Parte prima

«Lontana da noi nei sogni e nel tempo, l’India appartiene all’Oriente della nostra anima».

André Malraux, Antimémoires, 1967

1

Principato di Juraipore, Rajputana, impero indiano,
novembre 1930

Per un attimo Eliza intravide la facciata della reggia. Rimase sconvolta dal suo bagliore, un miraggio apparso nella foschia del deserto, alieno e un po’ inquietante. Il vento si placò e poi riprese a soffiare, ed Eliza chiuse gli occhi per evitare l’arrivo della sabbia tremolante. Non aveva importanza quanto fosse lontana da casa, senza la più pallida idea di come sarebbero andate le cose, non poteva tornare indietro, e sentiva la paura salire dalla bocca dello stomaco.

All’età di ventinove anni, quello sarebbe stato il suo incarico più importante da quando aveva intrapreso la carriera di fotografa professionista, anche se non le era ancora chiaro il motivo per cui Clifford Salter avesse scelto lei. Tuttavia, lui le aveva spiegato che avrebbe avuto maggiori possibilità di fotografare le donne della reggia, dato che molte erano ostili ai visitatori, soprattutto agli uomini.

E il viceré aveva espressamente richiesto un fotografo inglese per evitare conflitti di interesse. Eliza sarebbe stata pagata mensilmente, e avrebbe ricevuto un bel compenso anche al termine del lavoro svolto.

Aprì gli occhi nell’aria spessa di sabbia scintillante: la reggia era di nuovo nascosta alla sua vista, sopra la sua testa il cielo era di un blu perfetto e il caldo impietoso. La guida che l’accompagnava in città si voltò per dirle di affrettarsi. Lei chinò il capo per proteggersi e salì nuovamente sul suo carretto tirato dal cammello, stringendo al petto la borsa con la macchina fotografica. Doveva assolutamente evitare che la sabbia danneggiasse il suo prezioso carico. Quando furono più vicini alla destinazione, Eliza alzò gli occhi e vide una fortezza che s’innalzava sulla cima di una montagna, come in un sogno. Centinaia di uccelli volavano sull’orizzonte lilla, fili di nuvole rosate tracciavano disegni delicati sopra di loro. Quasi stordita dal calore, oppose resistenza e non cadde vittima di quell’incanto; era lì per lavorare, dopotutto. Ma non era il vento a rievocare il passato lontano mentre lei vi si opponeva, quanto piuttosto i suoi ricordi più recenti.

Quando Anna Fraser aveva contattato Clifford Salter, un ricco figlioccio di suo marito, aveva pensato che con le sue conoscenze avrebbe trovato alla figlia un posto come segretaria nell’ufficio di un avvocato a Cirencester, o qualcosa del genere. Aveva sperato di riuscire a impedire a Eliza di intraprendere la carriera di fotografa. Dopotutto, le diceva, chi aveva bisogno di una donna fotografo? Ma evidentemente qualcuno c’era, ed era proprio Clifford, il quale disse che Eliza sarebbe stata la fotografa ideale, perfettamente adatta ai suoi scopi. Anna non poté obiettare. Clifford era il rappresentante della Corona britannica, dopotutto, e rispondeva solamente all’ufficiale civile di Rajputana, che esercitava un governo indiretto su tutti i ventidue distretti principeschi dell’India. Lui, i residenti e tutti gli ufficiali politici minori, dipendevano dal Dipartimento politico ed erano sottoposti del viceré.

Quindi Eliza stava per affrontare un anno intero all’interno di una reggia, dove non conosceva nessuno. Il suo compito era quello di fotografare la vita nello stato principesco per un nuovo archivio che avrebbe documentato ufficialmente il trasferimento del governo inglese da Calcutta a Delhi.

La costruzione di Nuova Delhi aveva richiesto molto più tempo del previsto, e la guerra aveva ritardato ogni cosa, ma ora finalmente era giunto il momento.

Aveva ascoltato gli avvertimenti di sua madre a proposito delle sofferenze del popolo, e aveva già visto che fuori dalle mura della reggia i monelli giocavano nella polvere e nella sporcizia. Vide una mendicante seduta a gambe incrociate vicino a una mucca addormentata, che guardava il vuoto con occhi vacui. Accanto a lei, un ponteggio di pali di bambù appoggiato contro un muro, con due assi di legno sopra, stava scivolando pericolosamente su un bambino nudo che razzolava a terra.

«Ferma!», gridò, e non appena il carro si fermò lei saltò fuori, proprio mentre una delle due assi iniziava a sbilanciarsi. Col cuore in gola raggiunse il bambino e lo spinse via, mettendolo fuori pericolo. Il legno cadde a terra e andò in mille pezzi. Il bimbo corse via e il conducente del carro fece spallucce, indifferente. Non se ne curano?, si chiese, mentre salivano la rampa.

Pochi minuti dopo il guidatore stava già discutendo con le guardie all’esterno della fortezza. Non erano accomodanti, anche se lui aveva mostrato loro i documenti. Eliza guardò la facciata ostile e l’enorme cancello d’ingresso, abbastanza largo perché ci passasse un esercito; e anche cammelli, cavalli, carrozze. Aveva anche sentito dire che i regnanti possedevano molte auto. Dal momento che il veicolo su cui lei stava viaggiando si era rotto, e dato che aveva continuato il viaggio su un carretto trainato da un cammello, Eliza era stanca, assetata e coperta di polvere.

Lo sentiva nei suoi occhi doloranti, e nel prurito sul cuoio capelluto. Non poté fare a meno di grattarsi, anche se non fece altro che peggiorare le cose.

Alla fine una donna comparve ai cancelli, con una lunga sciarpa sottile che le copriva il viso, lasciando liberi solamente gli occhi scuri.

«Il suo nome?».

Eliza le disse chi era, schermandosi gli occhi contro il sole accecante del pomeriggio.

«Mi segua».

La donna fece un cenno alle guardie, che sembravano in disaccordo, ma che permisero loro di entrare. Erano passati diciotto anni da quando Eliza e sua madre avevano lasciato l’India per tornare in Inghilterra. Diciotto anni in cui Anna Fraser aveva avuto sempre meno possibilità. Ma Eliza aveva deciso di essere libera. Le sembrava di essere nata due volte, come se una mano invisibile l’avesse riportata indietro, anche se ovviamente non c’era niente di invisibile in Clifford Salter. Avrebbe potuto essere più attraente di quanto non fosse, ma sarebbe stato difficile trovare un uomo più ordinario. Aveva radi capelli color sabbia, unti, e gli occhi azzurro pallido, da miope, rafforzavano l’impressione di ottusità, eppure Eliza gli era debitrice per averle trovato un incarico nelle terre dei Rajput, clan di nobili guerrieri in questo gruppo di Stati principeschi nelle regioni desertiche dell’Impero indiano.

Prima di passare sotto una serie di archi imponenti, Eliza cercò di togliersi di dosso la polvere come meglio poté. Un eunuco la condusse attraverso un labirinto di stanze e corridoi piastrellati, fino a un piccolo vestibolo. Aveva sentito parlare di questi uomini castrati che indossavano abiti femminili e rabbrividì. Il vestibolo era controllato da donne che fissarono Eliza e le sbarrarono la strada davanti alle porte di legno di sandalo con grandi intarsi d’avorio. Quando, dopo qualche spiegazione da parte dell’eunuco, le permisero di passare, la lasciarono sola ad aspettare. Si guardò intorno nella stanza completamente dipinta di azzurro chiaro, con dettagli d’oro. Fiori e foglie, intrecciati nella filigrana, si arrampicavano sulle pareti e salivano fino al soffitto; persino le mattonelle del pavimento erano azzurro chiaro. Anche se era un colore sgargiante, l’effetto complessivo era bello e delicato. Circondata da tutto quell’azzurro, si sentiva come in mezzo al cielo.

Forse doveva annunciare il suo arrivo in qualche modo? Tossire educatamente? Chiamare? Si asciugò le mani sudate sui pantaloni e posò a terra la borsa con il pesante equipaggiamento da fotografa, poi, dopo un attimo di incertezza, la tirò su nuovamente. I capelli annodati sulla nuca, gli squallidi pantaloni color cachi e la casacca bianca ormai sgualcita, non facevano altro che accrescere la sua sensazione di essere completamente fuori posto. Non era mai andata troppo d’accordo con i colori sgargianti e le decorazioni. Aveva trascorso la maggior parte della vita cercando di adattarsi, parlando di cose che non le importavano, fingendo interesse per le persone che non le piacevano.

Aveva tanto provato a essere come le altre ragazze e poi come le altre donne, eppure quel senso di non appartenenza non l’aveva abbandonata neanche durante il matrimonio con Oliver.

In una stanza arancione brillante, al di là del vestibolo azzurro, la polvere danzava nell’aria attraverso i raggi di sole che penetravano da una piccola finestra.

Ancora oltre, Eliza riusciva a vedere l’angolo di un’altra stanza; quest’ultima era di colore rosso vivo, lì iniziavano le pareti intarsiate, dove si apriva la zona zenana, quella delle donne. Sapeva che le zenana dei palazzi reali del Rajputana erano da tempo state vietate agli uomini che non fossero di sangue reale. Clifford le aveva spiegato che queste zone riservate alle donne – le aveva chiamate harem – erano dense di misteri e intrighi, luoghi di manipolazioni, pettegolezzi ed erotismo sfrenato, disse, dato che tutte le donne erano state addestrate nelle “sedici arti femminili”.

Erano diffusi l’accoppiamento multiplo e la degenerazione morale, disse Clifford strizzandole l’occhio, persino con i sacerdoti, o forse soprattutto con i sacerdoti, anche se gli ufficiali britannici che lo avevano preceduto, avevano lavorato per sradicare le pratiche sessuali più amorali delle zenana.

Eliza si chiese cosa fossero le sedici arti. Forse, se l’avesse saputo, il suo matrimonio avrebbe avuto più successo, ma, ripensando alla solitudine della sua vita con Oliver, sbuffò al solo pensiero.

Un profumo intenso, orientale, stucchevole, sicuramente a base di cannella, e forse zenzero, oltre a qualche altro aroma dolciastro, si diffondeva dalla stanza rossa, come a confermare ogni cosa che avesse sentito dire sulla zenana. Perciò si sentì in trappola, e desiderò avvicinarsi alla finestra, tirare via i bianchi tendaggi fluttuanti e sporgersi per respirare aria fresca.

Le braccia cominciavano a dolerle, così si chinò a posare il pesante bagaglio sul tappeto, questa volta contro una parete dove una lampada a forma di pavone si ergeva sopra una colonnina di marmo. Udì un colpo di tosse, e subito Eliza si raddrizzò e si lisciò le ciocche ribelli che erano sfuggite alle forcine. I suoi lunghi capelli, quasi crespi, erano sempre stati difficili da domare, una vera sfida. Deglutì in un impeto d’ansia quando vide la sagoma di un uomo molto alto che si stagliava contro la finestra.

«Lei è inglese?», le chiese l’uomo, e lei lo fissò, stupita per il suo inglese impeccabile. L’uomo fece un passo avanti, e la luce illuminò il suo viso. Era indiano e sembrava immensamente forte. I suoi abiti erano coperti di polvere rossa e arancione, e una qualche strana specie di uccello incappucciato stava appoggiato sul suo braccio destro.

«A lei è permesso stare qui?», disse Eliza. «Questo non è l’ingresso della zenana?».

Guardò gli occhi profondi, color ambra, orlati di ciglia incredibilmente scure, e si chiese come mai quell’uomo non indossasse un turbante. Non l’avevano tutti gli uomini Rajput? La sua pelle scura era splendente e i suoi capelli, castani e lucidi, circondavano il viso con morbide onde.

«Forse dovrebbe cercare l’ingresso riservato ai mercanti», aggiunse, desiderando che lui se ne andasse e pensando che si trattasse di una sorta di commerciante, anche se in realtà le sembrava più un gitano, o un menestrello itinerante. Un rivolo di sudore le scivolò dalle ascelle; non erano più solo le sue mani a essere appiccicose.

Proprio in quel momento un’anziana donna indiana entrò nella stanza, con gli abiti tradizionali: indossava la lunga gonna chiamata ghagra, con una blusa impeccabile e una sciarpa leggera intessuta d’oro, o dupatta, che svolazzava a ogni suo movimento, sui toni contrastanti del rosso vermiglio, del verde smeraldo e del rosso scarlatto, i quali insieme sembravano armoniosi. Una nuvola profumata al legno di sandalo aleggiava attorno a lei, così come un’aria di profonda calma e, quando tirò una cordicella dietro la colonnina di marmo, la lampada a forma di pavone prese vita, illuminando le sue mani di luci blu e verdi. Poi la donna mosse qualche passo verso Eliza e fece un leggero inchino con le mani giunte, unendo i palmi e puntando in alto le dita, in modo da mettere in mostra decine di anelli con pietre preziose e unghie curate e decorate d’argento.

«Namaskar, io sono Laxmi. E lei è la fotografa, la signorina…».

«Io… io sono Eliza Fraser». E inchinò il capo, non troppo certa del cerimoniale. Dopotutto, questa donna era stata maharani, o regina, la madre del governatore di Juraipore.

Clifford le aveva detto che la bellezza e l’intelligenza di quella donna erano leggendarie, e che insieme al suo defunto marito, il vecchio maharajah, era stata lei a voler modernizzare molte delle vecchie usanze dello stato. Aveva i capelli intrecciati e raccolti in uno chignon alla base del lungo collo elegante, gli zigomi alti, gli occhi scuri scintillanti. Eliza ammise che la fama della bellezza di quella donna corrispondeva al vero, ma avrebbe voluto chiedere a Clifford maggiori informazioni in merito al protocollo. Tutto ciò che lui le aveva detto era di guardarsi dalle falene e dalle termiti. Le falene le avrebbero mangiato i vestiti e le termiti i mobili.

Laxmi si rivolse all’uomo. «E tu? Vedo che hai riportato qui quell’uccello».

Con una scrollata di spalle indifferente, che aveva tutta l’aria di essere un gesto familiare, l’uomo inarcò le sopracciglia. Eliza si accorse che erano spesse e scure.

«Vuoi dire Godfrey», disse lui.

«Ti sembra un nome adatto a un falco?», domandò la donna.

L’uomo rise e fece l’occhiolino a Eliza.

«Il mio professore di studi classici a Eton si chiamava Godfrey, e anche lui era una gran bella persona».

«Eton?», esclamò Eliza sorpresa.

Laxmi sospirò profondamente. «Le presento il secondo e più ribelle dei miei figli, Jayant Singh Rathore».

«Suo figlio?»

«Ripete sempre ciò che le viene detto, signorina Fraser?». Laxmi lo disse con uno sguardo malizioso. E poi sorrise. «È nervosa, è comprensibile. Ma sono felice che sia qui per immortalare la nostra vita. Per un nuovo archivio a Delhi, mi hanno detto».

Dato che si trattava del suo lavoro, Eliza si rianimò e rispose con entusiasmo. «Sì, Clifford Salter vuole degli scatti informali che descrivano come è realmente la vostra vita. Ci sono così tante persone affascinate dall’India che spero di poter pubblicare qualche fotografia sulle migliori riviste. Il “Photographic Times” o il “Photographic Journal” sarebbero perfetti».

«Lo immagino».

«Un documentario completo sulla vita in uno Stato principesco, un reportage di un intero anno. Sono tanto impaziente di iniziare. La ringrazio per avermi invitata. Le prometto di non essere d’ostacolo, ma c’è così tanto da vedere, e la luce qui è incredibile. È tutta una questione di luce e di ombra, sa, il chiaroscuro, e spero di essere in grado di…».

«Sì, sì, ne sono certa. Per quanto riguarda mio figlio, vedrà che, una volta che si sarà tolto di dosso la polvere del deserto, non sarà poi così temibile come sembra ora». Rise. «Lo ammetta. Pensava che fosse un nomade, non è vero?».

Eliza avvertì il rossore salire dal collo, per colpa dei suoi vestiti, anch’essi sporchi di sabbia e polvere; anche se non era la stagione più calda, si sentì avvampare.

«Non si preoccupi, dopo aver trascorso giorni e giorni nel deserto, lo pensano tutti». Laxmi tirò su col naso. «Ha trent’anni, ama il pericolo e preferisce i selvaggi a noi, persone civilizzate. Non c’è da stupirsi che non si sia ancora sposato».

«Madre», disse lui, e Eliza colse una nota di ammonimento nella sua voce. Dopodiché andò a scostare le tende di lato e si appoggiò alla finestra, con uno sguardo pieno di disinteresse e indolenza.

Il senso di frustrazione di Laxmi per suo figlio si palesò in un rapido fremito del mento, ma la donna si riprese subito per rivolgersi di nuovo a Eliza. «Dunque, i suoi bagagli?»

«Questa è solo una parte. Il resto arriverà con un carro». Eliza indicò con un gesto vago della mano l’ipotetica direzione del carro.

«Glieli farò portare io stessa nelle sue stanze. Lei resterà qui, dove potremo tenerla d’occhio».

Improvvisamente scoraggiata, Eliza forse mostrò palesemente la propria ansia, perché la donna rise di nuovo. «La sto prendendo in giro, mia cara. Sarà libera di andare e venire all’interno della reggia come le pare e piace. Abbiamo seguito alla lettera le richieste del governatore britannico».

«Molto gentile da parte sua».

«Non c’entra niente la gentilezza. È nel nostro interesse cercare di compiacere il governo britannico quando possiamo. In passato i rapporti sono stati difficili, lo ammetto. Personalmente, sto cercando di usare la mia influenza per sostenere certe fazioni all’interno della dimora. E comunque, basta parlare di noi. Lei avrà il suo laboratorio con la camera oscura e l’accesso all’acqua, come richiesto; scoprirà inoltre che i suoi appartamenti sono molto confortevoli, si affacciano su un grazioso cortile pieno di palme».

«La ringrazio. Clifford mi ha detto di aver organizzato la permanenza con voi. Ma mi aspettavo… be’, un posto piccolo tutto per me».

«Non sarebbe stato per nulla adatto. In ogni caso, la nostra casa per gli ospiti in città è in fase di ristrutturazione. E non è tutto; noi qui a Juraipore abbiamo abolito la purdah, ma sono molti ancora a ritenere che le donne debbano restare coperte dal velo. Non possiamo permetterci che lei scorrazzi libera e tutta sola là fuori».

«Sono sicura che sarebbe andato tutto bene», rispose Eliza, anche se non ne era affatto convinta.

«No, mia cara. Gli inglesi credono di essere i soli responsabili dell’emancipazione di noi donne, ma, per essere molto franca, io ho sempre rispettato solo formalmente l’usanza della purdah e, dopo la morte di sua madre, mio marito ha prontamente acconsentito ad abolire l’obbligo di portare il velo. Ma la sottomissione e l’ignoranza delle donne piace a molti uomini. Fortunatamente per me, mio marito non era uno di quelli».

«E cosa potrò fare al di fuori delle mura della reggia?»

«Sarà sempre accompagnata, ovviamente. E ora veniamo al suo primo incarico. Adesso che siamo nel pieno del mese del Kartik, Jayant si è gentilmente offerto di accompagnarla in una gita alla fiera dei cammelli di Chandrabhaga. Dopodomani. Sarete scortati da servitori che vi seguiranno. Sono certa che mio figlio si divertirà a sfoggiare il suo inglese e che a lei piacerà la fiera. So che ci sono cammelli di vari colori e molti volti interessanti da immortalare. E domani accompagnerà il signor Salter a una partita di polo».

Eliza aveva i nervi a fior di pelle. Non era affatto entusiasta della partita di polo e nemmeno della fiera dei cammelli. Voleva sistemarsi e sentirsi a proprio agio prima di precipitarsi fuori a fare altro, specialmente se veniva accompagnata da questo principe, sempre che lo fosse davvero. Si sforzò di sorridere, ma aveva le labbra strette. «Speravo che prima avrei visto qualcosa della reggia», replicò, e si accorse che il principe la stava osservando con un’espressione curiosa, col falco ancora appollaiato sull’avambraccio.

«Madre, mi sa che hai trovato una degna avversaria», commentò.

Mentre lui parlava, Eliza credette di cogliere una sfumatura nuova nel tono della sua voce. Stava prendendo in giro lei? O sua madre?

Laxmi borbottò qualcosa, ed Eliza ebbe la netta sensazione che considerasse altamente improbabile il fatto di aver trovato una degna avversaria. «Avrà tutto il tempo per visitare la reggia. Invece la fiera non va persa, vedrà la campagna e lì troverà la vera India. Ora le mando la domestica, Kiri, che le mostrerà i suoi appartamenti».

«Hai permesso a Indira di andare lì da sola, madre? Ci saranno guai».

«Ho mandato un uomo affidabile e un’ancella con lei, e in ogni caso, quella ragazza conosce i suoi cammelli».

Il sole doveva essere calato, perché i lunghi raggi di luce ora illuminavano il pavimento. Laxmi era stata cordiale e amichevole, ma Eliza comprendeva che era una donna che non andava contraddetta. Quando lasciò la stanza, proprio come una regina, il principe si inchinò formalmente. E adesso che Eliza poteva guardarlo meglio, apprezzò il suo volto forte, definito, con gli zigomi alti, proprio come quello di sua madre ma molto più maschile, le sopracciglia disegnate, gli occhi grandi e ambrati, e un paio di baffi. Poi lui si voltò a guardarla con un’espressione severa, e lei abbassò subito lo sguardo.

«Noi non l’abbiamo invitata», disse con estrema calma. «Abbiamo obbedito a un ordine, siamo obbligati a concederle l’accesso alla reggia e a scortarla negli altri luoghi. Gli inglesi ci danno molti altri ordini di questo genere».

«Le è stato ordinato da Clifford Salter?»

«Proprio così».

«E lei rispetta sempre i suoi ordini?»

