo di niente».

«Mi ha detto di chiamarsi Cooper».

«Dubito che sia il suo vero nome. Vogliamo entrare, intanto? Vuoi ancora farlo?».

Annuì.

«Vado a prendere la moto. Sei sicura di volerlo ancora fare?».

Parcheggiò vicino alla porta dell’ufficio e la tenne aperta per lei. «Mi preoccupa solo il fatto che sembrava proprio che ti stesse aspettando – come poteva sapere che saresti venuta qui proprio oggi? Chi ne era a conoscenza?».

Un brivido la attraversò. Giusto, chi lo sapeva?

Nihil accolse calorosamente Louisa e ordinò caffè per tutti.

Leo e Louisa si accomodarono e Louisa spiegò il motivo della loro visita.

«Dunque», disse il manager rivolgendosi a Leo. «Lei può garantirci una discreta quantità? Molti dei nostri fornitori su al nord sono in crisi per via della siccità, quindi sono molto interessato».

«Lavoro giorno e notte, così come i miei uomini. Produciamo cannella della migliore qualità. Ecco, le ho portato un campione».

Tirò fuori uno stecco dalla borsa.

Nihil lo prese, lo strofinò tra le mani e lo annusò. «Eccellente. Sono sicuro che possiamo farle un’ottima offerta». Scrisse qualcosa su un foglio e lo passò a Leo. «Che cosa gliene pare?».

Leo annuì.

«Direi che ci siamo».

Gli uomini si strinsero la mano e Louisa disse che avrebbe chiesto subito al loro avvocato di redigere il contratto.

«Nihil», chiese poi. «Per caso ha detto a qualcuno che sarei venuta qui, oggi?»

«Potrei averne fatto parola in famiglia, in effetti, ma a parte questo no».

Quando uscirono dall’ufficio stava diluviando.

«Cosa vuoi fare?», le chiese allungando una mano a toccare la pioggia.

Louisa guardò il cielo e fece una smorfia.

«Ho dei mantelli antipioggia nella moto, se può essere utile».

«Oppure potremmo mangiare un boccone e vedere se smette».

«Potrebbe anche peggiorare».

Sorrise e guardò l’orologio. «Già. Ma tu non hai fame?».

Leo annuì.

«E allora andiamo al Galle Face Hotel. Offro io».

«Non devi disturbarti».

«Ma mi fa piacere. Preparano ottimi piatti di pesce quando non è troppo tardi. Possiamo mangiare in veranda e guardare la pioggia. Devo incontrare un avvocato più tardi, per verificare una faccenda. Ti dispiace? Significherebbe che potremmo rientrare in serata».

«Non c’è problema. Ma inizio a chiedermi se abbiamo fatto bene a programmare un’andata e ritorno in giornata».

Dopo aver lasciato la moto in un vicolo, iniziarono a correre, e quando furono finalmente seduti nelle poltrone in rattan sulla veranda del ristorante la pioggia si era fatta ancora più rumorosa, coprendo persino il suono delle posate e dei bicchieri.

«Non è bellissimo?», disse lei a voce alta.

«Meraviglioso».

Ordinarono. Louisa lo osservò mentre guardava la pioggia. Si era tolto i capelli bagnati dalla fronte e la sua pelle luccicava. Che strano, un uomo così bello eppure solo. Si girò anche lei per godersi quella pioggia battente, e quando tornò a rivolgere lo sguardo nella sua direzione vide che lui la stava fissando. Le sorrise, e lei ebbe la tentazione di allungare una mano per accarezzarlo. Invece abbassò gli occhi e arrossì.

La temperatura era scesa parecchio e, a parte le sue guance che andavano a fuoco, era un sollievo sentire un po’ di freddo dopo aver sudato tanto in quell’afosa umidità.

«Dimmi qualcosa di te», le chiese.

«Ho vissuto una vita piuttosto normale».

«Ne dubito».

Ci pensò su. «Almeno fino a poco tempo fa».

«Louisa, io…».

«Sì?»

«Sono contento di questa giornata». Le sorrise di nuovo, rivelando il piccolo ventaglio di rughe che aveva attorno agli occhi.

«Anche io. A parte quell’orribile uomo, quel Cooper».

Dopo pranzo la pioggia sembrava un po’ meno forte. Louisa tirò fuori la copia del contratto che le aveva dato De Vos, controllò l’indirizzo dell’avvocato sulla prima pagina e si alzò.

«Puoi venire con me, se vuoi».

Camminarono per poche decine di metri in una parentesi di tregua dalla pioggia, e ben presto si trovarono sulle imponenti scalinate dello studio Jefferson e Chepstow.

Alla reception chiesero di parlare con uno dei soci e aspettarono finché un uomo dall’incipiente calvizie andò loro incontro.

«Sono Brian Chepstow», disse. «In cosa posso esservi utile?».

Li condusse nel suo ufficio e lei gli presentò il contratto. «Ho ragione di credere che abbiate redatto questo accordo», disse. «Posso chiederle di dargli un’occhiata e verificare anche nei vostri archivi?».

L’avvocato lo guardò perplesso. «Qui c’è la nostra vecchia intestazione, che abbiamo cambiato da oltre un anno. Ora c’è scritto “R.A. Jefferson” e non “G. Jefferson”. Richard, il mio attuale socio, è il figlio di Gerald. Il documento poi sembra firmato da Gerald ma è datato sei mesi dopo la sua morte, oltre al fatto che era già andato in pensione da sei mesi prima di morire. Non ho alcun bisogno di verificare i miei archivi per dirle che non abbiamo assolutamente redatto noi questo documento. Inoltre le nostre copie carbone sono verdi, mentre questa è blu. Sono fermamente convinto che si tratti di una frode», concluse prendendo qualche appunto. «Chi gliel’ha dato?».

Louisa soppesò la risposta, non voleva dare troppi dettagli. «L’ho trovato tra i documenti di mio marito, che è recentemente scomparso».

«Farò qualche indagine. E se dovessi trovare qualcosa la contatterò sicuramente. Al momento posso dirle comunque che questo documento non ha alcuna validità legale».

Louisa lo ringraziò, e se ne andarono.

«Che storia è?», le chiese Leo un attimo dopo in strada.

«Una persona mi ha dato questo contratto come prova dei debiti che Elliot aveva con lui, ma hai sentito anche tu cosa ha detto il signor Chepstow».

«Che strano».

«Molto». Fu incerta se dirgli che Cooper aveva detto di essere un collega di De Vos, il tipo menzionato nel contratto, ma decise di lasciar perdere. «Faremmo meglio ad andare ora che non piove più».

«Non dirmi che un po’ di pioggia ti spaventa».

Rise. «Sono una ragazza che ama la vita all’aria aperta. Andiamo a recuperare la moto».

Mentre percorrevano la costa si strinse a lui, contenta di potergli stare di nuovo vicina. Sentiva il suo corpo forte governare la moto contro le raffiche di vento. Dopo circa un’ora e mezza di viaggio il mare si gonfiò tantissimo e si fermarono a indossare gli impermeabili. Iniziò a piovere così forte che non riuscivano a vedere niente, e quando la moto iniziò a slittare rallentarono un po’, finché una violenta raffica non li spinse fuori strada verso l’oceano. Leo riuscì a evitare che la moto finisse a terra.

«Non siamo lontani da Madu Ganga, credo, vicino al villaggio di pescatori di Balapitiya. Dovremmo cercare riparo da qualche parte», disse sedendosi sulla moto.

Louisa scrutò l’oscurità. «Ma non c’è niente per chilometri qui intorno».

«Se non ricordo male dev’esserci una capanna di pescatori da queste parti. Cerchiamola, io spingerò la motocicletta a mano».

Poco dopo Louisa inciampò e cadde. Leo l’aiutò ad alzarsi, ma la caviglia le faceva molto male.

«Perché non ti siedi sulla moto? Vedo la sagoma di una capanna, non è lontana».

Tirò fuori una torcia e si fecero strada fino a una capanna di bambù, coperta da foglie di palma. Leo aprì la porta e condusse la moto all’interno. L’aria sapeva ancora di pesce, ma il posto sembrava abbandonato. La torcia illuminò alcune vecchie funi arrotolate in un angolo e dei sacchi di tela. L’aiutò a sedersi lontano da una perdita che colava dal soffitto e poi tirò fuori dalla borsa una lampada a cherosene e andò a mettersi accanto a lei. L’accese e Louisa osservò le ombre che si animarono sulle pareti. Tremò, era un po’ preoccupata. Sentiva le onde infrangersi contro gli scogli persino da lì dentro.

«Hai freddo?», le chiese.

«Sei un vero boy scout, eh?», rispose lei sorridendo.

«Quando parto in moto mi porto sempre tutto l’occorrente».

«Comunque no, non ho freddo. Sono solo bagnata».

Leo si tolse l’impermeabile e poi la giacca, che le poggiò sulle spalle. «Scommetto che hai bisogno di qualcosa di forte».

«Magari».

E alla luce fioca della lampada tirò fuori una fiaschetta di whiskey, svitò il tappo – che fungeva anche da bicchiere, gliene versò un po’ e glielo passò. Ne bastò un sorso per sentire il calore invaderle il petto.