«Io… ». Fece una pausa, poi cambiò argomento, ma Eliza ebbe la netta sensazione che stesse per dire qualcosa di più. «Mia madre desidera un cammello color cioccolato».

«Esistono cammelli color cioccolato?»

«Soprattutto a Chandrabhaga. Le piacerà. Ben pochi inglesi ci vanno. E con i suoi capelli color cammello, si troverà bene».

Il principe sorrise, ma lei si irrigidì un po’ e si passò una mano sui capelli. «Preferisco pensare che siano color miele».

«Be’, questo è il Rajputana».

«E Indira. Posso chiederle chi è?»

«Bella domanda… una diciannovenne che è un mondo a parte. Troverà Indira molto fotogenica».

«Si tratta di sua sorella?».

Lui si voltò a guardare dalla finestra. «Non è affatto una mia parente. È una miniaturista talentuosa. Un’artista. Vive qui, sotto la protezione di mia madre».

Eliza udì delle voci di bambini che ridevano e gridavano chissà dove oltre la finestra.

«Le mie nipoti», spiegò lui, e le salutò con la mano prima di tornare a guardare Eliza. «Tre piccoli tesori, ma purtroppo non sono maschi, con grande, eterna vergogna di mio fratello».

A quel punto una giovane donna entrò piano nella stanza e fece cenno a Eliza di seguirla. Eliza prese la sua borsa, infastidita. Come poteva dire una cosa del genere proprio di fronte a lei? Credeva davvero che avere delle bambine fosse in qualche modo vergognoso?

«La lasci pure. Qualcuno la porterà per lei».

«Sarò anche soltanto una donna, ma preferisco portarmela da sola».

Lui inclinò il capo. «Come preferisce. Si tenga pronta alle sei di dopodomani. O non sarà troppo presto per lei?»

«Ovviamente no».

Le sembrava che la stesse studiando. «Ha degli abiti femminili?»

«Se intende dire dei vestiti, sì, ma quando lavoro preferisco di gran lunga i pantaloni».

«Bene, sarò lieto di conoscerla meglio, signorina Fraser».

Il suo sorriso indulgente la irritava più del dovuto.

Chi era quell’uomo arrogante per giudicarla? Pigro, viziato, di sicuro senza uno scopo nella vita, come tutti i nobili indiani. E più ci pensava, più si irritava.

Eliza si svegliò presto il giorno dopo. Le sue tende erano sottili e il sole era già abbastanza luminoso da costringerla a proteggersi gli occhi mentre saltava giù dal letto e andava a guardare fuori dalla finestra. Aveva la strana sensazione che, nonostante tutti gli anni passati, qualcosa di questo Paese orientale ancora scorresse nelle sue vene e fosse profondamente radicato in lei. Il solo odore del suolo le riaccendeva ricordi lontani, e durante quella notte si era svegliata molte volte come se qualcosa la stesse chiamando. L’aria era intrisa dell’odore della sabbia del deserto. Eliza respirò, nel freddo del mattino, euforica e nervosa.

La vista sul cortile manteneva le promesse fatte, e lei sorrise alle scimmiette che balzavano da un albero all’altro, giocando e saltando con un’agilità che non aveva mai visto prima. Dato che la reggia – appena una parte del gigantesco fortilizio – era situata in cima alla grande collina di arenaria scoscesa che dominava la città dorata, la vista sui tetti delle case in basso le tolse il respiro e la deliziò. Piccole case cubiche, accoccolate sulle mura della fortezza, brillavano di un intenso color ocra brunito, mentre le abitazioni più lontane sfumavano gradualmente fino a diventare color argento pallido sull’orizzonte, laddove la città lasciava il posto al deserto. Sembrava la scatola dei colori di un bambino, con tutte le sfumature più sublimi dell’oro e del caprifoglio sotto il sole. Tra le case, spuntavano alberi polverosi in cerca di luce, e sopra l’intera città, nuvole di uccelli volteggiavano e scendevano a picco.

Il tempo era molto bello, ma Eliza aveva il sospetto che nel pomeriggio la temperatura avrebbe raggiunto i venticinque gradi, forse anche di più, e c’era una remota possibilità che piovesse. Si chiese cosa dovesse indossare per una partita di polo, infine si decise per una maglia di cotone a maniche lunghe e una pesante gonna in gabardine. Cercare di capire cosa portare con sé in India era stato un pensiero che l’aveva preoccupata per intere settimane prima di imbarcarsi per il lungo viaggio via mare. Sua madre si era rivelata del tutto inutile: sembrava ricordare solo gli abiti da sera che aveva indossato durante gli anni in cui era vissuta in India, prima che il marito, il padre di Eliza, venisse ucciso. Eliza ricordava così poco di quei giorni, ma ancora le saliva un groppo in gola quando pensava a lui.

La sua vita non era stata facile, e poi, dopo la morte di suo marito Oliver, Eliza era tornata a vivere a casa, dove aveva scoperto che sua madre Anna nascondeva bottiglie di gin, sotto il letto di solito, o sotto il lavello della cucina. Anna negava con forza il proprio comportamento e, a volte, non riusciva nemmeno a ricordare i momenti di ebbrezza. Alla fine Eliza si era arresa. Sapevano entrambe che Clifford Salter era un dono del destino e che, tornando in India, Eliza avrebbe cercato di andare avanti, anche se per il momento stava ripensando al passato, e non solo perché pensava a sua madre.

Si guardò attorno nella sua stanza. Era ampia e ariosa, il letto era nascosto da un séparé, e un angolo era stato arredato come fosse un salottino, con una comoda poltrona e un morbido sofà, dietro il quale un arco conduceva a una piccola sala da pranzo. Non c’era alcuna traccia di formiche o falene. Un altro stretto arco decorato sulla parete opposta al letto conduceva in un bagno sontuoso. La porta della sua camera oscura si trovava fuori, nel corridoio cupo, ed era stata ben lieta di apprendere che lei sola ne avrebbe avuto la chiave.

Mentre sistemava i vestiti, ripensò al suo arrivo, la sera prima, e a come il tramonto brillante avesse arrossato il cielo. Le campane del tempio stavano suonando e due ragazzine, correndo sui pattini, l’avevano quasi investita. Avevano strillato e ridacchiato, e poi si erano scusate in hindi; Eliza, contenta di aver grosso modo compreso le loro parole, aveva ringraziato mentalmente il vecchio ayah indiano che le aveva insegnato la lingua. Le erano state d’aiuto anche le lezioni che aveva preso di recente.

Subito dopo, un servo con guanti immacolati, che indossava una divisa bianca e un turbante rosso, le aveva portato le sue ciotole di dahl, riso e frutta, su un vassoio d’argento, e dopo aver disfatto le valigie, era stata grata di veder calare la sera.

Se non ci fosse stato tanto rumore, si sarebbe addormentata all’istante, stanca com’era del lungo viaggio dall’Inghilterra, della corsa fino a Delhi e dell’ulteriore viaggio di un giorno fino a Juraipore. Ma c’era stato molto rumore: musica, risate, uccelli, rane che gracidavano e bambini che schiamazzavano a tutte le ore; tutto questo frastuono entrava dalla sua finestra assieme ai richiami dei pavoni – un verso simile a quello dei gatti in amore – e aveva movimentato la sua nottata.

Impotente, era rimasta sveglia rapita dall’incanto della notte di Juraipore: tamburi, flauti, il fumo nell’aria, ma soprattutto quel senso di vita vissuta appieno, a dispetto della povertà e del mondo deserto.

Incapace di fermare la mente, pensò a suo padre e a suo marito. Sarebbe mai stata pronta a perdonare se stessa per quello che era accaduto? Doveva farlo, se voleva cogliere le opportunità nella vita, come questa, e se non voleva finire a casa di sua madre con la coda tra le gambe. Eliza non osava ammettere che era tornata in India anche per riscoprire qualcosa di sé, qualcosa che aveva perduto il giorno in cui era partita per l’Inghilterra.

2

La giornata era cocente ed Eliza ben presto si sentì appiccicosa e troppo coperta. Sarebbe stato un giorno perfetto per gli abiti estivi, di mussola, e non per quelli di lino pesante, anche se Clifford stesso indossava un abito di lino con colletto e cravatta.

In realtà si trattava di un evento molto più piccolo di quanto non avesse immaginato, più simile a una festa in giardino che ad altro, ma con gruppi di sostenitori schierati da entrambe le parti, alcuni seduti sulle sedie; nell’aria c’era una certa eccitazione. Eliza non era mai stata a una partita di polo prima di allora, e il campo, circondato da alberi e ringhiere di ferro con una splendida vista sulle colline sullo sfondo, era un paradiso.

«Almeno qui è asciutto», disse Clifford. «Non come in Inghilterra, dove i campi fangosi sono un problema».

Le spiegò che la squadra inglese era composta da ufficiali dell’esercito, del quindicesimo Lancieri, e sembrava che si fossero portati un bel gruppo di sostenitori, molti dei quali erano sicuramente già ubriachi. C’erano anche altri militari, con la loro servitù, oltre a un paio di giocatori di riserva in dotazione, nel caso in cui la partita del giorno li richiedesse.

Eliza aspettava accanto a Clifford e guardava la piccola folla. Appena oltre il gruppo dei tifosi inglesi, c’erano un uomo e una donna alti, in piedi, a braccetto. La donna le sorrise. Clifford, notando la cosa, le sussurrò che era Dottie Hopkins, la moglie del dottore. «Incontrerai entrambi, più tardi», aggiunse. «Brava gente».

La donna sembrava amichevole e a Eliza faceva piacere conoscerli. Nella direzione opposta, si era già radunato un folto gruppo di rumorosi sostenitori degli indiani, anch’essi accompagnati da uno sciame di servi in divisa, ed era da loro che Eliza non riusciva a staccare gli occhi.

«Sebbene sia meglio conosciuto come il gioco dei re, Anish, il reggente, vi partecipa raramente in questi giorni», le stava spiegando Clifford. «Quello da guardare è il principe Jayant. È molto abile col cavallo e sa fare gioco di squadra. Se c’è lui in campo, oggi avremo la partita in pugno».

«Si disputano spesso queste partite?»

«Le più importanti sono quelle di campionato, questa di oggi è solo un’amichevole, giusto per intrattenerci. Jaipore è la squadra favorita, sai, ha vinto il campionato indiano quest’anno, ma Juraipore sta rimontando velocemente la classifica e la segue a stretto giro».

«È magnifico».

«Puntiamo ancora alla vittoria. Con le bandiere sventolanti e tutto il resto».

Presto arrivarono i giocatori e si allinearono velocemente in campo, in divisa e con la schiena dritta. Poi i palafrenieri fieri e orgogliosi lasciarono entrare i pony e la folla iniziò ad applaudire, anche se Clifford si affrettò a spiegarle che quelli non erano veri pony, ma cavalli in piena regola.

«Si tratta di uno sport terribilmente costoso. I pony sono carissimi».

Eliza osservò i membri delle squadre montare a cavallo – tutti sembravano incredibilmente forti – e riconobbe il principe Jayant tra loro, proprio mentre si sedeva in sella a un magnifico cavallo nero. Un boato si levò dalla folla entusiasta, seguito dal tifo e dai fischi dei sostenitori indiani.

Clifford si avvicinò maggiormente a Eliza. «Richiama sempre l’attenzione della folla. E il suo cavallo ha un ottimo carattere. È necessario fare affidamento su un animale che non si agiti troppo. Ora, li vedi quei due tizi?».

Eliza guardò nella direzione in cui Clifford puntava il dito.

«Sono i giudici di gara. C’è anche un arbitro, in caso di contestazioni. Il polo è un gioco di fair play».

Per il momento era tutto abbastanza divertente: Eliza era contenta di trovarsi fuori, all’aria aperta, e di godersi la novità, nonostante le sue precedenti riserve. Osservò le due squadre che si allineavano fronteggiandosi l’un l’altra, con i bastoni da polo legati alle mani; poi, non appena la palla fu colpita, la partita cominciò. L’atmosfera si accese mentre nuvole di terra si alzavano attorno al disco e i cavalli tuonavano, ma ben presto fu chiaro che, tra una tirata e un affondo, il pony del principe sembrava agitato.

«È normale che succeda?», chiese Eliza.

Clifford aggrottò le sopracciglia. «Mi sembra che sia un po’ vivace».

Lei continuò a guardare gli uomini a cavallo e poi notò che, in mezzo alla tifoseria indiana, una coppia di signori in abito formale, con le spade ricurve lungo i fianchi, aveva fatto un passo in avanti, come se ci fossero guai in arrivo. Trattenne il respiro, ma non accadde nulla e il gioco proseguì. Eliza osservava affascinata, ascoltando a malapena Clifford che le spiegava le regole del polo e la terminologia adeguata.

Fu solo pochi minuti dopo che qualcosa sembrò davvero andare storto al cavallo del principe.

«Mio Dio!», esclamò Clifford quando il cavallo iniziò a trottare all’indietro e a imbizzarrirsi, completamente fuori controllo, e poi prese a scalciare.

Eliza notò l’espressione di estremo fastidio dipinta sul viso del principe Jayant, anche se, forse, a prevalere era la perplessità.

Sia gli inglesi che gli indiani mormorarono, e lanciarono un grido quando la sella di Jayant prese a scivolare di lato; all’improvviso il principe si ritrovò con la schiena a terra, mentre il cavallo lo trainava in una corsa selvaggia. Gi altri giocatori rimasero completamente immobili, tutti guardavano con orrore i due palafrenieri che inseguivano il cavallo imbizzarrito. Eliza trattenne il fiato e si aggrappò al braccio di Clifford quando l’animale si lanciò sui tifosi indiani; parecchi gridarono e alzarono le braccia, sconvolti, altri, invece, scapparono via. Improvvisamente si udì un grido, e una donna cadde riversa all’indietro contro una ringhiera.

Il cavallo scalciava e scalciava, Eliza aveva paura; tutti correvano per allontanarsi dalla traiettoria dell’animale, ma la donna, che giaceva sul terreno, in silenzio, non si muoveva più.

Eliza vide il medico, che prima Clifford gli aveva indicato, correre a inchinarsi su di lei. Poi si accucciò al suo fianco.

Quando infine i palafrenieri riuscirono a prendere e a frenare il cavallo imbizzarrito, altri due uomini arrivarono con una barella e la donna fu portata via, seguita dal dottore. Nel frattempo il principe si era alzato in piedi e si stava scrollando di dosso la terra, apparentemente illeso, ma livido in volto nel momento in cui lasciò il campo tirando il cavallo per le briglie. I due uomini con le spade lo seguirono, ed Eliza pensò che fossero le sue guardie del corpo.

Il suo occhio da fotografa era ormai allenato a cogliere ogni dettaglio di una scena. Vide un indiano, probabilmente uno stalliere, che parve quasi uscire furtivo dalle stalle, aggirare la folla di indiani e poi raggiungere un altro uomo. Quest’ultimo era alto, aveva un portamento regale. Diede una pacca sulla spalla del primo e gli sorrise. Le sembrò molto strano, considerando che il loro principe aveva corso il rischio di restare ferito. Nonostante l’atmosfera tesa, Eliza notò anche due inglesi che si scambiavano occhiate e si facevano l’occhiolino l’uno con l’altro.

«Che idioti! Non c’è niente da ridere», disse lei. «Per quel che ne sappiamo, quella donna potrebbe essere morta».

«Lo scopriremo presto, direttamente da Julian Hopkins», commentò Clifford.

Nel frattempo gli inglesi parlavano tra loro, sereni e incuranti, non sembravano affatto sconvolti come avrebbero dovuto, e non avevano la minima intenzione di andarsene.

Invece i sostenitori degli indiani scuotevano le teste e borbottavano; molti semplicemente voltarono le spalle e se ne andarono.

«Quindi la partita verrà interrotta, adesso», commentò Eliza, certa che sarebbe andata così.

«No», rispose Clifford. «Guarda. Un sostituto del principe si sta già preparando. È previsto dal regolamento in caso di infortunio».

«Davvero? Ma è una cosa spietata!».

«Lo spettacolo deve proseguire, Eliza».

Guardandosi attorno, Eliza riuscì a percepire il senso di ansietà che pervadeva la folla mentre si allontanava, e sperò ardentemente che quella donna fosse viva.

«Però quanto accaduto oggi è strano, davvero bizzarro. Non ho mai visto niente del genere. Anche senza il principe, spero che riusciremo comunque a vincere. Sarebbe già qualcosa. Dubito che cavalcherà un altro pony dopo quello che è successo oggi».

3

Il giorno seguente, Eliza e Jayant Singh lasciarono le sale di marmo per attraversare cortili intagliati e decorati in pietra arenaria rosa, lucenti e scintillanti alla pallida luce dell’alba; poi raggiunsero e percorsero padiglioni comunicanti tra loro, fino a raggiungere un luogo dove le brezze più fresche soffiavano da giardini profumati.

Sebbene Eliza stesse ancora pensando alla partita di polo, qualcosa in quella maestosità la fece diventare altezzosa e austera. Allungò il collo e camminò con fierezza, e quando si gettò la sciarpa sopra la testa, si inorgoglì tutta. Con quel semplice gesto femminile, si era messa nei panni ricamati di una regina indiana.

«Questo posto sembra quasi fatto di legno di sandalo, e non di arenaria», disse lei, quando raggiunsero un giardino delimitato da un muro, in cui i principali colpevoli del rumore della notte precedente, se ne stavano impettiti. Pavoni!

Quando uno di questi decollò dal muro per cadere pesantemente a terra, Eliza si mise a ridere. E chi lo sapeva, che la bellezza poteva essere anche tanto goffa?

«Piantati nel diciottesimo secolo», stava dicendo il principe, indicando i cespugli di rose, i cipressi, le palme e gli aranci.

Lasciarono il castello per mezzo di una rampa che attraversava sette cancelli ad arco. Sotto uno dei cancelli, Eliza riuscì a scorgere cinque file di mani scolpite su una delle pareti laterali.

«Realizzato dalle impronte delle donne sati», spiegò il principe, sembrando del tutto indifferente alla cosa. «Quando si recavano alla pira funeraria per suicidarsi, le donne intingevano le mani nella polvere rossa, e poi le premevano sul muro per esprimere la propria devozione. Più tardi le pittografie vennero scolpite».

Eliza ansimò. «Ma è orribile».

«Noi definiamo sati una donna che si suicida, e voi inglesi definite suttee lo stesso atto. È una pratica illegale dal 1829 nell’India britannica e ormai anche qui, negli Stati principeschi, dopo il veto imposto a tutta l’India dalla regina Vittoria nel 1861. Eppure tuttora…».

Eliza conosceva già il rituale di immolazione delle vedove dei principi Rajput, e anche di tutte le altre donne, ma si sentiva male al solo pensiero. Credevano veramente che bruciare, vedove, su una pira fosse un modo onorevole di morire? Era quasi impossibile comprendere quello che le donne dovevano effettivamente aver provato.

Guardò le vie sabbiose della città medievale, con artigiani di ogni tipo, e pensò a quando aveva visto per la prima volta le immense mura, i bastioni e le torri. Si voltò indietro a guardare di nuovo la fortezza. Arroccata e inespugnabile su una collina rocciosa, era stata chiaramente costruita cesellando la pietra della roccia stessa su cui sorgeva. Chi poteva sapere quante donne tra quelle mura fossero morte sul fuoco?

Salirono in auto e, dopo poco, mentre si lasciavano la città alle spalle, Eliza vide il deserto, dove i venti alzavano le sabbie ardenti e ispessivano l’aria. Per miglia e miglia nella pianura, la strada si snodava lungo un paesaggio sbiancato dal sole, con qualche acacia sparsa qua e là e cespugli spinosi, punteggiati di quando in quando da macchie di verde lussureggiante. Era un luogo solitario e vuoto, e Jayant Singh era silenzioso, chiaramente concentrato sulla guida lungo la strada che a malapena si distingueva. Eliza perdonò il suo silenzio; tuttavia, un uomo che denotava una tale forza sia mentale che fisica era difficile da ignorare. Percepiva in lui una sorta di energia selvaggia. La infastidiva, si sentiva tesa e a disagio, ma cercò di fare un minimo di conversazione; dato che lui, però, era tanto taciturno e non le rispondeva, alla fine desistette e si abbandonò ai suoi sogni a occhi aperti, concedendo ai suoi stessi sensi di rapirla. Poi, proprio mentre stava scivolando in una fantasia di palazzi, giardini e scimmie dondolanti, nel preciso istante in cui stava per comparire il volto di suo padre, Jayant iniziò a parlare.

«La mia sella è stata manomessa», disse e, al suono della sua voce calda e fumosa, Eliza sussultò.

«L’ho vista alla partita di polo, ieri. Sono sicuro che deve essersi fatta qualche domanda».

«Mi è dispiaciuto molto assistere all’accaduto. Come lo sa? Della manomissione, intendo dire».

«La cinghia dello straccale è stata tagliata. L’avevo controllata il giorno prima, ma sono arrivato troppo tardi per testarla nuovamente ieri. Quella cinghia è la parte più vulnerabile del sottopancia. Avrei dovuto controllare di nuovo».

«È stata questa la causa delle bizze del cavallo?»

«No, è stata l’acacia spinosa che qualche idiota aveva messo sotto la sella».

«Oh, Dio! Allora vuol dire che si è trattato di un vero e proprio sabotaggio». Ripensò ai due uomini indiani che le erano sembrati tanto sfuggenti. «Poteva rimanere ucciso».

Lui sorrise. «Magari mi sarei potuto rompere un osso, quello sì, ma come vede sto bene. Tuttavia, il mio cavallo poteva sì rimanere ucciso. Io questo non riesco a perdonarlo, proprio come quanto è accaduto a quella povera donna…».

«Come sta?»

«Una commozione cerebrale, credo. Per fortuna niente di più grave».

«Sono indignata. È orribile pensare che sia stato fatto apposta, un atto volontario».

La voce del principe divenne più profonda. «Infantile, direi. Il mio cavallo è una bellezza: è forte, agile e veloce. Questo è ciò che conta, e Dio solo sa cosa poteva accadere alla gente. Non fa altro che dare al polo una cattiva nomea».

«Cosa si può fare in proposito?»

«Mi sono già lamentato con Clifford Salter e con le autorità sportive, ma non abbiamo prove e non sappiamo chi sia stato. Ho i miei sospetti, ma si tratta di una squadra ospite in visita, sono già ripartiti».

Eliza tenne per sé il fatto di aver visto i due uomini indiani che ridevano. Anche se il principe le era sembrato furioso sul momento, sembrava aver preso la cosa con filosofia.

«Allora, signorina Fraser, come mai è tanto interessata a noi?»

«Lo sa il perché. Ho un lavoro da portare a termine».

«Strano che il signor Salter abbia scelto una donna praticamente sconosciuta».

Eliza si adirò. «Non sono completamente sconosciuta».

Ci fu un breve silenzio, durante il quale lei inveì col pensiero.

«Questo è un viaggio di diversi giorni», proseguì il principe, incurante, interrompendo i suoi pensieri.

«Be’, avrebbe dovuto dirmelo. Ho portato solo un cambio di abiti».

«Come me».

«Lei non si lava?».

Il principe rise forte. «Se solo avessi una sterlina per tutte le volte che un europeo mi ha fatto questa domanda… Stasera ci accamperemo, e anche domani. Perciò, no».

«Non volevo dire in quel senso». Era certa che lui avesse capito perfettamente, perciò lasciò perdere. «Quindi? Dove ci accamperemo?»

«Nel deserto. Ma non si preoccupi, non sarà sola, ci sarà un’ancella con lei. Lei e gli altri ci stanno seguendo».

«E le tende?»

«Già pronte. Alcuni uomini sono andati avanti per preparare l’accampamento. Ogni anno, la fiera Chandrabhaga di Jhalawar ha luogo nel mese hindu del Kartik. È una zona pressoché inesplorata dagli inglesi, per questo mia madre ha pensato che le sarebbe piaciuto vederla».

«E che mi dice del carburante dell’auto?».

Lui tolse una mano dal volante e indicò il grande deserto. «Lo troveremo al bisogno, nei punti di sosta. È tutto organizzato».

«Ma normalmente andate tanto lontano ad acquistare i vostri cammelli?»

«Molto perspicace. E no, di solito andiamo a Pushkar o a Nagaur».

«Dunque?»

«Ci sono affari da sbrigare. Durante la fiera i pellegrini si riuniscono sulle rive del sacro fiume Chandrabhaga. Vedrà anche fortezze, palazzi, la fauna selvatica, e un magnifico lago dove abbiamo un palazzo estivo che un cugino ci ha lasciato. È dove ci stabiliremo. Potrà anche visitare l’antica città delle campane».

«Io non sono una turista, è la gente che voglio fotografare», replicò lei irritata. «E in ogni caso, è quello che ha chiesto il viceré. Niente scatti amatoriali. Stiamo costruendo un archivio fotografico a Nuova Delhi. Clifford dice che deve essere un reportage di confronto tra la vita nei principati e quella nell’India britannica».

«A nostro danno, senza dubbio».

Lei si irritò. «Niente affatto. In ogni caso, spero di riuscire ad allestire una piccola mostra personale se trovo uno sponsor».

«Bene. Ma stia attenta. Chatur penserà sicuramente che lei sia una spia», rise lui. «Lo è?».

Eliza aveva l’orticaria per la rabbia. «Ovviamente no. E comunque, chi sarebbe Chatur?»

«L’alto ufficiale. Gestisce tutto».

Lei rimase in silenzio.

«I mercanti provenienti dalle più remote zone del Rajputana, Madhya Pradesh e Maharashtra si danno appuntamento a questa fiera. Avrà i suoi ritratti».

«Anche quello di Indira?»

«Sì, certamente».

«Può parlarmi di lei?»

«Sarebbe meglio se la vedesse di persona. A proposito, ritiro quello che le ho detto sui suoi capelli. Alla luce del sole sono rossastri, o dorati, forse, non color cammello».

«Miele», mormorò lei, ma non resistette e sorrise.

Superarono alcuni insediamenti stretti attorno ai loro pozzi e, di tanto in tanto, piccoli villaggi dove i contadini coltivavano granturco, lenticchie e miglio; dopo aver oltrepassato mandrie di capre, pecore e persino cammelli al pascolo su campi erbosi, il principe riprese a parlare.

Indicò la zona oltre il suo finestrino. «Quando vede quell’erba, khimp o akaro, saprà che nel sottosuolo c’è l’acqua. A volte vaste riserve d’acqua. Ma potrebbe trovarsi molti metri sotto terra».

«E immagino che la perforazione sia costosa».

Lui annuì. «Molte donne percorrono chilometri e chilometri ogni giorno per raggiungere le cisterne dell’acqua. Mi interessa l’acqua. Dipendiamo dai monsoni per riempire le cisterne e quest’anno è piovuto poco, così come l’anno precedente. La vita può essere dura. Non si può conquistare un deserto, si può solo fare il massimo per proteggerlo».

«Io ho bisogno di acqua per sviluppare le mie fotografie».

«E questa sarà la sua rovina».

Quella sera Eliza e il principe sedettero a gambe incrociate attorno al fuoco dell’accampamento, in compagnia di uomini fieri con i loro turbanti colorati. L’aria era fresca e dolce, con una leggera brezza che portava il profumo della sabbia e della polvere mista alle spezie della pentola sospesa sul fuoco. Sorpresa di essere stata subito accettata, si rese poi conto che accadeva solo perché era in compagnia del principe Jayant.

Lui le offrì un bicchiere di latte, ed Eliza notò che la sua pelle ambrata brillava alla tremolante luce del fuoco.

«Latte di cammello», disse. «Molto nutriente, ma inacidisce rapidamente, quindi bisogna berlo subito. Non se ne ricava formaggio».

Eliza sorseggiò il latte e riconobbe che era buonissimo.

«Ma non beva l’asha, qualunque cosa accada».

«Che cos’è?».

Rise. «Una potente bevanda fermentata. Le darebbe alla testa. Glielo dico per esperienza».

Uno degli uomini stava suonando una sorta di tamburo, un altro faceva dolcemente tintinnare alcune campanelle votive, mentre il fumo si alzava nell’aria; Eliza si sentiva quasi intossicata da tutta quella scena fuori dal tempo. L’ancella che sedeva accanto a lei avrebbe anche condiviso la sua tenda, quindi, benché Eliza fosse un po’ nervosa per il fatto di trovarsi in pieno deserto con tutti quegli uomini, in realtà non si sentiva affatto minacciata.

Il giorno successivo, dopo una notte straordinariamente fresca, coricata su uno o due charpoys, letti tradizionali fatti di stoffa, Eliza si svegliò in tempo per vedere un’alba argentea e udì delle voci. Si stiracchiò, pronta a godersi lo spettacolo, ma l’intenso profumo del cibo era troppo allettante quindi, dato che aveva molta fame e che l’ancella era già in piedi, si mise addosso i suoi vecchi abiti senza pensare affatto a lavarsi, e si fece strada all’esterno della tenda. In quei pochi minuti, la luce era già cambiata. La accolse una mattina di straordinaria bellezza: il cielo sfumava nel rosa più intenso sull’orizzonte, diventando color pesca a mano a mano che saliva. Non c’era una sola nuvola in vista.

La luce delicata illuminava gentilmente la pianura che sembrava estendersi per chilometri e chilometri, e lei si sentì appagata da quello spazio infinito. Individuò quella che pensò essere la dimora temporanea di un pastore, costruita con pali di legno e un telone di qualche tipo gettato sopra per fare ombra. Era circondata da decine di capre che ruminavano tra i radi cespugli e, anche se la vita nomade doveva avere di certo le sue gratificazioni, Eliza pensò che fosse troppo solitaria.

Fu piacevolmente sorpresa di essere salutata da un sorridente principe Jayant, con il volto orgoglioso più addolcito.

Jayant le indicò con una mano il luogo dove avrebbero mangiato. Ma non era solo il suo volto a essere diverso, tutto in lui era cambiato; Eliza comprese che quest’uomo nuovo, rilassato, era nato per la vita all’aria aperta. Indossava un paio di pantaloni scuri, di foggia europea, con una maglia verde scuro, senza colletto. Dopo gli avrebbe chiesto se poteva scattargli una foto. Durante il lauto pasto a base di dahl e riso cotti sul fuoco da uno degli uomini, il principe rise e scherzò con gli altri, senza rispettare molto il cerimoniale; si vedeva chiaramente che era benvoluto.

Eliza notò le piccole rughe che gli si aprivano a ventaglio agli angoli degli occhi, e che la barba incolta spuntatagli sul mento e sulle guance, in realtà lo rendeva più accessibile.

«Le capita spesso di accamparsi?», gli chiese.

«Ogni volta che posso. È la mia via di fuga, capisce».

«Lei ha bisogno di fuggire?»

«Non è un bisogno comune a tutti?».

Eliza si rese conto di quanto fosse vero, ma anche di quanto il principe fosse profondamente cambiato. «Non rispetta il cerimoniale. Pensavo che lo avrebbe fatto. Ma lei non è un principe come gli altri, non è vero?».

Lui inclinò la testa. «Forse no, ma non si può mai dimenticare completamente da dove si proviene».

«Questo, sfortunatamente, è corretto».

«Credo che dovrebbe vedere Udaipore all’inizio della stagione delle piogge. Sarebbe il luogo migliore per ammirare le nuvole scure che si addensano. È la città dei laghi».

«Ne ho sentito parlare».

«Magari potrei accompagnarla lì per scattare delle fotografie», propose lui. «Si tratta di uno dei posti più belli del Rajputana».

Quando raggiunsero le pendici dei monti Aravalli, Eliza si irrigidì alla vista dei tori blu che vagavano liberamente.

Il principe rise. «Non si preoccupi, signorina Fraser. Non si avvicineranno a noi. Ormai sono abituati alle carovane e al passaggio di merci e persone che va avanti dall’antichità. Seguiamo parte della vecchia rotta che attraversava il deserto portando merci preziose da luoghi lontani. All’epoca, offrivamo in cambio il nostro legno di sandalo, il rame, i cammelli e le pietre preziose».

«Avrei voluto vivere a quei tempi».

«Erano tempi pericolosi in cui i Paesi erano in guerra costante gli uni contro gli altri. La vita qui poteva essere molto dura».

Eliza notò un gruppo di avvoltoi appollaiati su uno sperone roccioso.

Il principe le sorrise.

«Comprende cosa intendo dire? Non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopravvivere, se si fosse ammalata a quei tempi».

«Caspita! Allora sono fortunata!».

«Non ci sono dubbi a riguardo. Ma guardi quant’è bello il paesaggio qui. Queste colline si estendono per chilometri e chilometri. La vegetazione è di tipo prevalentemente tropicale, con un misto di latifoglie e teak, ma sono preoccupato per la progressiva deforestazione».

«Ci sono possibilità che avvenga?»

«Sta già accadendo».

Mentre parlavano della vita in Rajputana, il principe sembrava molto rilassato. Amava in modo viscerale la sua terra natale e, nonostante l’educazione britannica, era chiaro che questo era il luogo a cui apparteneva. La tensione iniziale che Eliza aveva provato quando erano partiti, il giorno prima, era completamente svanita, e alla fine del secondo giorno in sua compagnia, Eliza si sentiva relativamente contenta.

Quando l’ultimo giorno raggiunsero la fiera, superarono un uomo con un enorme paio di baffi a manubrio e uno sguardo spiritato negli occhi. Stava conducendo un cammello, sul quale sedeva una donna con una sciarpa rossa che svolazzava al vento, ma con il volto e i capelli coperti e con dei braccialetti che tintinnavano alle caviglie. Stretto al suo fianco c’era un bimbetto esile, con una chioma nera arruffata. I colori vivaci dei loro abiti contrastavano con l’incredibile azzurro del cielo.

«Potrebbe fermarsi?», chiese Eliza. «Vorrei scattare una fotografia». Anche se purtroppo quei colori non si sarebbero mai visti nelle sue immagini.

«Deve chiedere il permesso all’uomo, prima», le spiegò Jayant, affondando il piede sul pedale del freno. «Mi hanno detto che lei parla la lingua del posto. Ma non ho ancora idea di quanto bene».

«Ho vissuto a Delhi da bambina».

«No, aspetti», la fermò, non appena Eliza aprì la portiera dell’auto. «Meglio che sia io a chiedere. Il dialetto di qui è differente».

Il principe Jayant scese dalla macchina e, dopo un breve scambio di battute con l’uomo, durante il quale entrambi sorrisero, allungò la mano per porgergli alcune monete; poi tornò all’automobile.

«Tutto a posto», fu tutto ciò che le disse.

Scattò la fotografia con la sua Rolleiflex, sperando di essere riuscita a catturare l’aspetto tormentato dell’uomo, e poi ripresero il viaggio, superando un lago e disturbando col loro passaggio enormi uccelli bianchi dai becchi incredibilmente lunghi. Mentre si levavano in stormo dalla superficie dell’acqua, osservò stupita l’enorme apertura alare e le belle piume nere alle estremità delle ali.

«Sono incredibili!».

«Sono pellicani», le spiegò il principe. «Non li aveva mai visti prima d’ora?»

«Di certo non in Inghilterra, nei Cotswolds», rispose lei, e si accorse che lui stava sorridendo.

«Il livello delle acque è inferiore a quello che dovrebbe essere in questa stagione», osservò Jay, studiando il lago.

Quando furono più vicini alla fiera, Eliza rimase senza fiato alla vista delle centinaia di cammelli che vagavano sparsi per tutta la pianura. Gli uomini stavano seduti in piccoli gruppi accanto ai fuochi e, quando il principe fermò la macchina e lei ne uscì fuori, l’odore del fumo e dello sterco quasi la soffocò. Si era aspettata di attirare l’attenzione, ma il posto era talmente affollato che nessuno la notò.

«Non si fermi mai dietro a un cammello», le disse il principe con un sorriso furbo, tirandola via. «Sono creature che soffrono di flatulenza, senza contare che sono anche un po’ scontrosi».

Dall’altro lato, su una pista stretta, vide bovini, capre e cavalli. «Non sapevo che si commerciassero anche altri tipi di bestiame qui. Come fanno a trovare ciò che cercano?»

«Esistono diverse varietà di cammelli. Se si sa cosa si cerca, non è difficile».

«E lei cosa sta cercando?»

«Ah», sospirò lui, e non rispose, ma le sorrise ironicamente.

«Ci vorrebbe una vita intera per capirlo. E un’altra vita per riuscire a spiegarlo».

Lei lo guardò. C’era davvero qualcosa di molto profondo e filosofico in quell’uomo. Quando si voltò nuovamente a guardare gli animali, si rese conto che erano di diverse dimensioni e colori, e glielo disse.

«Proprio come noi umani, non le pare? Ci sono anche razze più resistenti, e animali più delicati. Andiamo a cercare Indira».

Eliza rimase vicino al principe, chiedendosi come avrebbe dovuto rivolgersi a lui. Dato che lui continuava a chiamarla “signorina Fraser”, si sentiva a disagio. Aveva evitato di chiamarlo per nome fino a quel momento, perciò decise che era tempo di chiederglielo.

«Mi può chiamare Jay», la informò. «Lo fanno tutti».

Lei aggrottò la fronte.

«Be’, non tutti, ma lei ha il permesso».

«Non è piuttosto informale?»

«Non mi aspettavo che lei fosse tanto legata alle consuetudini. Di certo non lo è nel modo di vestire. In effetti a me sembra piuttosto trascurata». La guardava con uno sguardo attento, e lei si accorse di essere indignata, ma solo perché lui aveva colto qualcosa di insito nella sua natura. «Questo è piuttosto…».

«Non è un commento molto da inglese, intende dire, ma io non sono inglese, anche se mi hanno fatto studiare a Eton per farmi sembrare tale».

«È questo che hanno fatto?»

«Lei cosa ne pensa?».

Eliza guardò a terra prima di rialzare la testa, pensando che le ombre del passato possono essere visibili anche nel giorno più soleggiato. «Comunque sono la signora Cavendish, tra le altre cose. Ma di solito uso il mio nome da nubile, Fraser appunto».

Fu allora che il principe notò la fede al suo dito.

Anche se la perdita di Oliver era stata tremenda, era consapevole che non si trattava del vero amore. E come avrebbe potuto esserlo? Ma la morte di suo padre… quella era stata una pugnalata al cuore, tanto profonda da strapparle il desiderio di vivere. Non riusciva a mangiare. Non riusciva a dormire. E per molti mesi non era riuscita nemmeno a parlare. Era consapevole di essere in parte colpevole per l’accaduto, quindi aveva incubi terribili.

«Sono vedova», gli disse.

Lui inarcò le sopracciglia.

«Non intendo fingere con lei, è accaduto da poco».

«Meglio tenere la cosa per noi, credo. Qui la gente crede ancora che le vedove portino sfortuna e le cose prima o poi vengono fuori».

«Preferirei dirlo a Laxmi. È stata così gentile, non voglio che lo scopra in seguito e che pensi che io sia venuta qui con altri scopi».

Il principe scosse la testa. «La gente da queste parti crede che sopravvivere al proprio marito significhi che la donna non è stata in grado di curarlo e accudirlo in modo appropriato, e quindi la conseguenza della colpa è un karma negativo».

«Come se non stessi già abbastanza male».

«Dovrebbe fare penitenza per il suo peccato, mangiando solo riso in bianco; non si dovrebbe risposare mai più, anche perché la legge vieta di sposarsi due volte. Lo so, si tratta di norme antiquate, ma potrebbero renderle la vita difficile. Inoltre, dovrebbe vestirsi di bianco e rasarsi la testa». Le sorrise.

«Pensavo che queste credenze fossero superate».

Lui chinò il capo e si strinse nelle spalle, come a confutare quello che lei gli aveva appena detto. «Anche se gli inglesi hanno dichiarato illegale il suicidio suttee, esso è ancora praticato. Le vecchie abitudini sono dure a morire, signorina… voglio dire, signora Cavendish».

«Credo che sia meglio se mi chiami Eliza».

Lui non fece in tempo ad annuire che subito una giovane donna passò accanto a Eliza per correre incontro a Jay; si prostrò in un inchino esagerato e poi scoppiò a ridere. Era molto esile e in un primo momento Eliza pensò che si trattasse di una bambina, forse una parente, ma poi notò il volto della ragazza: era più chiaro di quello di Jay e di una rara bellezza, che Eliza non poté far altro che ammirare. I suoi lunghi capelli sciolti cadevano fino alla vita e gli occhi erano incredibilmente verdi e delineati da un’ombra scura, che non li rendeva molto diversi, in effetti, da quelli grigioverdi di Eliza. Tuttavia, mentre gli occhi di Eliza avevano il colore dolce e delicato dei laghi inglesi, quelli di questa ragazza sembravano due smeraldi: brillavano e catturavano la luce, mentre lei rideva entusiasta. La sua era gioia pura, si disse Eliza. Pura gioia effervescente. La ragazza aveva un gioiello sul naso ed era ricoperta di bracciali e collane. Dopo qualche minuto Jay la prese per mano e, sorridendo, si voltò verso Eliza.

«Indira», disse. «Lei è Eliza, la signorina Fraser, per te. Eliza, lei è Indira».

«Namaskar», disse la ragazza, con le mani giunte al petto.

Jay intervenne. «Indira è stata educata alla reggia, quindi parla un buon inglese, perciò non farti ingannare, Eliza».

Mentre il giorno volgeva al termine, Jay le portò in automobile fino al palazzo estivo sulle rive del lago. Non era affatto come Eliza se l’era aspettato, anzi, aveva bisogno di un restauro urgente, perché le mura erano scrostate e cadenti. Il principe le disse che possedeva un palazzo simile in ristrutturazione nello Stato di Juraipore e che pensava di sistemarlo per il giorno in cui avrebbe messo su famiglia.

«Si chiama Shubharambh Bagh».

Eliza sapeva che la parola bagh indicava un luogo dotato di giardino e frutteto, che conteneva in particolare alberi da frutto, e che shubharambh era una parola augurale, un inizio sotto i migliori auspici.

«Sarà bello, laggiù», continuò il principe. «Ma credo che potrebbe tornarti utile fotografarlo così com’è».

Lei annuì, era d’accordo.

Mentre il principe le mostrava i corridoi blu e gli archi polverosi, Eliza guardava con estremo stupore le grate ornate da un motivo di foglie che partivano da un alto vaso.

«Il jali», le spiegò. «Queste erano le stanze femminili. Le grate permettevano alle donne di guardare senza essere viste».

Il primo pensiero di Eliza fu che, piuttosto che essere messa dietro a una grata, Indira sembrava desiderosa di farle da anfitrione, e di tanto in tanto posava una mano possessiva sul braccio di Jay. Non c’era nulla di pudico in Indira, decise Eliza.

Forse la ragazza voleva avanzare dei diritti sul principe? Di certo non si vergognava a toccarlo di tanto in tanto, ed Eliza si chiese se i due fossero amanti, o se Indira fosse una sorta di concubina. Oppure si comportavano proprio come fossero parenti? Poi ricordò quello che le aveva raccontato Laxmi, che la ragazza era una miniaturista, un’artista di grande talento.

«Usiamo raramente questo palazzo», continuò il principe. «Quindi incontrerò un possibile acquirente mentre siamo qui, per conto di mio fratello. A lui non piace viaggiare».

«Sembra che voi abbiate palazzi ovunque».

«La mia famiglia, certamente. Ma io ne ho solamente uno. Ti piacerà il loggiato, qui, o forse sto esagerando e dovrei semplicemente chiamarlo portico. I pavimenti sono di marmo bianco, ma purtroppo ormai sono un po’ fatiscenti». Sospirò. «Tutto il palazzo avrebbe bisogno di urgenti restauri».

«A me sembra bello».