«Allora», disse lei, ben consapevole che fossero soli in quella piccola capanna e cercando di trovare qualcosa di normale da dire. Sebbene niente di quella situazione fosse normale. A dire il vero trovava eccitante stargli vicino, le sembrava così vivo.

«Ci si deve sentire parecchio soli lassù alla piantagione», disse infine.

«Non sono un animale molto sociale».

«Ti piace stare da solo?»

«Sì, e poi sono sempre così impegnato».

«Parlavi mai con Elliot?»

«Non molto».

Un tuono illuminò la capanna per un secondo.

«Avete elettricità?»

«Non ancora. Siamo piuttosto spartani».

«Elliot me l’aveva detto».

Leo annuì, senza incrociare il suo sguardo. Versò dell’altro whiskey e bevve.

«Pensi che la moto sia in condizioni di riportarci indietro?»

«Non dovrebbe aver subito danni».

Provò ad alzarsi, ma la caviglia le faceva male. Si sedette di nuovo, non aveva alcuna voglia di tornare a casa, e non riusciva a smettere di pensare a Leo. Era come intoccabile in un certo senso, come inafferrabile. Voleva saperne di più. Si sentiva solo? Sembrava piuttosto solitario in effetti. Ma come fare a chiederlo senza sembrare una ficcanaso?

«Hai sempre vissuto da solo?», domandò infine.

«Quasi sempre. Ho viaggiato un po’. Poi quando ho ereditato la piantagione mi sono sistemato, diciamo. Ho quasi quarant’anni, era ora».

Esitò un istante, poi sorrise. «Non hai mai desiderato sposarti?».

Un altro lampo illuminò la capanna e notò una certa esitazione sul suo volto.

«Non mi sono mai trovato al momento giusto nel posto giusto, o con la persona giusta», rispose infine guardandola negli occhi.

«Avrai avuto delle donne, immagino».

«Oh, sì», disse lui un po’ sorpreso.

«Qualcuna in particolare?»

«Una, sì».

«Ti va di raccontarmi qualcosa di lei?»

«Non c’è molto da raccontare. Ha sposato un altro uomo».

«Che cosa è successo?», gli chiese. Le era parso rassegnato, certo, ma in qualche misura ancora ferito.

«È stato circa otto anni fa, lei si chiamava Alicia e faceva la cantante in un club di Singapore».

«E…?»

«Era bellissima, lunghi capelli castani, occhi azzurri e la voce di un angelo».

«Si direbbe che ne eri innamorato».

Sospirò. «Dovevamo sposarci».

«E poi?».

Abbassò gli occhi a terra prima di guardarla di nuovo. «È venuto fuori che non mi amava».

«Ma eravate proprio fidanzati?»

«Sì».

Ci fu un momento di silenzio. Si allungò per toccargli un braccio, e tra loro, lo sentì chiaramente, passò qualcosa.

«Mi dispiace».

«E il peggio deve ancora venire. Una sera mi ha lasciato, e da allora non l’ho più vista. Ho scoperto solo dopo che ha sposato il mio migliore amico, che aveva iniziato a frequentare alle mie spalle da mesi».

«Oddio, questo sì che dev’essere stato doloroso», esclamò.

Un altro silenzio.

«Diciamo che capisco bene come devi esserti sentita quando hai saputo di Elliot e Zinnia».

«Certo. E non hai saputo più niente di loro?».

Abbassò la voce e Louisa dovette avvicinarsi per sentire cosa stava dicendo. «Un paio di anni dopo lui mi ha scritto una lettera in cui mi diceva che Alicia era morta di parto».

«Dio mio, è terribile».

Chinò il capo prima di incontrare di nuovo il suo sguardo, uno sguardo fermo e deciso. «Ti sarai sicuramente chiesto mille volte come sarebbe potuto essere se le cose fossero andate diversamente».

«In realtà tendo a non rimuginare troppo. Quello che mi interessa è il futuro».

«E il passato?»

«Quando ero giovane ero in cerca di qualcosa, che pensavo di aver trovato in lei».

«E non era così?»

«No».

«E l’hai mai più trovato, quel qualcosa?»

«Non completamente. E non sono nemmeno sicuro di sapere cosa fosse, poi».

«Siamo tutti alla ricerca di qualcosa, in fondo».

«Già».

Pienamente consapevole della sua presenza così vicina a lei, respirò a fondo ed espirò lentamente, cercando di orientarsi nei suoi intricati sentimenti.

«E tu, cosa cercavi Louisa?», le chiese.