«Ho bisogno di luce e di spazio per respirare, ma la nostra reggia, con tutti i suoi corridoi e le scale buie, non me lo consente. Su questo sono pienamente d’accordo con voi inglesi».

Sul tetto adibito a terrazza, qualcuno aveva disposto grandi cuscini circondati da fiaccole e, su un lato, delle tende leggere. I tre si accomodarono e due fanciulle servirono loro un tripudio di frutta, dahl, riso, e carne. Sotto le stelle scintillanti, il profumo della notte si fondeva con quello del cibo e dei loro corpi accaldati. Colta da un inquietante senso di incantamento, come estranea al mondo reale, Eliza levò gli occhi al cielo. La notte brillava forse più del giorno, una leggera brezza sollevava dolcemente la cortina di tende sottili. Avrebbe voluto restare così per sempre, ma ricordò a se stessa che non era lì per farsi catturare dall’incantesimo e dalla magia dell’India, ma piuttosto per catturarli lei, con la sua macchina fotografica. Inoltre, il romanticismo del deserto avrebbe potuto essere offuscato da un momento all’altro, senza preavviso, da una tempesta di sabbia, che l’avrebbe trasformato all’istante in un deserto di morte. Sebbene la vita pulsasse con forza, dato che la morte era costantemente alle porte, c’era poco da meravigliarsi se gli indù credevano che la vita fosse semplicemente una delle tappe nel viaggio verso l’unione con l’intero universo. In quel momento Indira iniziò a cantare una triste melodia e toccò Eliza tanto profondamente che non poté fare a meno di invidiare la ragazza per quel suo ennesimo talento.

4

«Mi dispiace che non siamo riuscite a salutarci alla partita di polo, sono davvero lieta di conoscerti», le stava dicendo la donna alta, dai capelli scuri, mentre le tendeva la mano, con gli occhi azzurri che brillavano di gioia. «A ogni modo, io sono Dottie. Dottie Hopkins».

Eliza era appena arrivata al cocktail party, il quale in effetti consisteva di un piccolo raduno di inglesi, che si teneva nella villa di Clifford in uno dei quartieri eleganti della città.

L’interno, come previsto, era signorile e inondato di sole. Le grandi portefinestre erano aperte, il profumo di erba tagliata si diffondeva nell’aria misto al fumo dei sigari. Faceva caldo come in una casa di campagna inglese in un giorno d’estate.

«Tuo marito ha fatto un buon lavoro con quella povera donna», le disse Eliza.

«Sì, in realtà è stato tutto molto brutto. Quella donna è stata davvero fortunata, poteva andarle peggio. Sei rimasta fino alla fine?»

«Sì, ma solo perché Clifford è potuto andare via soltanto alla fine, e di conseguenza anch’io».

«Immagino che abbia dovuto svolgere un’indagine sull’accaduto. Mio marito mi ha detto che c’è stata, anche se adesso è tutto passato. Dicono che abbia avuto a che fare con questi parassiti del governo inglese. In ogni caso, Clifford non permetterà che questo polverone danneggi qualcuno di noi».

Eliza ricordava bene ciò che pensava di aver visto. Probabilmente non era niente, ma doveva sicuramente stare bene attenta alla reggia.

«Ora, spero che diventeremo grandi amiche. Siamo praticamente vicine di casa». Dottie le sorrise. «Così sai dove venire a bussare, sai, se…».

«Infatti», disse Eliza, e ricambiò il caloroso sorriso di Dottie.

La donna doveva avere quasi quarant’anni, occhi gentili e una stretta di mano ben salda.

«Clifford ci ha parlato molto di te».

«Davvero?», chiese Eliza sorpresa.

«Ti ammiro, io sarei terrorizzata ad andare in giro da sola come fai tu. Non sapevo nemmeno che le donne potessero diventare fotografe. Come ti sei appassionata di fotografia?».

Eliza sorrise. «Oliver, il mio defunto marito, e io eravamo in luna di miele a Parigi e abbiamo visitato un paio di mostre».

«Condoglianze».

«Grazie… Una delle mostre era un’esposizione di fotografie. Qualcosa è scattato nella mia testa quando ho sentito una fotografa parlare del suo lavoro; non appena Oliver si è reso conto che mi ero innamorata di quell’arte, mi ha comprato una macchina fotografica come regalo di nozze. Devo tutto a lui, davvero, e ho ancora molto da imparare. In ogni caso, spero proprio di riuscire a fare del mio meglio qui».

Dottie le sorrise. «Sono certa che sarà così».

Eliza non disse nulla, ma fece un piccolo cenno di apprezzamento al commento di Dottie.

«Be’, sei coraggiosa, non mi è difficile dirlo. Allora, com’è? Sono terribilmente curiosa di saperlo!».

«Intendi la reggia?»

«Non viviamo qui da molto, ma ci sono stata, ovviamente in visita, durante i durbar, le assemblee, o occasioni simili. Dev’essere assolutamente affascinante vivere lì».

«Non ho visto ancora abbastanza per poterti dire qualcosa. Le persone comunque sono tutte gentili, per ora».

«Be’, sai, Clifford farebbe di tutto per te. È tanto caro. Ha aiutato anche Julian e me quando siamo arrivati… ci ha trovato i servitori, quelle cose lì». Fece una pausa, seguita da una smorfia. «Hai già incontrato la maharani?»

«La moglie del principe?».

Dottie annuì. «Priya».

«Ancora no».

«Ho sentito delle voci sul suo conto. E se quelle voci sono vere, faresti meglio a tenerti alla larga da lei. E anche da un uomo che si chiama Chatur. Mi hanno riferito che controlla e gestisce tutte le questioni riguardanti la reggia».

«Oh?». Eliza si ricordò che Jayant le aveva già nominato quell’uomo.

«Clifford fa davvero un buon lavoro e, secondo il mio modesto parere, ha la pazienza di un santo, ma ha avuto infiniti problemi con questo Chatur. Si impunta, non obbedisce agli ordini. Sai, il classico tipo che detesta gli inglesi».

Si spostarono verso la finestra, dove era stato allestito un tavolo con tartine e brocche colme di punch alla frutta. Dottie ne versò due bicchieri e poi prese un piattino per le tartine. «Vanno bene ai gamberi?».

Eliza allungò leggermente la testa per guardare meglio.

«Sono buoni, ma in scatola, ovviamente. Siamo troppo lontani dal mare perché non sia così. Di tanto in tanto potrebbero proporti il montone, ma in realtà si tratta di carne di capra. Se vuoi un consiglio, limitati ai piatti vegetariani, al castello. Mio marito ha avuto a che fare con un sacco di stomaci britannici sottosopra nel corso degli anni, quindi ormai me ne intendo».

«Grazie, ma se non ti spiace credo che mi risparmierò i gamberi», disse Eliza, e si voltò a osservare la stanza, dove vide un uomo robusto e baffuto che le stava raggiungendo con un sorriso. Dottie batté le mani. «Oh, guarda, c’è Julian. Lo incontrerai tra un minuto. Lui e Clifford sono grandi amici e, se ho capito bene, Clifford pensa grandi cose di te; io, invece, preferisco credere che te ne vedremo fare di più grandi da queste parti».

Eliza aggrottò la fronte. «Veramente? Clifford mi conosce da quando sono bambina, ma in realtà non lo vedevo da anni. Perlomeno, non negli ultimi tempi».

Dottie sorrise. «Be’, in ogni caso adesso che sai dove trovarci, passa pure quando vuoi».

«Grazie, sei molto gentile». Eliza lo pensava veramente, e chissà, di tanto in tanto, forse avrebbe avuto bisogno di fuggire in un mondo familiare e che, più o meno, comprendeva.

«Spesso gli uomini si mettono a giocare a poker», disse Dottie, poi sorrise ancora, come per scusarsi. «Be’, io mi annoio terribilmente, perciò tu saresti più che benvenuta. Ci sono così poche gentildonne britanniche da queste parti».

«Io pensavo che mi sarei immersa completamente nella vita locale».

«Ti farà bene staccare, di tanto in tanto, ne sono certa. Ora andiamo a incontrare Julian, sono sicura che farete faville insieme».

Il giorno seguente, Eliza sviluppò le sue prime fotografie e rimase entusiasta del risultato, in particolare di uno dei primi scatti all’uomo dallo sguardo tormentato e al bambino con i capelli ispidi e neri. Sembrava che ci fosse qualcosa di eterno e ancestrale in quell’uomo, dignitoso e, al contempo, triste.

Eliza amava il modo in cui una fotografia poteva raccontare un’intera storia e pur tuttavia immortalare un singolo momento. Sperava davvero di poter scattare altre fotografie ispirate dal suo cuore, e non solo dalla testa, e se fosse stata in grado di uscire e di cogliere qualcosa delle misteriose qualità della gente comune, ne sarebbe stata felice.

Aveva ricevuto un biglietto scritto a mano da Chatur, che ancora non aveva incontrato, in cui si diceva che la sua prima fotografia doveva necessariamente essere quella della famiglia reale, altrimenti si sarebbe comportata in modo irrispettoso.

Aveva già pensato di farlo in ogni caso, quindi la cosa non le importava. Avrebbe ritratto tutti i nobili prima di tentare qualche scatto nei recessi più remoti della reggia. E mentre Clifford era probabilmente interessato alle sue fotografie solo per gli archivi, lei era determinata a usare anche la sua creatività.

Un servitore vestito di bianco con un turbante rosso, la condusse in un ampio cortile circondato su tre lati dai balconi riparati della zenana. Sebbene le donne della zenana non fossero più obbligate a coprirsi con il velo, molte di loro continuavano comunque a restare dietro le grate, perciò si sentì un po’ a disagio quando comprese che qualunque cosa stesse facendo, sarebbe stata osservata.

Un uomo alto e baffuto, con sopracciglia folte e disordinate, e profonde occhiaie sotto gli occhi, stava procedendo nella sua direzione. Avrebbe potuto giurare che fosse lo stesso uomo alto che aveva visto ridere alla partita di polo, dopo l’incidente del principe. Si era chiesta se comunicarlo a Clifford, ma, preoccupata di essere giunta a conclusioni sbagliate, aveva preferito non essere tanto ingenua.

«Sono Chatur, il dewan, o alto funzionario di corte», si presentò altezzosamente lui. Non attese la sua risposta, non le tese la mano, ma proseguì imperiosamente. «Ho sempre l’ultima parola su tutto ciò che deve e non deve accadere qui nel castello. Mi occupo io di tutto. Capisce? Qualsiasi cosa lei voglia fare, deve prima chiedere il mio permesso».

Benché fosse un cittadino comune, non un nobile, quell’uomo aveva l’alterigia di un re e, Eliza ne era certa, chiaramente aveva un’alta stima di se stesso. Eliza sostenne il suo sguardo, anche se non era cosa facile, e si sforzò di non farsi intimidire da quel che leggeva di losco nei suoi occhi. Che fosse famigerato lo aveva saputo già da Dottie, e il suo atteggiamento non faceva altro che dimostrarlo. Sembrava che la stesse esaminando, anche se lei non sapeva se avesse o meno una particolare ragione per farlo.

«Se seguirà le mie indicazioni, troverà che io posso esserle molto utile, signorina Fraser. Se non lo farà, be’…». E allargò le mani scrollando le spalle.

«Capisco», disse lei, pensando che fosse meglio essere accondiscendente, almeno per il momento.

«Ci vedremo spesso, noi due», continuò Chatur, offrendole un mezzo sorriso. «Mi aspetto che lei faccia la sua parte per assicurare che il nostro sia un rapporto armonioso. Non apprezziamo gli stranieri che ficcano il naso nelle questioni della reggia».

«Posso assicurarle che non ficcherò il naso da nessuna parte, per dirla con parole sue. Sono qui solamente per scattare delle fotografie».

«Se lo dice lei, signorina Fraser, allora sarà così. Ma io la terrò d’occhio».

E detto ciò, girò i tacchi e se ne andò.

Il breve scambio di battute non aveva di certo aiutato Eliza a tranquillizzarsi, ma decise comunque di non rimuginare troppo sull’accaduto.

Aveva preso in considerazione una serie di ambientazioni ideali per la luce giusta, ma le era stato detto che avrebbe potuto scattare le foto ai reali solo in quel luogo e in quel momento; tra l’altro, avrebbe avuto solo mezz’ora di tempo. Avrebbe dovuto considerare lo sfondo, scegliendo qualcosa di semplice per permettere all’occhio di concentrarsi sui soggetti della composizione, e cioè le persone. Scoprì che la maggior parte delle sue soluzioni era stata già vietata da Chatur come “altamente inadatta”. Il risultato fu che le foto avrebbero avuto come sfondo una parete con elaborate decorazioni, cosa che le avrebbe richiesto maestria.

Non appena ebbe trovato la posizione ottimale per la macchina fotografica, iniziò a preparare la sua attrezzatura. Avrebbe utilizzato la fotocamera a campo largo, una Sanderson Regular. Anche se non era larga rispetto ad altre fotocamere a lastre, l’aveva portata con sé perché era un ottimo compromesso: pesava poco, ma le permetteva di ottenere la qualità d’immagine che voleva. Poi aveva sempre con sé la sua fedele Rolleiflex, per tutte le occasioni. Fortunatamente la Sanderson poteva essere alzata e abbassata mentre lei regolava la lastra, così aveva modo di controllare la prospettiva e il piano focale, per far sì che i suoi soggetti fossero a fuoco e risaltassero sullo sfondo.

Le ci volle un po’ per sistemare tutto, anche a causa del pesante cavalletto di mogano e ottone, e dell’utilizzo della polvere per il flash che avrebbe bruciato per avere un’illuminazione perfetta. Montò quindi il suo flash Agfa su un secondo treppiede e attaccò il cavo del controllo remoto, che altro non era se non un lungo tubo di gomma che terminava con un bulbo, a sua volta di gomma, da schiacciare. La minima pressione avrebbe attivato il meccanismo con la pietra focaia che avrebbe fatto bruciare, e quindi brillare, la polvere del flash. Eliza studiò il posto per capire meglio quanta polvere usare. Avrebbe potuto scattare tre, quattro fotografie, sei al massimo, perciò, per risparmiare tempo, decise di miscelare subito tutta la polvere del flash, anziché farlo scatto per scatto. Questa procedura aveva i suoi rischi, perché la polvere avrebbe potuto bruciare all’improvviso. La combinazione di polvere di magnesio e perclorato di potassio le aveva già bruciacchiato i capelli più volte, ma se avesse lasciato i suoi soggetti all’ombra degli alberi, la foto sarebbe venuta troppo scura.

Una volta portata a termine l’operazione, come se avesse dato un segnale – a confermare il fatto che era sempre sotto osservazione – quattro servitori entrarono nel giardino portando quello che le sembrò un trono. Aveva già sentito parlare di questi sontuosi sedili con grandi cuscini. Era un appariscente gaddi rosso acceso e oro, che di certo non incontrava il gusto di Eliza, la quale non poté fare a meno di pensare che, se l’oggetto rifletteva la personalità del maharajah, Jayant e suo fratello Anish dovevano essere diversi tra loro come la notte e il giorno. Indicò ai servi un posto preciso sotto l’albero e quelli vi posarono il trono; poi aggiunsero una serie di sedie accanto. Un altro servitore stava già spargendo petali di rosa tutt’attorno.

Quindi Eliza udì il suono melodioso di un flauto, seguito dai battiti pesanti di un tamburo, e si ricordò che le era stato spiegato che nella mitologia indiana le percussioni rappresentavano la creazione della vita.

Poi udì un frusciare di seta e vide la famiglia reale fare il suo ingresso nel giardino da un accesso sotterraneo, seminascosto da un arco. Eliza rimase colpita dalla grandiosità del loro incedere solenne, e divenne ancora più nervosa. Il maharajah si accomodò e solo allora sembrò accorgersi della presenza di Eliza.

Anish, il maharajah, era un uomo enorme, che continuava a tuffare le sue dita grassocce nella scatola di dolcetti turchi che sua moglie Priya, una donna dall’espressione inacidita, teneva aperta per lui in grembo; nuvole di zucchero a velo si sprigionavano dai dolcetti, man mano che lui se li portava alla bocca, uno dopo l’altro. Anish aveva gli occhi iniettati di sangue ed Eliza si chiese se non fosse per caso alcolizzato, oltre che obeso. Sua madre le aveva sempre detto che pensava che gli eccessi dei nobili indiani fossero dovuti alla pessima abitudine della poligamia, che lei disprezzava con foga.

Sia Priya che suo marito indossavano molti anelli e gioielli sopra i vestiti, e per un istante Eliza fu quasi felice di non poter riprodurre l’immagine a colori. Se aveva pensato che il gaddi fosse pomposo, quei due erano centomila volte peggio. Priya doveva avere quasi quarant’anni, e non era una bellezza nel senso tradizionale del termine; nonostante l’espressione di disgusto stampata sul viso e la totale mancanza di un sorriso, era ipnotica, con occhi profondi e un naso sottile e leggermente adunco. Era vestita con una blusa e una gonna rossa ricamata d’oro, una ghagra, con uno scialle di seta abbinato che le copriva i capelli, un filo di rubini scintillanti al collo e, sulle braccia, un’infinità di poonchees, braccialetti d’oro e d’argento.

Eliza guardò alla sua sinistra quando Jayant fece il suo ingresso nel cortile assieme a un uomo più basso, dalle spalle robuste, con capelli neri come l’inchiostro e sopracciglia scure. Indossava una blusa lunga fino alle ginocchia, di satin nero con delicati ricami dorati e il colletto alto e rigido, insieme a un paio di pantaloni neri. Jay era elegante, ma si atteneva al suo stile più sobrio. Era la prima volta che lo vedeva indossare il turbante, ma ciò che la colpì più profondamente fu quanto quell’uomo amante della natura potesse essere elegante con quegli abiti raffinati e formali. Quando le sorrise, si rese conto che non riusciva a staccargli gli occhi di dosso e, imbarazzata, corse subito a giocherellare con la sua fotocamera. Quindi sentì dei passi alle sue spalle e si voltò in tempo per vedere Indira entrare da un altro passaggio ad arco e avvicinarsi a lei.

«Ho ricevuto ordine di prestarti assistenza se ne hai bisogno», le disse. «Theek hai

«Sì, ti ringrazio, va bene», rispose Eliza.

Ma questa era un’Indira diversa: l’effervescenza era scomparsa, teneva gli occhi bassi, sembrava molto più pudica e cauta. Le bastò un’occhiata alla maharani per comprendere la ragione del cambiamento. Priya non aveva gradito l’arrivo della ragazza, le aveva rivolto un’occhiata pietosa, e poi le aveva voltato le spalle sdegnosa. Mentre Eliza si stava chiedendo chi fosse l’altro uomo, la madre di Jay, Laxmi, e le tre figlie del maharajah si aggregarono infine al gruppo. Il fratello minore di Jay frequentava una scuola in Inghilterra e non si sarebbe unito alla compagnia.

Eliza dispose i soggetti raggruppandoli e facendoli avvicinare più di quanto volessero, mentre l’amico del principe si allontanò dal gruppo. Priya sospirò ripetutamente e, dopo pochi minuti, si lamentò. Dando le spalle a Eliza, si rivolse a Laxmi.

«Quanto ancora ne avrà la donna inglese? Io devo andare a pregare».

«Si chiama signorina Fraser», la riprese Laxmi con gentilezza. «L’accordo è che lei sia libera di fare ciò che vuole».

«L’accordo l’hai preso tu!».

«Non discutiamo in questa splendida giornata», si intromise il maharajah. «Il cielo è azzurro, l’aria è fresca, gli uccellini cantano. Potrà anche fare ciò che vuole, ma naturalmente…», e sorrise a Priya, «con ragionevolezza, mia cara».

Priya lanciò a suo marito un’occhiata offesa e piegò le labbra in una smorfia. «E ovviamente tu fai sempre quello che dice tua madre».

Anish si accigliò. «Sono sicuro che la signorina Fraser non ci metterà molto».

Eliza stava per perdere la calma. Non era semplice. «Non ci impiegherò molto, no. Ma se non riprende subito il suo posto, principessa, mi occorrerà molto più tempo».

Si era accorta che nei minuti precedenti il principe Jayant aveva deliberatamente ignorato la discussione e si era messo a fischiettare sottovoce. Se ne stava lì in piedi indifferente, incorniciato dal sole, come se non avesse una preoccupazione al mondo. Ma le divisioni interne alla famiglia e le contraddizioni stavano divenendo chiare. Eliza non poteva permettersi di avere dei nemici, non adesso che aveva appena comprato tutta l’attrezzatura. I suoi progressi erano continui ma lenti, dato che a ogni foto doveva cambiare la lastra. Armeggiò più del necessario e, con immenso sollievo, portò a termine il lavoro senza alcun intoppo. Fu una piccola benedizione, perché altrimenti avrebbe dovuto ritirarsi nella completa oscurità per cercare di sistemare le cose, e questo avrebbe ritardato gli scatti successivi. Preferiva usare la Rolleiflex all’aperto, e l’avrebbe fatto se le foto fossero state più informali, ma quella era un’occasione formale, ciò a cui la famiglia reale era abituata; lei, di certo, non voleva turbarla in quella fase iniziale, rubando le immagini spontanee che desiderava veramente immortalare e che le era stato espressamente chiesto di produrre. Clifford le aveva detto fin dall’inizio che doveva cercare di cogliere un quadro il più realistico possibile della vita nel Rajputana, e non dettato dalla propensione della famiglia reale per la formalità e gli scatti impostati e senza sorrisi. Mentre la famiglia si allontanava, Jay prese da parte Anish, ed Eliza riuscì a capire che erano in disaccordo su qualcosa.

Sentì più volte nominare “Chatur” e, con la coda dell’occhio, vide che Jay stava fumando di rabbia. A un certo punto, mise una mano sul braccio di suo fratello e lo afferrò saldamente. Anish strinse l’altra mano di Jay e poi disse a voce alta: «Non interferire. Come Chatur scelga di gestire le questioni della reggia è affar mio e non tuo».