Le piaceva il modo in cui pronunciava il suo nome. Lo faceva sembrare nuovo e speciale. «Forse è più un bisogno insoddisfatto che la ricerca di qualcosa. Volevo dei figli. Li volevo tantissimo».

«Mi dispiace».

Lo guardò e nonostante la luce fosse debolissima, il calore che vide nei suoi occhi le scaldò il cuore.

«Maternità. Ecco per cosa siamo programmate noi donne, no? Per essere madri. La mia infanzia è stata molto solitaria, sono cresciuta senza mia madre, e forse avrei voluto la famiglia che non ho mai avuto».

«Dev’essere stata dura».

«Molto. Ma è andata così».

La guardò a lungo. «Ammiro il modo in cui hai affrontato tutto quanto».

Louisa ingoiò il nodo che sentiva in gola. «Davvero?»

«Assolutamente».

«Grazie».

Restarono seduti in silenzio per qualche minuto ancora, Louisa a ripensare ai suoi bambini perduti, e Leo chissà a cosa.

«Certo devi aver avuto una vita eccitante», disse lei alla fine. «Raccontami dei posti che hai visitato».

«Davvero ti interessa?»

«Sì». Sentì che si stava pian piano rilassando, e in quel momento non desiderava altro che restare seduta in quella piccola capanna ad ascoltare il rumore della pioggia e la sua voce.

«Ho lavorato in una piantagione di gomma in Malesia per dieci anni, e ho vissuto per un periodo in Indonesia. Sono stato ai tropici, insomma».

«Non volevo essere indiscreta», disse.

«Ci mancherebbe».

Si udì un rumore. «Pensi che ci siano pipistrelli?»

«Ne dubito».

Louisa fece un salto quando la torcia illuminò una lucertola uscita da una fessura che correva per terra. Tornarono in silenzio, e l’aria si riempì di nuovo del profumo di cannella della sua pelle e della paraffina della lampada. Fu allora che Leo si avvicinò e le accarezzò dolcemente una guancia.

Lei chiuse gli occhi e sentì quella carezza in tutto il corpo. Dopo pochi secondi si allontanò. Sentì il verso di un animale fuori, un verso inquietante seguito dal canto di una civetta.

«Leo…».

«Scusa, non avrei dovuto».

«È solo che…».

«Lo capisco».

«Restiamocene seduti qui finché non smette di piovere».

Nessuno dei due si mosse, e per quanto scossa da quel che era appena quasi successo, e di quel che avrebbe significato, Louisa sentì un grande senso di pace.

28

Louisa non riusciva a togliersi dalla testa quel Cooper, l’australiano, così come la questione del contratto finto. La mattina seguente, dopo che Leo l’aveva riaccompagnata a casa e dopo aver portato a spasso i cani, chiese ad Ashan di raggiungerla in salotto. Per fortuna la caviglia non si era aggravata e le faceva molto meno male. Lo aspettò camminando su e giù per la stanza, guardando il modo in cui il sole colpiva il pavimento in fasci di luce. La stanza era scintillante, e le capitò uno di quei momenti in cui avrebbe desiderato ancora Elliot accanto a sé, momenti che non riusciva ad arginare per quanto intensamente ci provasse. E quel che era successo con Leo, il fatto che avesse desiderato così tanto essere toccata da lui, peggiorava il suo disagio. Quel tipo di contatto fisico le mancava moltissimo, ma nella sua testa era ancora una donna sposata e, malgrado tutto, non era così semplice superare quella convinzione.

Non invitò Ashan a sedersi. Era increscioso il pensiero di dover rimproverare qualcuno in casa sua, ma non poteva evitare di fargli quella domanda.

«Ashan, lavori con noi da moltissimi anni».

Ashan annuì, sorridendole. «Dieci anni, signora. E prima di allora ero inserviente per suo padre».

«E durante questi anni ti sei preso cura di noi nel migliore dei modi, cosa di cui ti ringrazio».

Le fece un piccolo inchino. «Il piacere è mio».

Louisa sospirò. «Ho un piccolo problema e forse potrai essermi utile. Mi hai sempre aiutato a scegliere la servitù, così come prima facevi con mio padre, giusto?»

«Sì, signora».

«Ho una domanda per te».

«Mi dica».

«C’è qualcuno in questa casa di cui senti di non fidarti pienamente?».

La domanda lo stupì. «Conosco qualcuno meglio di altri, ma mi fido di tutti».

«Vorrei che tu tenessi gli occhi ben aperti d’ora in avanti. Temo che qualcuno stia passando informazioni circa i miei spostamenti. Puoi occupartene?»