«Ma tu gli stai dando troppo potere».

A quel punto, Eliza mosse il cavalletto, loro la notarono e abbassarono la voce, ma era chiaro che Jay disapprovava Chatur.

Poi Anish se ne andò e Jay rimase immobile per qualche istante prima di andarle incontro e riprendere un tono di voce normale. «Non male. Mi sembrano buone», le disse.

«Non hai ancora visto le foto», replicò lei, un po’ irritata per il tono supponente della sua voce.

«Professionali».

«Ti aspettavi qualcosa di diverso?»

«Be’, avendo inviato una donna fotografa…». Si fermò e la osservò con uno sguardo indagatore, ma poi divenne più dolce.

«Quello che voglio dire è che è una cosa insolita, non ti pare? E noi non siamo molto abituati a vedere una donna di classe che lavora».

«Una donna di classe?», disse lei sbattendo le palpebre.

Lui annuì.

«Sono una rarità anche a casa mia, ma intendo farmi un nome», gli rispose lei, tenendo per sé quanto amasse il suo lavoro. «E non mi farò scoraggiare».

«Il tuo desiderio di riconoscimento potrebbe diventare la tua rovina».

«Insieme all’uso smodato dell’acqua per sviluppare le foto, immagino».

Lui le fece un mezzo sorriso.

«Pensi che non dovrei nemmeno provarci?»

«Ci deve essere un equilibrio. Una sorta di filtro tra ciò che conta e ciò che non conta».

«E tu lo sai usare quel filtro?».

Lui distolse lo sguardo. «Non direi. A proposito, lui è un mio vecchio amico, Devdan. Dev, per gli amici. Ci siamo conosciuti a una fiera di cammelli quando eravamo ragazzi. Mi piace girare in incognito quando posso. Mi sento molto più libero».

«Per non parlare del fatto che, se i mercanti non lo riconoscono, spunta un prezzo migliore. Non avevo idea di chi fosse quando l’ho incontrato la prima volta», intervenne l’uomo basso con un largo sorriso. «In ogni caso, il dono degli dèi sarei io, o almeno così dice il mio nome».

«Dovresti chiamarti Testa calda», rise Jay e gli diede una pacca sulla schiena.

«Sono qui per fare un po’ di falconeria, per cacciare le antilopi e per le corse di cammelli con il mio amico di Rajput, non è vero, Jay?».

Jay sorrise, ma Eliza notò che i suoi occhi color ambra si erano adombrati, nascondeva qualche pensiero, come se dietro la sicurezza ci fosse qualcosa di meno certo. Eliza attese che lui parlasse ancora e guardò le scimmie arrampicate sugli alberi d’arancio.

«Davvero! Quelli sì che erano bei tempi! Il suicidio piuttosto che la sconfitta!», disse lui e soltanto dopo una piccola pausa imbarazzante aggiunse: «Prima che diventassimo tanto timidi».

«Timidi! Tu non mi sembri affatto timido!», disse Eliza.

«Ah, ma un tempo eravamo feroci», precisò Dev, e a giudicare dallo sguardo nei suoi occhi, lei non fece fatica a crederlo. Infatti, anche se era più basso di Jay e a dispetto dei suoi modi irriverenti, c’era qualcosa di attraente in quell’uomo. Era abbastanza amichevole, ma di tanto in tanto si accorse che lui la fissava con uno sguardo diffidente che la faceva sentire a disagio. Magari si trattava solamente di curiosità, eppure, qualunque cosa fosse, lei non riusciva a guardarlo negli occhi, che Eliza trovava profondi e imperscrutabili. Non avrebbe mai pensato che fosse il tipo d’uomo che potesse essere amico di Jay.

«Tu parli di equilibrio», disse lei spostando lo sguardo da Dev a Jay. «Allora come la mettiamo con il lavoro? Visto che il tuo antico ruolo di guerriero è ormai superato, perché non ti trovi qualcosa di utile da fare?»

«Sentito, Jay? Pensa che le corse di cammelli non siano utili». Dev rise per la sua battuta ed Eliza, sollevata dal fatto che l’atmosfera si fosse un po’ alleggerita, sorrise a sua volta.

«Punto di vista interessante», commentò Jay.

«Allora, come mai ti sei interessata alla fotografia?», le chiese Dev.

«Mio marito mi ha comprato la mia prima macchina fotografica mentre eravamo in luna di miele». Aveva parlato senza pensare e guardò Jayant.

«Deve mancarti molto», fu tutto ciò che disse lui.

Il senso di colpa che provava per Oliver era annidato da qualche parte nel profondo del suo cuore. Sentì che le saliva lentamente un nodo alla gola ed ebbe la sensazione di essere vicina a versare delle sciocche lacrime. Ma ora, come sempre, soffocò le sue emozioni e fece un cenno col capo.

«E cosa, in particolare, ti ha incuriosito della fotografia?»

«È così emozionante». Sorrise. «Ho visto le fotografie di Man Ray. Il suo lavoro è altamente sperimentale, ha lavorato anche con artisti surrealisti come Marcel Duchamp. E poi, quando ho provato a fare foto di persona, ho capito che potevo vedere le cose diversamente attraverso il mio obiettivo. Ho imparato a concentrarmi sull’imprevisto, è stato come guardare il mondo diverso con occhi nuovi. Ovviamente mio marito non avrebbe mai pensato che potesse diventare il mio lavoro».

Ci fu una piccola pausa.

«Ma è stato solo dopo la sua morte che sono riuscita a ottenere i fondi per comprare tutte le attrezzature e pagarmi le lezioni».

«Mi dispiace, non avevo capito», disse Dev.

«E adesso…». Eliza abbassò lo sguardo. «Ormai è tutta la mia vita. Per me la fotografia non riguarda solamente ciò che vedo, ma anche ciò che sento».

Tuttavia, nella sua risposta aveva omesso la forza della passione che realmente sentiva. Non gli aveva detto che riusciva a esprimere se stessa solamente attraverso la lente della fotocamera e neppure che la fotografia era divenuta il suo unico conforto. Non gli aveva detto che era profondamente convinta che solo una carriera di successo l’avrebbe redenta dalla sua colpa. Voleva che suo padre fosse orgoglioso di lei e credeva che, se avesse lavorato duramente, si sarebbe sollevata dal suo profondo dolore. La verità, però, era che avrebbe preferito morire piuttosto che finire come sua madre, anche se questo significava accettare una vita di solitudine come prezzo da pagare per la sua carriera. Una cosa era certa: non sarebbe mai più scesa a compromessi con se stessa pur di sentirsi meno sola, né si sarebbe più vergognata di far sentire la propria voce.

«Sembri diverso», disse a Jay, mettendo da parte i suoi pensieri e indicando la sua lunga blusa.

«Ah, questo. Si chiama achkan. È di origine Moghul».

Eliza alzò gli occhi sulle grate merlettate jali scolpite nel marmo e si sentì ancora una volta osservata.

Eliza passò la gran parte del resto di quella giornata chiusa nella sua camera oscura. Col calore del Rajputana, le lastre fotografiche non sviluppate si sarebbero potute deteriorare, quindi aveva programmato di lavorare sempre molto velocemente. Ciò che non aveva programmato né previsto, invece, era quanto l’estremo calore del sole pomeridiano potesse intensificare l’atmosfera opprimente di una camera oscura chiusa e senza ventilazione, tanto più che doveva indossare i guanti di nitrile e la mascherina sul viso. Il liquido del bagno di sviluppo era una miscela di sostanze chimiche, delle quali le più tossiche erano i cristalli diafani di pirocatechina; era per tale ragione che aveva tanto insistito per essere l’unica ad avere la chiave di quella stanza. Una piccola quantità di pirocatechina ingerita o a contatto con la pelle avrebbe provocato effetti devastanti. Ma lei amava lavorare così, da sola, e, nonostante l’odore acre degli acidi le facesse venire l’emicrania, alla fine riuscì a portare a termine il lavoro, ottenendo una serie di stampe a contatto. Le avrebbe mostrate a Clifford, e sperava che lui le avrebbe dato il benestare per la spedizione a Delhi delle lastre per la stampa finale, corredate dalle istruzioni dettagliate di Eliza e dalla segnalazione delle dimensioni effettive di stampa.

5

Sorpresa di sentire bussare alla sua porta, Eliza disse a chiunque fosse di aspettare, che non ne avrebbe avuto ancora per molto. Pensò che si trattasse di un servo con una qualche bevanda rinfrescante, ma quando aprì la porta vide Indira appoggiata alla parete di fronte a lei.

«Vuoi vedere i miei lavori?», chiese la ragazza; gli occhi le saettavano in giro e sembrava che le fosse tornato il buonumore. «Siamo entrambe artiste, se si può ritenere la fotografia un’arte».

Eliza annuì educatamente. «Di sicuro, se le fotografie attirano l’attenzione delle persone e questo è tutto ciò che conta».

Era molto ansiosa di vedere le opere d’arte di Indira, benché, se gliel’avessero chiesto, avrebbe ammesso di essere più incuriosita da Indira stessa, che non dalla sua arte. C’era qualcosa in lei, qualcosa che non tornava. Chi era? Da dove veniva questa giovane donna che sembrava godersi la libertà nella reggia senza avere molti vincoli?

In effetti, dentro di lei, Eliza continuava a chiedersi quale fosse la natura della relazione di questa ragazza flessuosa con il principe Jayant.

La sciarpa diafana di Indira ondeggiò con liquida bellezza nel labirinto di corridoi e stanze anguste, dove Eliza trovava difficile persino respirare liberamente. La sensazione era resa più opprimente da passaggi stretti e bui, oscuri recessi e innumerevoli, disagevoli scale. Le grate jali erano ovunque e, dopo essersi persa un paio di volte, era facile per lei capire come mai gli inglesi avessero sempre descritto quei palazzi come luoghi di intrighi e pettegolezzi.

Eppure che magnificenza avevano i pilastri d’oro che vide quando giunsero infine a un opulento durbar, cioè una sorta di sala per i ricevimenti! Quando Eliza notò le porte in ottone alte più di sette metri e, sopra di esse, un soffitto scintillante di specchi e gioielli incastonati, rimase a bocca aperta. Rubini. Zaffiri. Smeraldi. Era folle. Con tono fiero Indira mostrava ogni membro della famiglia appeso al muro. Li aveva ritratti nell’antico stile Moghul e, quando Eliza li guardò da vicino, rimase meravigliata del grande talento della fanciulla.

«Li hai dipinti tutti tu?».

Indira annuì e, con un moto d’orgoglio, rispose: «Sì».

«Tu non vedi la necessità di avere un fotografo, vero?».

La ragazza si morse il labbro prima di rispondere a Eliza.

«La pittura è mera pyaar», disse alla fine.

«Il tuo amore. Capisco».

«Mi sembra di entrare in un mondo intimo e segreto quando dipingo».

«Come mi sento io quando scatto le mie fotografie. Sono la mia visione delle cose», disse Eliza e sostenne lo sguardo di Indira, pesando ogni parola che pronunciava. «Non resterò qui per sempre. Ti prometto che non sarò una minaccia per te».

«Sei davvero qui solo per questo? Per scattare fotografie?»

«Ovviamente. E per cos’altro?».

La ragazza ridusse gli occhi a fessure, qualcosa le passò per la testa, ma non parlò.

«E sono sicura che non tutti approvino. Alla maharani penso proprio di non piacere affatto».

Indira ridacchiò. «A Priya non piace nessuno. Biasima Jay per il suo modo di fare, per la sua educazione inglese. E tu sei inglese».

«Per il suo modo di fare? Che cosa vuoi dire?»

«Da un lato evita di manifestare le proprie emozioni, il che è molto Rajput, ma in tal modo sarà sempre invulnerabile. Dall’altro lato, però, è indipendente, ribelle e spesso non ascolta la sua famiglia! È un uomo che rifiuta ogni opportunità di matrimonio con belle e giovani principesse e che ha amici che sostengono la disobbedienza civile, specie da quando è stata imposta la tassa sul sale e c’è stata la marcia di protesta di Gandhi. Come ho detto, Priya non ama gli inglesi, ma i disordini aumentano e la sua paura di una rivoluzione violenta è forse più grande della sua rabbia contro i britannici».

«Sarà spaventata, immagino», disse Eliza, pensando che dietro le spigolosità di Priya potesse esserci una qualche fragilità.

«Non lo ammetterà mai, ma sì, probabilmente è così».

«Le persone che hanno molto da perdere hanno spesso paura. Forse teme ciò che potrebbe accadere se l’India si autogovernasse?»

«Può darsi. Ma penso che Anish abbia già pianificato di nascondere le sue ricchezze da qualche parte nelle gallerie sotto la fortezza».

«Ricchezze incredibili».

Indira annuì.

«E che mi dici di Dev? È uno degli amici di Jay che appoggia la disobbedienza civile?»

«Probabilmente sì. Non gli hanno permesso di avere una macchina da scrivere tutta sua. Questo dovrebbe dirti qualcosa. Crede che la gente comune debba essere istruita, in modo da poter parlare a una sola voce». Indira si strinse nelle spalle. «O qualcosa del genere. Non si sa mai bene, con Dev».

Eliza fece un lungo respiro e decise di cambiare argomento. «Come hai imparato a dipingere?»

«Me l’ha insegnato un Thakur del mio villaggio».

«Un nobile?»

«Sì».

«Tu non sei nobile di nascita?».

Indi scosse la testa e si guardò i piedi. «No».

Eliza sperò che la fanciulla le rivelasse qualcosa di più, ma si era chiusa in sé stessa; decise quindi di non indagare sul suo passato e le chiese cosa le piacesse di più del fatto di vivere in una reggia.

Indi alzò lo sguardo, sollevata dalla nuova piega che la conversazione aveva preso. «Io amo tutto qui dentro, ovviamente. Ma sono curiosa di te. Non hai mai voluto sposarti?».

Eliza sorrise dentro di sé. Davvero le sembrava così vecchia? Guardò di nuovo le splendide miniature di Indi e pensò a quanto la fotografia l’avesse fatta tornare alla vita. Quando erano stati a Parigi, aveva incontrato una donna che stava per diventare fotografa a pieno titolo. Era stato allora che Eliza si era resa conto che quella era una cosa davvero possibile.

E dopo che uno dei suoi primi scatti amatoriali, che raffigurava un bambino solo e coperto di stracci, era finito su una rivista illustrata, era stata certa che anche lei un giorno sarebbe diventata una fotografa competente. Esitò, ma poi decise di parlare. Avrebbe potuto aver bisogno dell’amicizia di questa ragazza, un giorno. «Ero sposata, un tempo. Mio marito è morto in un incidente stradale».

Il volto di Indira era sconvolto, la sua bocca aperta.

«Tu sei vedova?».

Turbata dalla sua reazione, Eliza sentì un dolore alla bocca dello stomaco. Non aveva compreso in pieno la gravità di parlarne con qualcuno. Jay le aveva detto che avrebbe dovuto tenere la cosa per sé, eppure aveva già detto qualcosa su suo marito davanti all’amico di Jay, Dev, e adesso anche a Indi. Ma cosa aveva per la testa?

6

Una notte, poco dopo il suo incontro con Indi, Eliza si affacciò da una delle finestre del corridoio che non era schermata dal jali e vide un cortile pieno di utensili sparsi; la luna pallida illuminava d’argento ciotole, pentole e vari tipi di contenitori per cucinare lasciati a terra fuori dalle cucine. Questa visione notturna amplificò la sensazione di non riuscire a comprendere questo suo nuovo mondo, o cosa significasse essere un Rajput.

E la mattina, quando sentì che Clifford era arrivato alla reggia, non poté fare a meno di pensare che lui potesse sconvolgere ancora di più il suo fragile equilibrio. Dopo che fu condotta in una piccola stanza affacciata su un lungo corridoio che divideva la zona maschile da quella femminile, Clifford arrivò passeggiando, portando con sé una larga scatola piatta; sembrava molto a suo agio, doveva sentirsi a casa, perché posò i piedi sul divano letto di lussuoso velluto.

«Sono venuto per aiutarti a prepararti per il durbar di stato», le spiegò, col suo modo di parlare un po’ smozzicato, e si asciugò i rivoli di sudore che gli grondavano dal naso. Era chiaro che fosse un uomo incline a sudare, specialmente quando indossava l’abito di lino pesante: la sua fronte splendeva per quanto era lucida.

Tirò fuori un fazzoletto bianco e si asciugò il viso. «È uno spettacolo piuttosto appariscente, durerà un paio di giorni. Si tratta di una cosa sontuosa, vertiginosa, con lo sfarzo tipico dei cerimoniali e tanta affluenza».

«Devo andarci?»

«Sono del parere che potrebbe piacerti. Dottie ci sarà».

Eliza fece un bel respiro e, facendosi coraggio, decise di dire la sua. «Mi farebbe piacere vederla di nuovo, ma in realtà vorrei muovermi anche al di fuori della reggia».

«In città?».

Lei annuì.

Clifford scosse la testa, anche se non sembrava troppo dispiaciuto. «Mi dispiace, non puoi. Il palazzo per gli ospiti è chiuso».

Eliza fece un profondo sospiro. Non sarebbe stato facile. «Qui non c’è privacy. È come se fossi costantemente tenuta sotto sorveglianza».

«Perché lo sei. Con questi qui la strada è sempre in salita». Clifford fece una pausa e sollevò la scatola. Mentre lo faceva, il pantalone salì sulla sua gamba, arrotolandosi, ed Eliza notò che aveva la pelle bianco latte e i peli color zenzero. Era chiaramente un uomo incline a ustionarsi gravemente.

«Ma devi sempre ricordare una cosa, siamo noi i detentori del potere». Si interruppe un momento come per dare enfasi a queste sue parole. «In ogni caso, ho qui una cosa per te».

«Non capisco. Da parte di chi?».

Lui sorrise, sembrando molto soddisfatto di sé. «Diciamo che possiamo definirlo un piccolo regalo di benvenuto da parte mia».

Prese la scatola, la posò sul tavolo, sciolse lentamente i nastri e aprì il coperchio. Eliza non riuscì a impedirsi di rimanere a bocca aperta quando intravide un abito nei toni più vibranti del verde bluastro.

«Tua madre mi ha detto che era il tuo colore preferito».

Lei aggrottò la fronte. «Come fai a conoscere la mia taglia? Te l’ha riferita mia madre?»

«È un vestito di seta», continuò lui, ignorando la sua domanda, «ti piace?»

«È bellissimo».

«Se pensi che sia troppo attillato, o scollato, c’è uno scialle coordinato, ricamato a mano con fili d’oro, nientemeno. Puoi tenerlo sulle spalle».

«Non so davvero cosa dire».

Ci fu un momento di silenzio, poi lui si alzò in piedi e andò a guardare fuori dalla finestra. Se voleva darle tempo per pensarci su, gliene era grata; forse si era sbagliata su di lui, forse era più sensibile di quel che potesse sembrare. Ma Eliza non poteva accettare un abito del genere da qualcuno che a malapena conosceva. Cosa avrebbero pensato di lei se l’avesse fatto? Eppure non aveva mai avuto nulla di tanto lussuoso, e la tentazione era forte.

«Parlami di questo durbar», chiese lei per concedersi un altro po’ di tempo. «A cosa serve?»

«C’è stato un tempo in cui gli Stati principeschi tenevano due importanti durbar, uno politico, in cui il maharajah e i suoi ministri riunivano la corte per determinare gli affari di Stato; l’altro sociale, uno spettacolo per intrattenere e mostrare a tutti la ricchezza e la magnificenza della corte regale».

«E questo è del secondo tipo?»

«Già. Da quando noi gestiamo la maggior parte delle questioni amministrative in cooperazione con il principe Anish, c’è bisogno solo di un durbar sontuoso per ricordare al popolo lo splendore». Sorrise orgoglioso. «Siamo riusciti a separare le questioni amministrative dal cerimoniale di corte. Non possiamo permetterci che questa gente generi caos».

Eliza non capiva ancora come mai il principe avesse abbandonato gran parte dei suoi poteri firmando trattati con i britannici e avrebbe voluto chiederlo a Clifford, ma ne aveva già avuto abbastanza di lui, per quel giorno. Tutto ciò che sapeva era che l’India britannica dominava su tre quinti del Paese, e il resto constava di cinquecentosessantacinque Stati principeschi sotto la dominazione “indiretta” degli inglesi.

«Non posso accettare un simile dono da te», disse con voce piatta.

«Io credo che dovrai».

Anziché discutere con lui, preferì cambiare argomento. «Sai per caso come mai hanno messo fuori decine di pentole e arnesi da cucina, la scorsa notte?»

«Non me ne importa un fico secco delle loro strane e meravigliose usanze. Ma probabilmente per i raggi della luna, quelle scemenze lì». Clifford si avvicinò alla porta. «A proposito, cosa ne pensi di Laxmi?»

«Oh, è molto gentile».

«Sarebbe una buona idea tenere gli occhi aperti e riferirmi qualunque cosa ti renda sospettosa».

«Oh, cielo. Tipo cosa?».

Lui si strinse nelle spalle. «Niente in particolare. Era solo un consiglio».

«Clifford, stavo pensando di allestire una piccola mostra con gli scatti migliori. Credi che si potrebbe fare? Forse in ottobre, verso la fine del mio anno qui?»

«Non vedo perché no. Hai già pensato a dove allestirla?»

«Non ancora. Immaginavo tu potessi darmi qualche buon consiglio a questo proposito».

«Be’, vedremo. L’importante è che prima tu mi faccia vedere le fotografie che vorresti esporre. Non vorrei dare impressioni sbagliate dell’Impero. In ogni caso, ci vedremo questa sera. Non mettermi in imbarazzo».

«Non lo farò».

«Francamente, tenuto conto di come starai con quell’abito addosso, è un bene che la zenana e il mardana siano tenuti separati».