«Senz’altro, signora, non c’è nessun problema».

«Ed è superfluo aggiungere che la cosa deve restare tra me e te».

Lo congedò e rimase a riflettere sui vari membri della servitù. Il cuoco era stato a servizio di suo padre diversi anni e si era spostato a casa sua dopo il matrimonio. Un tempo aveva un aiutante, un ragazzo un po’ lento ma sempre allegro, mentre al momento aveva la ragazza francese, Camille, che si era dimostrata a dir poco indispensabile. Altri due inservienti si occupavano delle pulizie e dei servizi, uno era il nipote del cuoco e l’altro lavorava lì da sei mesi. C’era una governante a mezzo servizio e un lavandaio. Solo Ashan, il cuoco e Camille vivevano con lei. E infine c’era il giardiniere, che però entrava davvero molto raramente in casa.

Approfittando di una tregua dalla pioggia, prese i cani e andò a trovare Himal, un costruttore singalese con cui aveva già lavorato in passato, per chiedergli un preventivo per la ristrutturazione della tipografia. Tirò una palla ai cani. In genere Bouncer ci arrivava per primo e non la riportava, ma quel giorno la prese Tommy, che gliela riportò perché la tirasse ancora. Giocarono un po’ e poi rimise loro i guinzagli.

Raggiunse l’ufficio di Himal. Non era forse il più economico in città, ma di certo era bravo e affidabile, ed era stato lui a costruire il piano superiore di casa sua. Gli mostrò i disegni aprendoli sulla sua scrivania, e mentre lui li studiava Louisa cercò di immaginarsi l’emporio: un edificio scintillante di splendidi gioielli di zaffiro e oggetti affascinanti, una grotta di Aladino piena di opportunità.

«Come vede vorrei dedicare la galleria superiore all’esposizione di quadri, e trasformare le stanze al piano di sotto in ambienti diversi in cui vendere cose diverse. Però ho bisogno di spendere poco».

La guardò con un’espressione intelligente. «Sa per caso se c’è qualche tramezzo?»

«No, perché? È importante?»

«Potrebbe, sì. Vedremo. In realtà mi sembra che sia sufficiente un lavoro di pulitura dei vetri e dei pavimenti, ci sarà da assicurarsi che sia tutto stabile e bisognerà dare una mano di vernice. L’elettricità c’è?»

«Sì. Ho anche bisogno di rifornirlo del necessario. Mobili in legno di alloro, pensavo, per risparmiare un po’, e splendidi banconi in ebano dello Sri Lanka».

«I miei operai sono bravissimi», disse grattandosi la testa. «Sono certo che possiamo tenere i costi bassi senza rinunciare alla qualità. Ma come le dicevo ho bisogno di dare un’occhiata di persona. Può lasciarmi le chiavi?».

Louisa gli consegnò le chiavi e gli chiese quando pensava di poter cominciare.

«Nel giro di un mese, credo».

Le assicurò che le avrebbe fatto avere il preventivo per la fine della settimana e lei se ne andò, con la sensazione che le cose si stessero muovendo nella direzione giusta e che il suo piccolo sogno sarebbe presto diventato realtà.

Passarono lentamente due mesi. Louisa pensava ancora a Elliot, ma aveva il cuore più leggero. Si interessava alle questioni domestiche come un tempo e faceva lunghe passeggiate sulla spiaggia. Aveva accettato il preventivo di Himal e i lavori erano a buon punto. Si era quasi dimenticata anche dell’australiano e di De Vos, e nessuno era più andato a cercarla.

Mancavano meno di quindici giorni al ballo annuale di Galle che si teneva al New Oriental Hotel. Partecipavano quasi tutti i coltivatori di gomma con le loro mogli. A Louisa era sempre piaciuta quella festa così romantica, e ci andava con Elliot. Era stata sempre un’occasione speciale per loro. Quell’anno sarebbe andata col padre.

Si ricordò che l’anno prima Elliot era scomparso per un’ora buona quella sera. Poi si era scusato dicendo di essersi messo a chiacchierare con un vecchio amico. All’epoca Louisa si era un po’ irritata e le era sembrato un comportamento strano, ma non ci aveva dato poi tanto peso. Si chiese se i debiti di Elliot fossero iniziati allora.