«Il mardana

«La zona maschile, mia cara. Ai miei occhi sei sufficientemente bella così, ma con quell’abito, be’, sarai uno spettacolo anche ai loro occhi. Dovrò tenerti sotto controllo».

Dato che Clifford le aveva dato un’idea di cosa doversi aspettare, Eliza si prese del tempo per prepararsi al durbar e, una volta indossato il suo dono di seta, l’ancella Kiri venne a spazzolarle i capelli. Cento colpi di spazzola, rifletté sospirando. Non uno di più. Non uno di meno. Riusciva quasi a sentire in testa la voce esigente di sua madre mentre Kiri le intrecciava cristalli scintillanti tra i capelli.

Si ricordò all’improvviso di una volta in cui aveva spazzolato lei i capelli di Anna. Eliza le aveva chiesto perché fosse tanto triste, ma in risposta aveva ricevuto solo un lungo silenzio e poi le lacrime calde di sua madre che le erano cadute sulla mano. Non aveva saputo cosa fare, come darle conforto, ma ci aveva provato. Anna le aveva asciugato la mano e non aveva detto nulla. Quel piccolo momento si era ingigantito nella mente di Eliza, che non aveva mai capito cosa avesse causato la profonda malinconia di sua madre, a parte il dolore per la morte del marito, ovviamente.

Quando infine Eliza si guardò allo specchio, rimase sorpresa nel vedere come l’abito di seta, con i colori dei pavoni, s’intonasse con i suoi occhi e li rendesse più luminosi quanto i cristalli tra i suoi capelli. Sciolta sulle spalle, la sua chioma brillava come rame brunito sulla sua carnagione lattea. L’ancella le aveva fermato morbidamente i capelli, poi aveva aggiunto una versione leggera del trucco usato dalle donne indigene, delineando i suoi occhi di grigio e aggiungendo un tocco di colore alle labbra e alle guance.

Proprio mentre Eliza si apprestava a lasciare la stanza, Laxmi entrò per impartire un ordine a Kiri, che si affrettò a obbedire; poi, dopo aver studiato Eliza, sorrise.

«Ma quanto sei bella. Perché nascondi la tua luce, mia cara?», le chiese, passando al tu.

«Io…».

«Ti ho messo in imbarazzo. Perdonami. Ora però devi coprirti le spalle».

«Oh! Quasi dimenticavo», mormorò Eliza e si precipitò al guardaroba, dove aveva appeso lo scialle. Lo prese e lo mostrò a Laxmi.

L’anziana donna fece scorrere le dita sulla seta. «Molto bello davvero. Dove l’hai preso?»

«Me l’ha dato Clifford Salter».

«Clifford è un brav’uomo, è onesto. Non è così che lo definirebbero gli inglesi?»

«Suppongo di sì».

«Forse non è il più bello tra gli uomini». Laxmi la guardò da cima a fondo. «Ma potresti trovare di peggio».

«Non sono a caccia di un marito».

«Ogni donna è a caccia di un marito».

Eliza le sorrise. «Lo pensi davvero?».

Laxmi sospirò ed Eliza colse la sua profonda malinconia. «Io sono stata fortunata. Ho avuto un matrimonio molto felice, con un uomo meraviglioso. Eravamo alla pari, cosa che non capita spesso nelle corti regali. Ma ora parliamo di te. Quali sono le tue speranze, le tue aspettative? Anche se ora non stai cercando marito, esistono molte forme d’amore. Senza l’amore il tuo cuore rimarrà vuoto».

«Io amo il mio lavoro».

La donna sorrise. «Certo. Adesso vieni, lascia che ti mostri qual è il posto migliore da cui guardare la processione. Noi donne moderne dobbiamo stare insieme, in particolare in questi giorni».

«Grazie».

«Avrai bisogno di molti amici, e non dimenticare ciò che ti ho detto su Clifford Salter. Una donna bianca sposata in India ha più libertà di una donna nubile».

«Me ne ricorderò… Speravo che potessi illuminarmi sulle campane che ascolto tutti i giorni. So che sono quelle di un tempio».

«Ci convocano alle preghiere, o pujas, come le chiamiamo noi. Qui nel Rajputana tutto ciò che facciamo diventa, in un modo o nell’altro, un rituale e gli dèi che preghiamo simboleggiano varie forze nella nostra vita. Non distinguiamo il sacro dal profano, per noi sono un tutt’uno».

«Lo vedo. È molto diverso».

«Sì, immagino di sì. Dunque, goditi la serata». La donna si voltò per andarsene.

«Veramente, Laxmi», chiese Eliza, «mi piacerebbe andare nei villaggi a fotografare la gente del posto, se posso».

«Consideralo fatto».

Il portale ad arco, con tanto di colonne, che delimitava il grande cancello principale della reggia era illuminato da torce fissate a urne di marmo, ognuna sorvegliata da un servo vestito di bianco. Quando Laxmi la lasciò sola, Eliza ammirò la scena da un balcone e vide una lunga fila di baldacchini dorati e argentati in cima ai loro elefanti ingioiellati e dipinti che risalivano la collina e oltrepassavano un muro addobbato con fiori.

Quando si fermarono, Eliza gemette, ma non per lo sfavillante spettacolo che si svolgeva ai suoi piedi. Nel giro di un solo, agghiacciante secondo, aveva di nuovo dieci anni e stava aggrappata a un balcone diverso, quello da cui aveva cercato di salutare suo padre. I suoi occhi si riempirono di lacrime e dovette fare ricorso a tutto il proprio autocontrollo per non piangere; non poteva permettersi che accadesse. Per anni aveva cercato di temprarsi contro la sua debolezza, disciplinandosi, diventando ogni giorno più forte, dentro e fuori. Non poteva cedere proprio adesso.

«Eliza?».

Si voltò e vide Jayant con un angharki scuro, una sorta di soprabito, ricamato sul davanti e filettato d’oro.

I suoi denti sembravano ancora più bianchi sulle labbra scure e la pelle lucente, e piccoli ventagli di rughe si allargavano agli angoli dei suoi occhi mentre le sorrideva. Era in piedi e la guardava; il momento in cui i loro occhi si incatenarono e rimasero a fissarsi l’un l’altra, durò troppo a lungo. Poi lui sbatté le palpebre ed Eliza si rese conto che c’era qualcosa di molto schietto in quell’uomo. E quel qualcosa le interessava profondamente. Eliza aprì la bocca per parlare, ma non riuscì a dire nulla. Poi quel magico momento si trasformò in vergogna, perché lui stava vedendo la sua debolezza. Si asciugò le lacrime e fece un passo indietro, cercando disperatamente qualcosa da dire per giustificare la propria reazione emotiva.

«È molto bella», riuscì a dire. «La parata».

«Come te. Chi l’avrebbe mai detto? Ritiro tutto ciò che ho detto sui tuoi capelli».

Lei sbatté le palpebre e pregò che lui non fosse tanto gentile.

«Mi permetti di accompagnarti giù?».

Lei annuì, sentendo una sensazione di sollievo perché il momento imbarazzante era passato, ma anche di preoccupazione per le conseguenze che il suo ingresso a braccetto del bel principe avrebbe avuto.

Mentre si dirigevano verso la sala del durbar scendendo l’ampia scalinata di marmo intarsiato, cercò di calmarsi e di rilassarsi. Si sentiva troppo esposta e non riusciva a non essere nervosa per la sua vicinanza, e non solo a causa di quello che gli altri avrebbero potuto pensare. Le sue perplessità su questo punto non erano vane, perché, quando scesero i gradini, Eliza colse lo sguardo di Indira. La fanciulla indossava uno splendido abito scarlatto, ma il modo in cui strinse gli occhi, dissimulando l’invidia, preoccupò Eliza. Che Indira fosse innamorata di Jay era chiaro ma, nel momento in cui aveva guardato di sottecchi il principe per controllarne la reazione, Eliza si era resa conto che lui quasi non si era accorto della presenza di lei. Era colpa del principe? Aveva illuso la ragazza? Oppure era l’adorazione di Indira a essere cresciuta troppo in quegli anni di vicinanza amichevole e fraterna? Eliza sperò che fosse vera la seconda ipotesi.

Una volta che gli elefanti ebbero fatto scendere il loro prezioso carico di nobili e i servitori, tutti gli ospiti vennero fatti accomodare nella sala del durbar dalle guardie della reggia con indosso le loro livree eleganti. Un’orchestra stava già suonando della musica occidentale su un palco laterale e, mentre tutti aspettavano il maharajah e sua moglie, Eliza dondolava al suono della musica.

Quando Anish fece il suo ingresso, sfoggiando un caleidoscopio di gioielli sopra un kurta di seta di un blu intenso, tutti tacquero, come se avessero perso il respiro. Priya lo seguiva, con gli occhi bassi, una gonna rosa pallido, un corpetto e una sciarpa coordinati; anche lei era completamente ricoperta di gioielli sull’intera lunghezza delle braccia e alle caviglie.

I reali si accomodarono su cuscini di raso sistemati sopra i loro troni di ebano e argento, posti sopra una pedana all’estremità opposta della sala rispetto all’orchestra. Quando i due sovrani si furono seduti, Laxmi, Jay e le figlie del maharajah si unirono a loro. Un boato entusiasta si levò dalla folla dei duecento nobili dignitari provenienti da tutto il Paese, a cui si aggiunsero i notabili locali; poi l’orchestra intonò una musica allegra.

Uno spazio si aprì e il tipico intrattenimento indiano iniziò con un dholan, in cui una donna cantava suonando un tamburo. Poi arrivarono le danzatrici nomadi, che saltavano e facevano piroette con la loro grazia straordinaria. Eliza stava cercando Dottie, ma sembrava che lei e Julian non fossero ancora arrivati. In ogni caso, nonostante l’angoscia di poco prima, si divertì molto; le persone erano amichevoli e, a differenza di quel che aveva immaginato, non si sentì affatto un pesce fuor d’acqua. A un certo punto notò Indira e Jayant che parlavano, con le teste vicine l’una all’altra, e quando Indira si voltò e fuggì dalla sala, Eliza si dispiacque per lei, perciò decise di andare a cercarla. Sperava di trovare Indi in giardino, su una delle grandi altalene realizzate per le donne; erano tipiche della regione e ce n’erano molte nei cortili della reggia, ma quella parte di giardino era deserta, così Eliza si avvicinò a un angolo illuminato da una luce soffusa, da cui le arrivava il profumo di gelsomino. L’aria era più fresca del previsto, perciò si avvolse bene nello scialle e guardò le stelle. La stessa sensazione magica che aveva già provato sul terrazzo del tetto del palazzo d’estate la colpì come una brezza leggera e Eliza si rese conto di desiderare qualcosa, ma di non riuscire a definire cosa. Aveva chiuso il suo cuore alle illusioni d’amore, aveva riposto tutte le sue energie nella carriera, voleva emergere rivelando l’essenza di una scena in uno scatto di un secondo. Era qualcosa di divino, quando funzionava.

Quando si voltò per rientrare, vide Clifford che procedeva verso di lei con la sua andatura leggermente irregolare.

«Eliza. Eliza», le disse. «Mia cara, cara ragazza. Cosa fai qui fuori?»

«Potrei chiederti la stessa cosa?»

«Ti cercavo». Restò immobile per un attimo, poi le si avvicinò e con uno sguardo indagatore le parlò a voce bassissima. «Notato niente di interessante, ultimamente?».

Lei fissò il pavimento per un momento prima di alzare la testa. «Per esempio?»

«Chatur è sempre il solito?»

«Credo di sì, mi sembra uno che si intromette spesso».

Clifford rise. «Tipico di Chatur… Vedi spesso Anish e sua moglie?».

Lei aggrottò la fronte. «Non molto. Qual è il problema?»

«Volevo solamente fare conversazione, mia cara. Vogliamo passeggiare?»

«Certamente».

Mentre percorrevano un sentiero stretto illuminato dalle lampade a olio, Clifford rimase a lungo in silenzio, ma il suo era un silenzio che metteva a disagio. Eliza si stava giusto chiedendo cosa potesse dire per fare un po’ di conversazione, quando Clifford parlò, con voce più bassa e profonda di prima.

«Eliza, ti conosco da quando eri una bambina, qui in India».

«Sì».

«Anche se naturalmente non ti ho vista molto, quando vivevi in Inghilterra».

«Sei venuto a trovarci a casa, una volta, me lo ricordo».

«Hai idea di quanto io mi stia affezionando a te?»

«Ne sono lusingata». Trattenne il respiro, cercando di riflettere. «Sei stato molto gentile con me, Clifford. Lo so bene, ma non ti conosco abbastanza e tu non conosci me, o perlomeno, non sai come sono diventata».

«Eliza, io non sto parlando di gentilezza! Mi piacerebbe che ci conoscessimo meglio. Capisci?».

Questo era esattamente ciò che non voleva; Laxmi era stata tanto intuitiva da prevedere la cosa quanto lei era stata ingenua da non aspettarsela. Clifford si chinò su di lei ed Eliza fece un passo indietro sentendo l’odore di sigari e whisky del suo fiato e temendo che volesse baciarla.

«Sei una donna molto bella. Lo so che non è passato tanto tempo da quando hai perso tuo marito, tuttavia…».

Lei lo interruppe subito. «Mi dispiace, Clifford, ma non sono ancora pronta».

L’uomo dovette aver letto qualcosa nella sua espressione, perché allungò il braccio e glielo pose gentilmente sulle spalle. «Non voglio metterti fretta, ma vorrei che tu mi dessi la possibilità di farmi conoscere meglio. È tutto ciò che chiedo».

«Certamente».

«È perché sono più vecchio di te? Non è vero? Perché gli uomini possono avere figli anche in tarda età e io non ho ancora cinquant’anni e…».

Spinta dal bisogno di chiudere quella conversazione, lei lo interruppe.

«Clifford, tu mi piaci molto…». Si fermò a riflettere, ripensando alla sua pelle bianca e ai capelli rossi, ma poi colse il suo sguardo estremamente triste.

«Non sarebbe un buon inizio questo? Gradevole, intendo dire?», chiese lui.

Eliza non voleva ferirlo o offenderlo ma, per qualche istante, non riuscì a dire nulla.

«Be’, volevo dichiararmi e sarebbe gentile se tu prendessi in considerazione ciò che ti ho detto. Sono in grado di offrirti una bella casa e sono un uomo rispettabile, non come…». E si fermò.

«Non come?»

«Non importa. Lascia stare, ma pensa alle mie parole. Sono assolutamente onesto nell’esprimerti le mie intenzioni».

«Come ho già detto, ne sono lusingata».

«Per favore, tieni in conto che non ci sono poi molti inglesi papabili qui. Hai pensato al futuro? Cosa farai quando il progetto sarà concluso?»

«Non ci ho ancora pensato».

«Forse dovresti. In ogni caso, spero di riuscire a convincerti che ho a cuore i tuoi migliori interessi».

Mentre Clifford si allontanava, Eliza si avvicinò a una piscina quadrata attorniata da candele. Tre piccole tende di mussola circondavano la vasca, aprendosi sull’acqua; ognuna poteva ospitare due persone. Raggiunse la più lontana e si accasciò su uno dei due cuscini di seta spessa. Ci fu una forte esplosione e all’improvviso i fuochi d’artificio illuminarono il cielo. All’inizio Eliza si spaventò per il rumore improvviso, ma poi ammirò lo spettacolo e, quando terminò, si ritrovò prossima alle lacrime per la seconda volta in quella giornata; stavolta, però, non sapeva proprio comprenderne il motivo, perciò si incantò a guardare i riflessi delle candele che danzavano sull’acqua, sentendosi sopraffare dalla solitudine.

Dall’altro lato della piscina, vide Jay camminare da solo, apparentemente assorto nei propri pensieri. Lui lanciò un’occhiata nella sua direzione e di nuovo i loro occhi si incatenarono, in quella stessa connessione misteriosa che avevano provato prima di scendere insieme la scalinata fino al durbar. Jay si avvicinò a lei e, quando la raggiunse, le sorrise e le chiese se andasse tutto bene. Eliza annuì e il principe sembrò esitare prima di farle un inchino e di andare via.

7

Per una settimana circa, tutto sembrò procedere senza problemi ed Eliza dimenticò presto le lacrime della notte del durbar. Non era il momento di lasciarsi sopraffare da qualsiasi tipo di emozione, ma di lavorare.

Fino ad allora, il personale le aveva dato libero accesso alla maggior parte dei luoghi della reggia, incluse le cucine e i magazzini, e anche le donne della zenana erano state amichevoli con lei. Infatti, quando aveva scoperto che Anish aveva ancora delle concubine, Eliza aveva iniziato a gravitare intorno alle donne, molte delle quali erano anziane e vivevano lì dai tempi del padre di Anish. Alcune di loro le raccontarono la propria storia. Erano state prese da bambine per essere portate alla reggia e, da quel momento, molte di loro non avevano mai lasciato la dimora. Tuttavia, ridevano, cucivano e cantavano e, stando assieme a loro, Eliza sperimentò un tipo di cameratismo femminile che le era del tutto sconosciuto.

Non sembrava per niente simile a quello del periodo in cui aveva frequentato un collegio femminile, per gentile concessione di un uomo che sua madre definiva uno “zio”. L’uomo in questione si chiamava James Langton ed Eliza sapeva bene che non si trattava affatto di un parente, anche se a lei e a sua madre era stato offerto un piccolo alloggio nella sua proprietà e tutto ciò che Anna doveva fare in cambio era controllare il suo staff ogni volta che lui partiva.

Fino a quel momento, Eliza non era riuscita a comprendere la facilità con cui altre persone mettevano radici con tanta sicurezza nel loro mondo.

Ma adesso, anche se le donne della zenana sicuramente spettegolavano alle sue spalle quando lei non c’era, a Eliza non dispiaceva. Si divertiva con loro, cosa che non succedeva con le bambine alla scuola femminile, di cui non si era mai fidata. Solo in uno di quei giorni in cui Priya si univa a loro, Eliza aveva occasione di vedere il lato malvagio delle donne della zenana; da ciò comprese che non si fidavano della loro maharani.

Proprio mentre Eliza stava scattando una fotografia a una delle concubine più giovani, Indira entrò nella stanza portando con sé una borsa e parlò in inglese, in modo che nessuna delle altre donne potesse capire cosa stava dicendo.

«Vuoi vedere qualcosa di interessante?», le chiese con un gran sorriso in faccia, e, tutta soddisfatta, prese una sedia e ci si sedette.

«Dipende».

«È una specie di funerale».

Mentre le parole della ragazza si sedimentavano, Eliza si accigliò. Ne aveva avuto abbastanza, di funerali.

«Ti piacerà. Te lo prometto».

Eliza esitò. Non aveva più visto molto Indira dopo la sera del durbar, quando la ragazza le era sembrata tanto gelosa.

«Sta arrivando Kiri».

«Davvero? L’ancella?».

Indi annuì. «La incontreremo in città».

Eliza decise di accontentarla e iniziò a impacchettare le sue cose. «Ho finito qui, perciò perché no? Ma non posso stare fuori troppo a lungo, voglio sviluppare le lastre il prima possibile, non appena saremo di ritorno. Posso portare la mia Rolleiflex?»

«Solo se la porti in una borsa a spalla».

Poi saltò in piedi e le mostrò qualcosa. «Non staremo via a lungo, ma avrai bisogno di cambiarti. Ti ho portato abiti di foggia indiana».

«Da dove vengono?».

Indi inclinò la testa di lato e sorrise misteriosa.

«Io posso procurarmi qualsiasi cosa. E adesso cambiati».

«Davanti alle altre?».

Indi rise. «Certo. Siamo tutte donne qui, non hai niente che non abbiano già visto. Potrai riprenderti i tuoi vestiti più tardi».

Eliza non era timida ma, mentre si cambiava, le guance le avvamparono per l’imbarazzo, quindi tentava di coprirsi. Le donne risero e parlottarono tra loro, talmente in fretta che Eliza non riuscì a seguirle. Sembravano abbastanza benigne, anche se la curiosità di vedere una donna bianca mezza nuda che arrossiva come un lampone doveva essere un’esperienza nuova e affascinante per loro. Una volta che fu pronta, con indosso la gonna e la blusa tradizionali, Eliza si sentì diversa.

Appena lasciata la zenana, Indi la spinse improvvisamente in un recesso del corridoio. Eliza si accigliò, ma Indi si portò un dito alle labbra. Poco dopo le spiegò: «Chatur! Il dewan, l’ufficiale di corte».

Eliza ricordò gli occhi scuri e le sopracciglia folte di quell’uomo. «E allora?»

«Ha occhi dappertutto. È abituato a me, ma meno cose sa di te, meglio è. Ficcherà il naso in tutto ciò che farai se non starai attenta. Andiamo adesso, è andato via».

«Perché devo stare attenta?»

«Perché lui odia i cambiamenti e non ama gli inglesi. Dubito che approvi la tua presenza qui. È un uomo vecchio stile. Lui e Priya sono molto intimi. Meglio evitare entrambi».

Dopodiché Indira prese a chiacchierare del più e del meno. Qualunque cosa l’avesse sconvolta la sera della festa, sembrava essere passata. Forse lei e Jay erano riusciti a parlare? In ogni caso, Eliza si sentì sollevata per non aver causato problemi. Affascinata dagli scorci della vita regale, non si era preoccupata dei sentimenti malevoli che avrebbero potuto rovinare ogni cosa. Quanto a Clifford, l’aveva già relegato in un angolo dei suoi pensieri.

Quella era la prima vera visita di Eliza al cuore medievale della città e fu lì che incontrarono Kiri, che le avrebbe accompagnate. Eccitata alla vista dei colori sgargianti nel groviglio di strade tortuose, Eliza sentì battere forte il cuore. I bazar della città vecchia sembravano irradiarsi come nastri stretti dalla torre dell’orologio al centro e, mentre seguiva Indi e Kiri, Eliza vide di tutto, dai tintori ai fabbricanti di marionette; le venne in mente che, se si fosse persa lì, non sarebbe mai stata in grado di ritrovare la strada. Quella gente l’avrebbe aiutata? Con le loro piccole vite, le loro gioie, le loro paure, sembravano tanto vicini tra loro eppure estremamente lontani. Nei mercati delle spezie, gli aromi degli incensi si diffondevano nell’aria attorno a loro, così come il profumo tenero della carne di capra alla brace.