Era finalmente arrivato, con molto ritardo, il contratto che doveva firmare con Leo perché la società fosse autorizzata a esportare la sua cannella. Non l’aveva più visto dopo il viaggio a Colombo, e ancora non era riuscita a districare i suoi sentimenti rispetto a quel che era successo. Che avesse provato qualcosa era innegabile, e si domandò se fosse opportuno chiedergli di accompagnarla al ballo. Non voleva che si facesse un’idea sbagliata, ma nonostante il disagio l’idea la divertiva anche un po’. Dopo un bel sospiro rise di sé perché si sentiva una ragazzina, e decise di farlo. Sapeva di non aver ancora completamente dimenticato Elliot e si ripromise di essere comunque chiara con Leo rispetto alle ragioni della sua proposta. In fondo, si disse, anche quello sarebbe stato un piccolo passo avanti per lei e i passi avanti non potevano essere sbagliati.

Stava sistemandosi i capelli all’ingresso quando bussarono alla porta distogliendola dai suoi pensieri. Non attese l’arrivo di Ashan e aprì la porta lei stessa. Davanti si ritrovò uno sconosciuto, un uomo dai capelli biondi.

«Posso aiutarla?», disse immaginando che fosse un venditore e rimproverandosi per non aver aspettato che fosse Ashan ad aprirgli.

L’uomo parve esitare prima di rispondere. «Mi spiace disturbare, sto cercando Margo Reeve. A Colombo mi hanno detto che l’avrei trovata qui».

Louisa si accigliò. «Margo la stava aspettando?». L’uomo abbassò lo sguardo rigirandosi il cappello tra le mani.

«Sono William Tyler. Forse le ha parlato di me».

Louisa si portò istintivamente una mano alla bocca. «Bene, sì, ecco, accomodati, William. Sono Louisa, piacere».

«Molto lieto. Ti prego di accettare le mie più sincere condoglianze».

«Grazie».

Lo fece accomodare in salotto e andò a cercare la cognata, che diventò di tutti i colori quando Louisa le disse che era appena arrivato William. Spalancò la bocca per la sorpresa e i suoi occhi, che saettavano in ogni direzione, tradirono un certo nervosismo.

«Oddio, cosa devo dirgli?».

Louisa sorrise. «Questo dipende da quello che ti dice lui».

L’accompagnò fino al salotto e poi fece per andarsene.

«No, per favore, rimani», le sussurrò Margo mettendole una mano sul braccio.

«Sei sicura?».

Entrarono e William si alzò subito in piedi. «Margo, io…».

Margo rimase ferma dov’era, eppure Louisa si accorse che tra di loro c’era una forte tensione. La stanza era in silenzio, mentre fuori gli uccelli stavano facendo un gran baccano e il giardiniere stava tagliando l’erba. Louisa sentì che uno dei cani gli stava abbaiando e si guardò attorno cercando di escogitare un piano di fuga.

«Margo, penso che…».

«Resta. Non c’è niente che William non possa dire anche di fronte a te».

«In realtà preferirei…», disse lui.

«Voglio che lei resti», lo interruppe Margo in tono fermo.

Louisa annuì e fece cenno verso il divano e le poltrone. «Se è quello che desideri va bene, ma sediamoci invece di restare in piedi. Chiedo che ci portino qualcosa da bere».

William sedette su una poltroncina e Margo si appollaiò su quella più lontana. Louisa notò che la cognata era così agitata da non riuscire a guardarlo negli occhi neanche per un momento. Infine si fece coraggio.

«Che cosa vuoi, William?», gli chiese in modo diretto, con un certo nervosismo nella voce. «Immagino che tu non sia venuto fino a qui senza una ragione».

«Avrei potuto scriverti».

«Sì».

«Avevo l’indirizzo dei tuoi genitori. E tuo padre mi ha detto che eri qui. Mi dispiace tantissimo per tuo fratello».

Margo abbassò la testa e cacciò indietro le lacrime. «Non essere gentile con me, ti prego».

Seguì un breve silenzio.

«Volevo vederti», esitò. «Deirdre mi ha chiesto il divorzio».

Margo scattò in piedi, improvvisamente pallida. «A causa mia?», esclamò.

Scosse la testa. «Non direttamente. Ma ha detto che vuole citarti come co-responsabile».

Margo riprese fiato e sgranò gli occhi. «Ma è una cosa terribile».

«Lo è. Ma capisci cosa significa?».

Margo guardò Louisa implorante. Con le mani rivolte verso l’alto Louisa si strinse nelle spalle, confusa.

«Significa che potremo sposarci. Se ancora mi vuoi», disse in tono deciso e senza più traccia di esitazione nella voce.

Margo tornò a sedersi, col respiro accelerato. «A mia madre verrà un colpo».

«Significa che sei d’accordo?»

«Non ho detto questo».

Lui le fece un sorriso caldo e genuino, carico di incoraggiamento e di speranza. «Ti supplico, Margo, pensaci. È la nostra chance».

Margo sospirò con gli occhi fissi sulle mani che teneva in grembo. Poi gli restituì, esitante, il sorriso. «Raccontami tutto».

«Cosa vuoi sapere?»

«Perché ha deciso di divorziare? Le hai parlato di me?»

«Solo dopo che aveva già iniziato a parlare di divorzio. Non ti ho mentito, non eravamo felici da anni. Adesso ha ereditato dei soldi e vuole tornare a vivere in Devon».

«E non ti ha chiesto di andare con lei?»

«No. Sa che ho bisogno di restare vicino al mio lavoro. Tutti i miei clienti sono in Kent».

«E dove vivremmo?»

«Vuoi dire che lo stai prendendo in considerazione? Il tuo nome sarà trascinato nel fango, ne sei consapevole?».

Sbatté le palpebre, presa da mille pensieri. «Non lo so».

«Margo, mia amata», le disse. «Sai quanto sei importante per me».

Annuì, eppure Louisa ebbe l’impressione che stesse per scoppiare a piangere. Si alzò per andarle vicino e le mise una mano sulla spalla.

«Ti sono mancato?», le chiese William. «Tu mi sei mancata ogni minuto da quando sei partita».

«Sentite, io vado a vedere cosa è successo al nostro Ashan, e vi lascio discutere in privato. Non vi serve il mio aiuto. Un’ultima cosa, Margo: non lasciare che il pensiero di quel che dirà Irene influenzi le tue scelte».

«Pensi che dovrei accettare?»

«Penso che dobbiamo tutti approfittare delle occasioni di felicità quando queste si presentano», e detto questo lasciò la stanza. Povera Margo, pensò mentre andava in cerca di Ashan, che decisione difficile. Essere citata come co-responsabile in un divorzio significava finire sulla bocca di tutti, ma se amava davvero William, come lui diceva di amare lei, allora forse era la cosa giusta da fare.

29

Quando la vide fece un grande sorriso luminoso. Lei aprì bocca come per dire qualcosa, ma restò in silenzio.

«Accomodati», le disse Leo.

Si fece da parte per farla passare. Salirono al piano di sopra in un’accogliente stanza piena di libri, lampade a olio e qualche candela.

Persino su quella soglia, poco prima di entrare, aveva dovuto lottare per tenere il passato al suo posto. Era stufa di avere sempre Elliot in mente. Ma appena vide il sorriso di Leo, così generoso e aperto, ogni altro pensiero svanì. Tornò a guardare i suoi occhi scuri e le parve di vedere, oltre al sorriso, anche traccia di qualcos’altro che poco prima non aveva notato. Forse tristezza.

«Mi fa piacere vederti», le disse. «È passato un po’ di tempo».

«Sì».

«Dimmi tutto».

Lei gli passò una busta. «Ecco il contratto, mi dispiace che ci sia voluto così tanto».

«Avresti potuto spedirmelo».

«Sì».

«Ma sei venuta di persona».

«Sì».

«E…?», le chiese allungandosi a prendere il contratto. Sentì il calore della sua pelle sfiorarle le dita, e nonostante il desiderio di indugiare ritrasse la mano e si accomodò sulla poltrona mordendosi le unghie.

«Louisa», le disse. «Mi dispiace davvero se ho superato un limite, quella sera».

«Non l’hai fatto», rispose a bassa voce ricordandosi cosa aveva provato quando le aveva accarezzato la guancia nella capanna. Guardò fuori dalla finestra, il sole uscì brevemente da dietro le nuvole. Si ricordava del momento in cui aveva capito che avrebbe sposato Elliot. Erano giorni felici. Stavano mangiando un gelato al Galle Face Hotel a Colombo, e quando lui le passò un dito sulla guancia per pulirla ne era stata sicura. Aveva perso, ormai, la capacità di affidarsi alle proprie emozioni, eppure sentiva che tra lei e Leo c’era qualcosa. Lo guardò di nuovo, consapevole di quanto fosse grande in lei il desiderio di conoscerlo meglio.

«A cosa stai pensando?», le chiese. «A volte ho l’impressione di sapere così poco di te».

«Riflettevo sul fatto che se lo firmassi ora, potrei riprendermelo subito e spedirlo in ufficio», mentì. Non poteva certo dirgli a cosa stava pensando davvero.

Aprì la busta e tirò fuori il contratto per leggerlo attentamente. Nel frattempo Louisa pensava a William e Margo. Se c’era una cosa che la morte di Elliot le aveva insegnato era che la vita andava vissuta fino in fondo e che l’amore era importante. Ma per lei era ancora difficile, troppe domande erano rimaste ancora senza risposta.