Poi, a mano a mano che procedevano attraverso i bazar che vendevano di tutto, dai dolci ai sari, udì il suono di un tamburo che sembrava crescere d’intensità.

«C’è una festa?», chiese, sapendo che gli indiani amavano festeggiare tutto, dalla celebrazione di una nascita di una divinità a un raccolto fruttuoso, fino ai festival musicali.

«Non proprio».

Eliza si fermò in mezzo alla strada. «Dunque?».

Indi si voltò verso di lei, che riprese a camminare. «I famigliari di Kiri sono burattinai. Oggi è un giorno speciale per loro. Sbrigati, o sarai investita da un risciò».

«Ma hai detto…».

«Che era un funerale. E lo è, in un certo senso».

«Sei davvero molto misteriosa».

Indi rise, prendendo sotto braccio Eliza e Kiri, che stava sorridendo.

«Vedrai. Credi nel karma o destino?»

«Destino? Non sono sicura di cosa voglia dire».

«Io ci credo. Noi qui crediamo che esista una cosa chiamata adit chukker, l’invisibile ruota del fato. E oggi non fa eccezione».

A quel punto Eliza sentì una voce chiamarla per nome, in inglese. Si voltò e vide Dottie, col volto arrossato, che correva verso di lei. «Sapevo che eri tu», disse la donna. «Cielo, sono fuori forma. Regola numero uno, mai correre con questo caldo! Ma cosa ci fai qui con indosso questi abiti?»

«Si tratta di una cosa strana, in realtà. Sto andando a una sorta di funerale».

«Santo cielo, è sicuro?», e si guardò attorno come alla ricerca di possibili aggressori nascosti nei vicoli.

«Sono certa di sì», disse Eliza. «Comunque, come stai tu, Dottie? Mi è dispiaciuto di non vederti al durbar».

«Avevo uno dei miei terribili mal di testa. Julian mi dà qualche medicinale, ma mi indebolisce parecchio». Dottie toccò il braccio di Eliza e fece una piccola pausa. «Ma, sul serio, andartene in giro così, tutta sola…».

«Sono con loro due». Indicò Indira e Kiri.

«Intendevo dire…».

«So cosa intendevi, ma sto bene così, davvero».

«Clifford approverebbe?»

«Probabilmente no. Ma, senti, perché non vieni con noi?».

Dottie sorrise. «Sai, mi piacerebbe, ma sono con Julian. Sta cercando una scacchiera».

«Peccato». Eliza fece un passo indietro e guardò Indi.

«Magari un’altra volta?».

Eliza annuì. «Mi dispiace, ma non posso trattenermi oltre».

«Certamente. Ci vediamo presto?».

Eliza colse una nota perplessa nel tono di voce della donna e si rese conto che anche Dottie doveva sentirsi un po’ sola. Avrebbe fatto uno sforzo e sarebbe passata presto da lei.

Dottie si allontanò ed Eliza raggiunse le ragazze che l’attendevano.

Quando infine arrivarono alla periferia della città, andarono sulla riva di un fiume, che non era particolarmente ampia e certamente non molto profonda; lì, in effetti, tutto sembrava meno polveroso che in città ed Eliza avvertì anche una certa freschezza nell’aria. E poi vide una piccola folla riunita a guardare uno spettacolo di marionette.

«Siamo qui per questo?»

«In un certo senso».

Lo spettacolo impressionante di quelle marionette alte quasi un metro su un palcoscenico in miniatura, con le teste scolpite nel legno duro e con indosso veri costumi elaborati, era una cosa che Eliza non aveva mai visto. Il burattinaio, seminascosto, emetteva suoni attraverso una canna di bambù per modificare il suo normale tono di voce e muoveva le braccia e le gambe delle marionette manipolando i fili a cui erano attaccate. Accanto a lui, una donna suonava il tamburo che Eliza aveva sentito da lontano.

«Si tratta di un dholak, il tamburo», spiegò Indira.

«Queste storie parlano del destino. E di amore, guerra e onore. Puoi chiedere a Jay. Lui sa tutto sull’onore».

Eliza si chiese se ci fosse un’insinuazione nelle parole di Indira, ma poi cercò di non pensarci. Probabilmente si stava immaginando tutto.

«Queste persone sono agricoltori della zona del Nagaur, meglio noti col nome di kathputliwalas. Di solito si esibiscono con le marionette la sera tardi, ma stavolta la situazione è differente».

Eliza ascoltava il burattinaio che urlava e fischiava; una seconda donna, invece, raccontava la storia, mentre la prima continuava a cantare e a suonare il tamburo.

«Siamo qui per un funerale», continuò Indi.

«Ma di chi?»

«Sta lì sdraiato».

Anche se non aveva alcuna voglia di vedere un cadavere, Eliza non poté fare a meno di voltarsi a guardare. Vide solo Kiri, accovacciata a terra accanto a un altro pupazzo di un metro circa, steso su un letto di seta.

«Quel burattino è vecchio e troppo usurato per essere ancora usato».

Eliza osservò la conclusione dello spettacolo. Il burattinaio si avvicinò a Kiri e le diede un bacio sul capo, poi prese il burattino e lo portò amorevolmente vicino all’acqua, dove iniziò a pregare. Eliza catturò la scena con la sua macchina fotografica, quando lui, continuando a pregare, adagiò la marionetta nell’acqua con l’aiuto di Kiri.

«Più a lungo galleggia, più felici saranno gli dèi», spiegò Indi.

«Perché Kiri lo sta aiutando?»

«Il burattinaio è suo padre».

«Ma lei vive con la sua famiglia?»

«Non può. Per lavorare alla reggia, deve vivere alla reggia».

Quando la cerimonia fu terminata, le tre ragazze attraversarono di nuovo il bazar, schivando le biciclette, le vacche addormentate e le merci sparse a terra; si fermarono solo per avvolgersi in sciarpe colorate e provare collane, mettendosi in posa e ridacchiando.

«Stai bene vestita come un’indiana, Eliza».

«Ma perché mai ho dovuto vestirmi così? Di sicuro avrei dovuto anche coprirmi il capo».

«Sì. Ma ho pensato che fosse più divertente, e che ti avrebbero notato di meno così».

Eliza le sorrise. Si era divertita, anche se era stata un po’ a disagio per via della sua carnagione pallida; si sentiva insolitamente leggera e spensierata, e ammirò la profonda conoscenza che Indi aveva della città. Inoltre, le sembrò di scoprire un lato sconosciuto di se stessa. Nessuno infastidì le ragazze, le strade pullulavano di donne, alcune ancora con la purdah, altre che invece avevano scelto di non indossarla.

Comprarono piccole palline di pasta di farina fritta, o golgappe, e frittelle di lenticchie che Indira chiamò daalbaatichurma, e poi andarono a sedersi in un parco a mangiare.

Quando raggiunsero le pendici della collina era ormai il tramonto e Eliza s’incantò di fronte a quella meraviglia. Tutta la fortezza era illuminata e sembrava fosse stata dipinta d’oro. Ogni finestra scintillante la ipnotizzava e, se Eliza non fosse rimasta presente a se stessa, quel mondo incantato l’avrebbe trascinata via e non sarebbe mai più tornata in quello reale. Era stata una giornata felice, una giornata gioiosa, di quelle in cui è possibile apprezzare quanto sia bello vivere, in cui non è necessario difendersi o proteggersi. Eliza sperava tanto che lei e Indi sarebbero diventate vere amiche, era passato molto tempo dall’ultima volta in cui aveva avuto un’amica così.

8

Quella notte Eliza sognò Oliver e, quando si svegliò, tutti i ricordi e le memorie antiche riposte nel profondo del suo cuore tornarono prepotenti e indesiderate. Non poteva fare a meno di pensare al giorno in cui l’aveva incontrato. Gli aveva accidentalmente fatto cadere la pila di libri che aveva in mano perché lo aveva urtato per sbaglio in una libreria, o meglio, gli era andata addosso camminando all’indietro. Quando si era chinata per aiutarlo a raccoglierli, si era accorta che erano tutti libri d’arte, inclusi cataloghi di mostre a Londra e a Parigi. Si era accucciata sul pavimento per guardare le fotografie e lui si era seduto a terra accanto a lei. All’inizio Eliza aveva annuito e non aveva detto nulla, poi per qualche minuto avevano parlato del tempo. Infine erano scoppiati a ridere, entrambi. Era buffo starsene seduti sul pavimento con un perfetto sconosciuto. E poi lui l’aveva aiutata ad alzarsi e invitata a bere un tè lì accanto.

I bei tempi non erano durati molto ed Eliza ripensò al giorno in cui avevano litigato furiosamente. Tutto ciò che gli aveva detto era che voleva diventare una fotografa. Non gli aveva augurato la morte, ma lui era tanto arrabbiato quel giorno. Aveva sbattuto la porta ed era uscito di casa senza capire il suo punto di vista. Eliza aveva avuto paura, si era sentita come se le avessero dato un pugno sulla bocca dello stomaco e, a ragione, aveva avuto paura: Oliver non l’aveva neppure visto l’autobus che l’aveva ucciso e lei aveva imparato a fare i conti con il tremendo senso di colpa.

Un colpo alla porta interruppe il flusso dei suoi ricordi. Fu sorpresa di trovare il dewan, Chatur, che la aspettava. Non le sorrise, ma con uno sguardo pieno di disprezzo le porse il foglio di carta che teneva tra le punte delle dita.

«Le ho portato una lista di persone che dovrebbe fotografare, nell’ordine in cui dovrebbe fotografarle. Come vedrà, le ho anche suggerito le ambientazioni più adatte».

«Vedo».

Chatur le rivolse un sorriso freddo. «Sono certo che riuscirò a concedermi il tempo per essere presente in alcune di queste occasioni, ma se non sarò disponibile, una delle guardie la accompagnerà».

Cercando di difendersi dall’ingerenza, Eliza si accigliò. «Mi piace scegliere da sola i miei soggetti e pensavo di avere libertà d’azione».

«Fino a un certo punto, signorina Fraser, fino a un certo punto. Sono convinto che troverà molto utile la mia lista. Ora, ho alcune guardie che attendono di essere immortalate. Potrà raggiungerle nel cortile qui vicino».

Mentre lui si inchinava per andarsene, Eliza ripensò a ciò che Laxmi le aveva detto. Sicuramente le sarebbe stato permesso di fare ciò che desiderava, senza dover seguire le indicazioni di nessuno. Avrebbe semplicemente voluto ignorare l’elenco di Chatur. Fuori nel cortile, tre guardie si misero in riga e non si mossero più, qualunque cosa lei dicesse. Si stava arrovellando per cercare di trovare un modo per scattare una foto più informale, quando tutt’a un tratto apparve Dev, che rimase a fissarla. Notò i suoi capelli, più corti di quelli di Jay, i suoi occhi, più scuri, e il naso più importante. Nel complesso, il suo aspetto era meno raffinato. C’era qualcosa di strano in lui, come se camminasse in equilibrio su un filo invisibile, e il suo sorriso impostato non lasciava trapelare nulla. Dev la guardò con cautela all’inizio, ma poi, dopo aver compreso la situazione, sembrò cambiare idea.

«Hai bisogno d’aiuto?», le chiese.

«Non proprio. Ma non riesco a farli rilassare. Vorrei cercare di fotografarli in un momento di spontaneità».

Dev li guardò e rimase a riflettere, poi sorrise. «Ho la soluzione».

Tirò fuori qualcosa dalla borsa che aveva con sé e prese anche una piccola pochette. A quella vista, le guardie si precipitarono verso di lui, che pronunciò qualche parola; gli uomini annuirono, ignorando Eliza.

«È un gioco», spiegò a Eliza. «Lo chiamiamo challas».

E dispiegò un grande telaio quadrato che sembrava foderato di seta dipinta con figure geometriche e altri segni. Poi si accovacciò a terra e gli altri si unirono a lui. Quando svuotò il sacchetto, che conteneva gettoni e gusci di conchiglie di ciprea marina, Eliza ammirò il tavoliere, che era veramente raffinato.

«Sai il fatto tuo, non è vero?», gli disse.

Dev le dava le spalle, ma lo vide annuire da dietro; poi sembrò dimenticarsi di lei. Molto intelligente da parte sua, perché così Eliza avrebbe potuto scattare le foto che desiderava veramente.

Tuttavia, non riusciva a inquadrare Dev. Un minuto prima, sembrava sospettoso nei suoi confronti, un minuto dopo era disponibile e l’aiutava. Come mai?

Durante una piccola pausa nel gioco, lui si alzò in piedi e le si avvicinò. «Questo gioco ha una lunga tradizione, ci giochiamo da secoli. Lo abbiamo usato per insegnare ai giovani le tattiche di guerra e le strategie militari».

«E tu sei bravo? Voglio dire, nella tattica?».

Lui scrollò le spalle.

«Allora, che ci fai oggi qui?»

«Sono reduce da una battuta di caccia col falcone assieme a Jay. Per favore, non rendergli la vita difficile, signorina Fraser. Non ha mai vita facile, quando è qui, e non sono sicuro che il fatto che trascorra tanto tempo assieme a te sia di gran beneficio al suo già turbolento rapporto con Chatur».

«Chatur è davvero così potente?».

Dev annuì. «Temo di sì. A ogni modo, una volta Jay mi ha detto che tu hai già vissuto in India».

«Solo a Delhi, da bambina, ma dopo che mio padre è morto sono tornata in Inghilterra con mia madre».

Lui guardava in basso e giocherellava con i piedi, spostandoli fra i ciottoli, e non proferì parola.

«Be’, allora grazie per avermi aiutato», gli disse Eliza. «Lo apprezzo molto». E si girò per riporre la sua attrezzatura.

Il giorno successivo si trovò nuovamente da sola con Jayant. Questa volta a Eliza toccò arrampicarsi su un sidecar aperto attaccato a una motocicletta. Non sapeva che sarebbe stato Jay a scortarla al villaggio indiano, ma sembrava che lui si fosse offerto, cosa che la fece sentire lusingata e sorpresa. Quel giorno lui indossava una lunga tunica in stile indiano con pantaloni di foggia occidentale, entrambi sui toni del grigio cenere, e la sua pelle profumava di legno di sandalo, proprio come quella di Laxmi, ma con un retrogusto di cedro e forse lime.

«Mi piace la motocicletta», disse lei.

«Avevo una Brough Superior 1925, ma me l’hanno rubata all’inizio dell’anno. Questa è una Harley Davidson».

Mentre procedevano, la sabbia si levava dalle ruote della moto in nuvole dense, ma Eliza si concentrò sulla strada e, solamente dopo essersi ripresa da una sorta di imbarazzo, decise di cogliere quell’opportunità. C’erano ancora tante cose che non sapeva su Jay e sul suo mondo. A volte sembrava immerso in una sua personale oscurità, altre volte era pieno di gioia e vivacità, ma era come se ci fosse un muro, una barriera impenetrabile.

«Spero che non mi dirai che anche stavolta si tratta di un viaggio di diversi giorni!», gridò lei per farsi sentire.

Jay rise. «Non andiamo molto lontano, in realtà, saremo di ritorno per l’ora del tè, ma ci sono molte cose da vedere. È un villaggio rurale, potrai renderti conto da sola di come si vive lì e speriamo che tu riesca a catturare dei volti interessanti per i tuoi ritratti. Anche Indi viene da lì».

Attraversavano la campagna del Rajput e l’aria era ancora sorprendentemente umida. Eliza notò alcune capre che pascolavano in mezzo alla strada, e superarono cammelli e bufali; ciò la fece riflettere su quanto si fosse ormai ambientata in questo suo nuovo mondo. Amava i profumi del deserto e il vento che le gonfiava i capelli, le sembrava di riprendersi qualcosa che le mancava da molto tempo.

«Qui la vita procede in modo semplice, uguale a se stessa da secoli», gridò Jay al di sopra del rombo del motore. «Gli artigiani tessono tappeti di crini di cammello, come hanno sempre fatto, e fabbricano giare per l’acqua con l’argilla del posto. Mi piace percorrere questa strada, per gli uccelli».

«Ti piace osservare gli uccelli?»

«Non proprio, ma siamo sul percorso delle rotte migratorie di molte specie. Se tieni gli occhi bene aperti, potrai individuare pappagalli e pavoni».

Mentre lui parlava, Eliza provava un nuovo gusto per la vita, una sensazione che non aveva mai sperimentato prima. Ogni volta che lo incontrava, la sorprendeva sempre con qualcosa di nuovo.

«Se andremo al lago Olvi troveremo uccelli acquatici, aironi, martin pescatori, gabbiani e trampolieri. E a volte ci sono anche le gru».

«Fermati!», gli chiese ridendo. «Ho la testa che mi scotta, piena di sabbia. Fa troppo caldo e non riesco a sentirti bene con il rumore della motocicletta».

Proprio in quel momento Eliza notò un animale che non aveva mai visto prima e lui fermò il motore.

«È la chinkara, una gazzella asiatica, anche se qui è più facile incontrare i cervi neri». Mentre parlava, sembrava distratto. Si interruppe, come sovrappensiero. «Mentre per noi la vita quotidiana non è cambiata molto – intendo per noi nobili – devi capire che gli inglesi hanno soppiantato i nostri poteri con il loro sistema di leggi e regole indirette».

Eliza si accigliò, ma trovò il coraggio di chiedere di più. «Io non capisco come mai i principi abbiano ratificato i trattati con gli inglesi. Perché hanno deciso di cedere tanto potere?»

«In origine la dinastia Rajput proveniva da una terra oltre questa regione, e conquistò i territori che poi divennero suoi. Tutto ciò che importava erano la parentela, il clan e la conquista di terre. I differenti clan combattevano costantemente nella speranza di acquisire sempre più territori e ricchezza. La nostra forza militare si è ampliata attraverso matrimoni combinati tra clan differenti».

«Gli aristocratici da noi si sposano solo con altri aristocratici. E hanno tutti il mento sfuggente, sai!».

Lui rise. «Gli inglesi si sono offerti di prendersi la responsabilità di salvaguardare i nostri territori, ma in cambio noi dobbiamo restare subordinati a loro».

«Mi pare strano che tu sia d’accordo».

«Penso che fossimo stanchi di combattere tra noi. Ci è costato molto. La tua gente teme gli scontri tra gli Stati principeschi, così ci ha tenuti isolati gli uni dagli altri. Va un po’ meglio adesso, perché vedono di buon occhio un rapporto di cooperazione».

«Siamo molto diversi, non è vero?», commentò lei. «Gli inglesi e i Rajput, voglio dire».

«Assolutamente sì, anche se gli inglesi amano il concetto di nobiltà. Ma le differenze sono enormi e alcuni di noi sono difficili da comprendere. Quando tornano in India molti di quegli uomini che studiano in Inghilterra, perdono la testa e cominciano a bere, così, senza un vero motivo».

«E tu?».

Lui scoppiò a ridere. «Tengo un piede in due staffe e non mi sento a mio agio né qui né lì. Mio fratello è felice di mascherarsi da principe. Io no».

Rimasero in silenzio per alcuni minuti, durante i quali Eliza ripensò a quelle parole, e lui si accese una sigaretta. Lei scese dal sidecar per allungare le gambe, poi lo guardò fumare, seduto a cavallo della moto. Aveva i capelli arruffati dal vento e la mano sinistra sporca di olio del motore; se la pulì tranquillamente sui pantaloni, poi le sorrise. Era un uomo complesso che le aveva parlato della sua vita con il cuore in mano, ma non riusciva a credere che fosse felice di vivere senza uno scopo. Anche se era dotato di disinvoltura e fascino, Eliza intuiva che c’era anche qualcos’altro in lui.

«Neppure tu sei felice», commentò Jay, come se le avesse letto nei pensieri.

«Non capisco cosa intendi dire», rispose lei, improvvisamente sulla difensiva. Era troppo invadente. Anche il calore che andava via via aumentando contribuiva a renderla irritabile.

«C’è qualcosa in te che vorrebbe farti sembrare distaccata, ma comincio a non crederci più tanto».

«Non hai peli sulla lingua, decisamente», ribatté lei, facendo uno sforzo per non sembrare troppo irrequieta. «E non sono affari tuoi».

Ci fu una piccola pausa.

«Te l’ho già detto: non sono inglese».

«È chiaro!».

«Gli inglesi pensano che abbiamo corretto i nostri modi rudi», continuò lui, «ma alcune delle vecchie usanze sono semplicemente state nascoste sotto il tappeto».

«Cosa vuoi dire?»

«Pensavo a Indi, immagino. E a cosa sarebbe potuto accaderle».

Eliza aggrottò le sopracciglia.

«Venne alla reggia perché sua nonna una volta mi salvò la vita; per questo mia madre le diede una miniatura dipinta come segno di ringraziamento e le disse che, se avesse avuto mai bisogno d’aiuto, avrebbe potuto portare la miniatura alla reggia e chiedere della maharani».

«E poi?»

«Indi ha imparato a copiarla».

«Con l’aiuto di un Thakur?»

«Sì».

«E cosa sarebbe potuto accaderle altrimenti?»

«Te lo dirò dopo. Ora dobbiamo ripartire».

«Senti», iniziò Eliza. «Prima di andare, non sapevo se dirtelo, ma Devdan mi ha messo in guardia, ammonendomi di non trascorrere troppo tempo assieme a te, perché potrei causarti problemi con Chatur».

«Te lo ha detto lui?»

«Il fatto è che ho visto qualcosa durante la partita di polo in cui ti hanno sabotato. Non ne ho mai parlato prima, perché pensavo che fosse tutto frutto della mia immaginazione, ma credo di aver visto Chatur con un altro uomo, ridevano per la tua caduta. Mi chiedevo se…».