Lui la guardò, e questo semplice gesto le procurò un senso di felicità. Poi firmò il contratto.

«Ecco fatto».

Louisa annuì.

«Allora, come stai?».

Era tutto così silenzioso che riusciva quasi a sentire i battiti del suo cuore. «Vorrei essere finalmente libera».

«Ci arriverai», le disse. «Con calma».

Abbassò lo sguardo. «A volte ho paura».

«Di cosa?»

«Di qualsiasi cosa, di tutto. Del passato, del futuro, di un marito che non conoscevo».

Era vero, da quando Elliot era morto aveva convissuto quasi ogni giorno con un livello di ansia basso ma costante.

«Con me puoi parlare, lo sai, vero?».

Annuì, ma non aveva più voglia di parlare di quel che provava rispetto alla morte di Elliot e preferì cambiare argomento. «Come sta Zinnia?», gli chiese, sapendo che forse Leo l’avrebbe presa come una dimostrazione di scarsa fiducia da parte sua.

«Ma va bene anche non parlare», disse infatti. «Quanto a Zinnia, sta di nuovo poco bene purtroppo». Capì dal suo sguardo che, nonostante la grande dedizione al lavoro, doveva essere molto preoccupato per la cugina.

«Posso vederla?»

«Pensavo che non volessi».

«Credo di doverlo fare».

«Se ne sei sicura».

«Detesto il pensiero, cioè il pensiero di lei, ma credo di doverla vedere in carne e ossa. A parte una volta in cui l’ho intravista, la conosco solo attraverso i suoi dipinti».

«Se ne sei sicura».

«Non sono sicura di niente».

Seguì un breve silenzio, durante il quale Louisa non riuscì a guardarlo negli occhi.

«E come se la sta cavando con Conor?», chiese infine.

«Non bene. Conor viene spesso qui, e io faccio del mio meglio. Ma ha bisogno di attenzioni che non posso dargli io, e che non può dargli lei».

«Ha perso suo padre».

Leo annuì.

Louisa non aveva affatto perdonato Elliot per aver avuto un figlio con un’altra donna, e questi sentimenti non le consentivano di abbandonarsi al dispiacere che in fondo provava per quel bambino.

«Pensi che ci sarà anche lui?»

«Conor è giù ai capanni con i lavoratori».

«Allora andiamo subito. Metto questi fogli in macchina».

Leo si infilò gli stivali e, dopo essere andati alla macchina di Louisa, presero una scorciatoia per raggiungere Zinnia a piedi. Louisa ascoltò il rumore degli animali che si muovevano nel sottobosco mentre scacciava nugoli di moschini con la mano.

«Il sentiero è troppo accidentato?»

«No, sto bene», rispose, anche se aveva lo stomaco in subbuglio. Come sarebbe stato incontrare l’amante di suo marito? Era una follia oppure l’unico modo, come sospettava, per poter finalmente accettare quel che era successo?

«Ha di nuovo rifiutato di essere visitata dal dottore. Non so che cos’abbia, ma è molto giù di morale oltre a non star bene fisicamente. Forse vedere un’altra donna le sarà d’aiuto».

«Anche se si tratta di me? Immagino che mi odierà…».

«Zinnia non è tipo da odiare le persone».

Louisa si fermò. «E che tipo è?»

«Difficile dirlo. È molto dotata, un po’ bohémienne, ma anche fragile. È una donna che ha commesso molti errori nella sua vita, ma se n’è sempre assunta la responsabilità. Credo che non sappia neanche lei chi è veramente».

«Che intendi?»

«Per capirci: tu magari stai passando un periodo difficile, ma sai bene chi sei, da dove vieni, qual è il tuo posto nel mondo».

Sbuffò. «Dici?»

«Sì».

«Ora come ora, a me non sembra».

«Zinnia non ha avuto una vita facile».

«Che mi dici dei suoi genitori? Magari potrebbero aiutarla con Conor?»

«Suo padre, mio zio, è morto già da diversi anni».

«E la madre?»

«Sua madre era una dipsomane. Nessuno sa che fine abbia fatto. E ovunque sia, non credo che fare la nonna rientri nel suo progetto di vita».

Dopo un bel sospiro e sentendosi improvvisamente avvampare non poté fare a meno di chiedere: «E come è iniziata la sua relazione con Elliot?»

«Non ne so molto. Quando le ho proposto di vivere qui mi ha nascosto la verità. Sapevo che era incinta, ma non sapevo di chi. Poi pian piano ho scoperto che si trattava di Elliot, e ho saputo che era sposato».