Lui la interruppe. «Ti sei chiesta se dietro all’incidente non ci fosse Chatur. È questo che pensi?»

«Pensavo che fosse un semplice scherzo tra loro, ma forse si tratta di qualcosa di più grave?».

I suoi occhi si adombrarono e Jay sembrò perdersi nei propri pensieri, poi mormorò: «Quell’uomo è una minaccia, ma mio fratello non lo capisce. Chatur non si ferma davanti a nulla. Ho avvertito Anish».

«Non si ferma davanti a nulla per fare cosa?»

«Per mantenere il controllo su mio fratello e il suo potere».

Eliza sospirò. Questa era una faccenda che non la riguardava.

Jay accese la motocicletta e ripresero la strada, ma non tentarono nemmeno di fare conversazione finché non si spinsero fino a un villaggio coperto di polvere, fatto di case di argilla cotta. Felice di poter stendere di nuovo le gambe, Eliza uscì dal sidecar e si guardò attorno. Le case sembravano emergere direttamente dalla terra, come alberi o cespugli, e la semplice linearità dei profili morbidi di quegli edifici catturò subito il suo occhio di fotografa. Avrebbe usato solamente la Rolleiflex, questa volta.

«Il garh, la fortezza, è l’antica dimora del proprietario di queste terre», stava spiegando Jay. «Incontreremo lui per primo».

«Ma vedremo anche gli abitanti?»

«Sì, sì, ma prima dobbiamo presentarci al Thakur. Lui si interessa d’arte, in qualche modo è anch’egli un artista. È lui che ha preso Indi sotto la sua ala protettrice. Dobbiamo essergli molto grati».

Mentre attraversavano il villaggio, Eliza sorrise osservando artigiani di tutti i generi impegnati nel loro lavoro, donne che camminavano come regine mentre andavano a prendere l’acqua dal pozzo, bambini che correvano per le strade, animali che pascolavano. C’erano cani che dormivano sdraiati ovunque e tutti i passanti sembravano amichevoli. Nonostante le osservazioni fuori luogo e personali di Jay, si sentì molto grata nei suoi confronti per averla portata lì e lo seguì mentre percorreva le strade del villaggio a passo veloce.

«La sua famiglia appartiene allo stesso clan della mia», disse Jay. «E mio fratello Anish è il capo del clan. Vedi, ecco la fortezza».

Eliza guardò il forte dorato, piccolo ma molto grazioso; passato un arco di pietra, furono condotti fino a un giardino interno, dove il Thakur stava dipingendo al cavalletto. Era chiaramente un altro degli alti dignitari che ormai Eliza aveva imparato a riconoscere, solo che quell’uomo aveva i baffi grigi ed era evidentemente più grande di Jay. Si alzò dalla sua sedia, si asciugò le mani con un panno e andò loro incontro, a braccia aperte.

«Benvenuti, benvenuti», li salutò. «Jayant. È bello vedere te e la tua deliziosa compagna. Cosa vi porto?»

«Una bevanda fresca per entrambi», rispose Jay. «Va bene per te, Eliza?».

Lei annuì e unì i palmi delle mani nella maniera consueta.

«Allora, prego, prendete posto, tutti e due».

Mentre Jay ed Eliza si accomodavano, l’uomo continuò a parlare. «Questo luogo è stato costruito due secoli fa, concesso dal maharajah a un mio antenato come premio per il suo coraggio. In cambio, egli dovette mantenere otto cavalli della cavalleria del maharajah e partecipare a tutte le battaglie. Fortunatamente io non ho dovuto farlo».

Eliza sorrise. «Spero di poter fotografare gli abitanti del villaggio. Saranno felici di posare per me?»

«Non credo che ci saranno problemi. Immagino che la fotografia sia l’arte del futuro».

«Io spero che non sostituirà la pittura, ma che le due arti potranno convivere», continuò Eliza.

«Certo. Jayant qui mi ha detto che lei parla la nostra lingua».

«Un po’».

«È modesta».

«E come sta Indira?», chiese il Thakur a Jay. Sorrideva, ma i suoi occhi erano seri. «Viene raramente a farmi visita».

«Credo che tu sappia il perché».

L’uomo abbassò il capo. «Sì, certo, anche se mi manca la sua compagnia, è così solare. Ma ora basta rivangare il passato».

Eliza avrebbe voluto saperne di più, ma qualcosa nell’espressione seria dei due uomini la convinse a non fare domande. Quando poi tutti si alzarono in piedi, Jay e il Thakur si appartarono un momento ed Eliza non riuscì a sentire quel che si dicevano. Infine, il Thakur uscì dalla fortezza. «Un tempo questo luogo era circondato da mura di fango. È stato mio nonno a costruire queste mura di pietra, ma la maggior parte dei cortili è rimasta com’era. Il cancello è stato allargato per permettere a un uomo a cavallo del suo elefante di poter passare».

«È davvero splendido», disse Eliza.

Lui annuì. «Prima che vada a scattare le sue foto, vorrebbe conoscere la nonna di Indira?»

«Mi piacerebbe molto».

«Vi accompagnerò da lei e poi vi lascerò».

Una volta tornati al villaggio, si fermarono davanti a una semplice capanna con un piccolo cortile e un cespuglio di rose screziate. Il Thakur chiamò e una donna anziana, con i capelli grigi e uno sguardo duro, si affacciò alla porta come se li stesse aspettando. Si tirò lo scialle sopra i capelli e non sorrise.

«Non parla l’inglese. La capirai?», chiese Jay a Eliza.

«Se mi occorre, ti chiederò aiuto».

Eliza si concentrò mentre Jay e Thakur si rivolgevano alla donna, che voleva sapere soprattutto se Indira stesse bene; sembrò visibilmente rassicurata dalle loro risposte. Quando Eliza sentì pronunciare il suo nome per esteso, la donna la fissò con sguardo indagatore, poi chiese a Jay di ripetere.

«Eliza Fraser», ripeté lui.

Il volto della donna si adombrò e, rapida come era apparsa, fece qualche passo indietro e si ritirò. La conversazione era finita. Jay e il Thakur si scambiarono un’occhiata.

«Cos’è successo?», chiese Eliza, a disagio, incerta e confusa.

«Sono certo che non sia nulla di cui tu debba preoccuparti», replicò Jay.

Eliza non commentò le sue parole, ma sentiva che doveva esserci dell’altro. Il Thakur stava lentamente cambiando argomento. «Lasciate che vi parli delle entrate che provengono dalla terra, da sempre. I contadini coltivano i campi per me e, in cambio, trattengono una parte del raccolto. I pastori sono liberi di far pascolare i loro animali sulle mie terre e, in cambio, mi danno parte della loro mandria».

«Il mio amico Devdan avrebbe qualcosa di ridire a questo proposito», commentò Jay con un sorriso.

Il Thakur alzò una mano imperioso. «Ricordo di aver incontrato il tuo amico. È un rivoluzionario, no? Un tipo pericoloso. Un badmash».

«In realtà non è pericoloso, parla solo troppo».

«Be’, eppure io lo terrei d’occhio. Ora però devo proprio andare. È stato un piacere conoscerla, signorina Fraser». E, detto ciò, prese nuovamente da parte Jay per parlargli in privato.

Dopodiché Eliza e Jay si inoltrarono verso il limitare del villaggio. Jay sembrava molto più silenzioso di prima, ma Eliza non capiva come mai, non riusciva a non pensare che fosse accaduto qualcosa che aveva a che fare con lei, e quel pensiero era accompagnato da un formicolio d’allarme che le faceva drizzare i peli alla base del collo. Ma dato che era indaffarata – un rullino di pellicola era sufficiente per sole sei fotografie, quindi Eliza era costretta a infilarsi in ogni angolo buio per cambiare il rullino sotto una borsa scura – non chiese cosa fosse andato storto. Poi, a mano a mano che proseguivano nei vicoli e lei osservava le condizioni di vita in cui versava la gente in quel luogo arido, rimase sconvolta dalla loro estrema povertà. Come poteva essere giusto che alla reggia ci fosse tanta opulenza, mentre a quelle persone mancava tutto? In quei vicoli i bambini erano completamente nudi, e lei a malapena riusciva a evitare di camminare nella fogna a cielo aperto che correva sudicia in mezzo al sentiero. Le persone erano magre, la miseria aveva scavato i loro volti, ruga per ruga, e quando Eliza comprese la differenza con l’altra parte del villaggio, ammutolì. Là non c’era niente di romantico, ma lei fotografò tutto: i miseri, gli smarriti, i dimenticati. E le venne in mente che, documentando la situazione dei poveri, avrebbe trovato un modo per dar voce a chi voce non aveva.

Mentre risaliva sul sidecar, Jay le chiese se avesse voglia di visitare un bazar poco lontano, dove lei avrebbe potuto acquistare tessuti stampati a mano con blocchi di legno intarsiato; lui, invece, aveva alcuni affari da sbrigare.

«Si tratta di un luogo remoto e poco visitato. Se cerchi il Rajputana autentico, non c’è niente di meglio».

Era una proposta amichevole, anche se il tono della voce di Jay era solenne e segnato da una nota tagliente che lei non aveva mai notato prima. Mentre lui guidava lungo la strada dissestata, Eliza ripensò alla nonna di Indira e decise di chiedergli qualcosa di più sulla ragazza. Jay rallentò la moto per un momento, come se fosse indeciso sulla strada da prendere.

«Prima hai detto qualcosa a proposito delle vecchie usanze che sono state messe sotto il tappeto e hai citato Indi. Qual è il nesso?». Sperava che lui le dicesse di più.

Jay sospirò profondamente. «Avrai notato che Indi è diversa. Ha la pelle più chiara della nostra e non sa chi sia suo padre. Per di più, sua madre l’ha abbandonata. Sebbene discenda da una nobile stirpe di guerrieri Rajput, da parte di madre, Indira ha la disgrazia di non avere i genitori. I legami di sangue sono tutto per noi».

«Povera ragazza», disse Eliza, che sapeva bene cosa volesse dire crescere senza un padre. Indira doveva essere allo sbando: non aveva un padre, era stata abbandonata da sua madre; il senso di solitudine doveva essere stato terribile. Non c’era da stupirsi che si fosse tanto legata a Jay.

Entrambi si erano fatti silenziosi e, quando lei si voltò a guardarlo, subito Jay si voltò verso di lei.

«Cosa c’è?», le chiese.

«E tu sei così cieco da non renderti conto che lei è innamorata di te?».

Lui impallidì, poi aggrottò le sopracciglia e parlò come se lei non fosse lì.

«Non ha senso. È come una sorella per me».

Eliza emise un suono simile a uno sbuffo. Ci fu un attimo di silenzio teso.

«Solo l’attenzione del Thakur l’ha resa diversa dagli altri abitanti del villaggio. Se non fosse stato per la protezione sua e di sua nonna, sarebbe stata marchiata come dakan».

«E sarebbe?».

Jay le lanciò un’occhiata come a voler misurare la sua reazione.

«Una donna sospettata di stregoneria».

«Ancora, al giorno d’oggi?».

Lui annuì. «Quando una donna sospettata di essere una dakan fu trovata morta con un’ascia conficcata nella schiena, la nonna di Indi agì rapidamente e mandò la nipote alla reggia, con la miniatura originale e altre fatte da lei. Indi disse a Laxmi di non essere più sicura a casa e mia madre la accolse, dal momento che si sentiva in debito con sua nonna. Qui si sbarazzano delle streghe conficcando loro un’ascia nella schiena».

Eliza, allarmata, sentì un brivido. «Vuoi dire che avrebbero potuto uccidere anche lei? Intendevi questo, quando ti sei detto preoccupato per ciò che avrebbe potuto accaderle?»

«Indi ha talento, ed è molto bella. Le altre donne avrebbero potuto invidiarla».

Ricordando gli occhi di Indi, Eliza riuscì a capire perfettamente.

«E cosa è successo quando lei è arrivata alla reggia?»

«Ha iniziato come ancella, ma quando si è sparsa la notizia del suo talento, mia madre le ha affidato il compito di ritrarre ogni membro della famiglia reale. E lei è diventata gli occhi e le orecchie di mia madre. Ricorda che anche Laxmi è stata maharani. Non so esattamente come faccia, ma Indi è sempre al corrente di tutti gli intrighi del palazzo, i pettegolezzi e i complotti».

«Immagino che Laxmi sia stata una regina davvero meravigliosa».

«Lo era. E una madre meravigliosa… anche se a volte un po’ troppo meravigliosa».

L’ultima parte della frase era quasi un inciso ed Eliza non poté fare a meno di paragonare Laxmi, che quasi certamente aveva vissuto per i suoi figli, con l’apatia di sua madre Anna. Eliza non aveva mai pensato molto alla maternità e non le interessava.

Jay sembrò distrarsi per un attimo, indeciso sui due sentieri che gli si aprivano davanti, ma poi riprese il discorso che Eliza aveva iniziato in precedenza. «Benché gli inglesi non ci abbiano permesso di usare le parole “re” e “regina”. Un capo era ciò che mio padre doveva diventare. Ci hanno vietato anche di portare le corone perché erano privilegio esclusivo dei reali inglesi».

Eliza fece una smorfia. «Onestamente, è buffo, ma mi sento un po’ in colpa».

Lui la guardò candidamente. «Non devi. Anche noi abbiamo commesso i nostri errori. Se uno dei figli maschi di mia madre non le fosse succeduto al trono, lei, in quanto vedova, non avrebbe potuto godere dei privilegi del suo rango».

«Capisco».

«Adesso è meglio che andiamo». E riavviò la motocicletta. «Da questa parte, credo».

Dopo qualche chilometro, spense il motore e scese dalla moto. «Non ti allontanare da me, per favore», le disse appoggiando la moto a un albero. Voleva sembrare disinvolto, ma Eliza notò che aveva le spalle rigide e un’espressione cupa sul volto. Jay trovò un locale con cui scambiò rapidamente alcune parole; alzò la voce, ma l’uomo scosse la testa. Eliza udì uno strano verso soffocato e vide, in basso lungo la strada, una capra appesa per le zampe posteriori. Rabbrividì quando un uomo del villaggio armeggiò con una spada e decapitò l’animale.

Jay si voltò verso di lei. «Presto, torna nel sidecar».

«Ma ho appena visto un…».

«Non parlare adesso, dobbiamo sbrigarci», la incalzò lui, premendo una mano sulla sua schiena, quasi a spingerla via.

«Che sta succedendo?».

Mentre riaccendeva la motocicletta, Jay si voltò a guardare Eliza; il suo era uno sguardo angosciato. «Ti avevo detto che le vecchie usanze non sono scomparse, sono soltanto state nascoste».

«Sì».

«Sta per accadere qualcosa di terribile».

9

Jay si allontanò correndo furiosamente lungo la strada sempre più dissestata ed Eliza si aggrappò al sedile. La paura le si era annidata dentro, le premeva sulle costole. Il fatto di non sapere niente peggiorava le cose. Non aveva mai visto Jay tanto preoccupato. Lui viveva in un mondo a lei invisibile, un regno interiore, protetto; proprio come sapeva che non avrebbe mai potuto comprendere completamente il regno del Rajput, si rendeva conto che nell’animo di Jay c’erano strati e strati di profondità. Nascosto sotto i riti e i costumi della sua vita di principe, c’era qualcosa di importante, qualcosa che teneva tutto insieme. Si chiese cosa fosse mai e decise che avrebbe approfondito i suoi studi sulle divinità hindu. L’avrebbero aiutata a comprendere meglio quella gente, anche se per il momento non si trattava di fare chiarezza su una questione mistica o esoterica, ma solamente sulle questioni private di un altro essere umano che, di fatto, la stava escludendo.

«Per favore, spiegami», gridò lei. «Che sta succedendo?»

«Bruciano una vedova. Il Thakur aveva sentito delle voci, pensava che sarebbe accaduto domani, ma la nonna di Indira mi ha detto di venire al villaggio che abbiamo appena passato e ho capito che in realtà è oggi».

«Oh, mio Dio. Ma credevo che avessi detto che il suttee è illegale! Dobbiamo fermarli».

«È quel che intendo fare; anche se è illegale però, non significa che non si pratichi più. La gente sa che gli inglesi sono riluttanti a intervenire se si sceglie un luogo remoto».

Il sole, che nel frattempo era salito, picchiava su un paesaggio slavato diventato minaccioso nella sua desolazione. Prossima alle lacrime, Eliza avrebbe voluto trovarsi ovunque, ma non lì.

«Vedi, Eliza», stava dicendo Jay, «ti avevo avvisato che le vecchie usanze non erano scomparse, ma erano state semplicemente celate. Ecco contro cosa stiamo combattendo».

«Ma stanno bruciando una donna viva!».

«Non cambierà niente dall’oggi al domani».

Jay guidava in silenzio; Eliza ammirò la spoglia e desolata bellezza del limitare del deserto, soffrendo. Poi, poco dopo, il suono dei tamburi li avvertì che si stavano avvicinando al luogo incriminato. Jay scese dalla moto ed Eliza fece per seguirlo.

«No, resta qui. Potrebbe essere già troppo tardi».

«Vengo con te».

Lui rifletté un momento prima di risponderle. «Molto bene, ma dobbiamo correre».

Sebbene il mese di dicembre fosse considerato pieno inverno nel Rajputana, era di gran lunga più caldo dell’estate inglese. E dato che quel giorno non faceva eccezione, la fronte di Eliza era già imperlata di sudore.

«Copriti il capo con lo scialle e nascondi anche il viso più che puoi».

Si avvicinarono alla folla e il suono dei tamburi fu sostituito da una sorta di canto.

«E adesso cosa succede?».

Jay si fermò per un attimo. «Vedi laggiù, dietro quell’edificio, vicino all’argine del fiume?».

Eliza si girò per guardare un folto gruppo di persone parzialmente nascoste alla sua vista.

«Io devo andare laggiù, ma vorrei che tu rimanessi qui. Non c’è nulla che io possa fare, ma forse se dico loro chi sono, posso ancora riuscire a fermarli».

Eliza lo ascoltò e si fermò ad aspettarlo, almeno per un po’; dopo qualche minuto, quando Jay scomparve dalla sua vista e il canto non dava cenno di fermarsi, Eliza cominciò a tremare. Poi corse a cercarlo, finché non raggiunse un angolo appena oltre l’edificio da dove era venuto il tamburo di morte.

All’inizio, riuscì a vedere Jay che scuoteva il capo e discuteva a voce alta con un gruppo di uomini. Eliza non poteva scorgere la ragazza ma, a meno di venti metri, c’era un sacerdote, in piedi accanto alla pira funebre, che faceva oscillare un grande contenitore pieno di incenso. Un altro faceva suonare una campana, che si sentiva nonostante il suono dei tamburi, mentre altri due uomini stavano versando l’olio dalle brocche di terracotta sui ceppi di legno secco. Un altro uomo accese una torcia, poi l’avvicinò al legno impregnato d’olio e piccole fiammelle presero a levarsi nell’aria e poi si spensero. Solo quando le fiamme divamparono più intensamente, Eliza vide la ragazza che veniva condotta verso il fuoco. Fece un passo indietro e gridò, ma nessuno badò a lei. Tutti gli occhi erano puntati sulla figura leggiadra che veniva trascinata sulla pira. Tutto sembrava procedere ed Eliza, sconvolta, pensò che, nonostante avesse le mani legate, la fanciulla sembrava aver accettato il suo destino. Ma poi tutto cambiò, perché Jay voltò le spalle agli uomini per correre verso la ragazza, facendosi strada a spintoni tra la folla, fino a rompere il cordone umano.

Se prima il fuoco era basso e scoppiettante, all’improvviso le fiamme ardevano potenti. Il cuore di Eliza quasi si fermò quando Jay prese le mani della fanciulla e la trascinò via dalla pira.

I secondi passarono ed Eliza iniziò a sentire l’odore della paura della giovane, ne avvertì il terrore nei suoi stessi brividi. Jay lottava per allontanare la ragazza e per un attimo sembrò bruciare anche lui, ma poi tre uomini lo afferrarono e lo tirarono via. Lui cercò di divincolarsi e lanciarsi di nuovo a liberarla, ma quelli lo tennero stretto. Ormai le fiamme erano alte e circondavano la fanciulla, costringendola al centro della pira, da dove cercava di scappare. La giovane vedova gridò ripetutamente quando un gruppo di uomini e una donna anziana si misero attorno al fuoco e la spinsero di nuovo dentro le fiamme, usando lunghi bastoni per rimetterla supina, nella sua veste bianca. E ancora la giovane tentò di girarsi su un fianco e fuggire di lato, dove le fiamme sembravano più basse.

Un uomo sollevò una spada minacciando di colpirla e lei fu costretta a restare dov’era. Una grande folla assisteva silenziosa alla scena.

Eliza avrebbe voluto correre nel fuoco e trascinarla via, ma poi Jay finalmente si liberò e tentò di nuovo di raggiungere la ragazza, ma ormai era troppo tardi: in quell’istante le fiamme lambirono i suoi piedi; la sua gonna prese fuoco all’improvviso, poi lo scialle e infine i capelli, in un lampo di luce talmente vivida che Eliza non riuscì più a vederla. L’inferno l’aveva inghiottita. Eliza non era in grado nemmeno di vedere Jay, ma sentiva le grida, sempre più disperate. Spietata, una nuvola di fumo nero si alzò nell’aria, e con essa un odore che Eliza sapeva che non avrebbe mai dimenticato. Il vento si alzò, e il fuoco si elevò in vortici che danzavano nell’aria, portando con sé le grida strazianti della fanciulla, in alto, fino al cielo sempre più blu.

Eliza indietreggiò e poi iniziò a fuggire da quella scena orribile. Quando le urla della ragazza cessarono, Eliza udì solo il crepitare del fuoco. Piegata dal dolore, con le lacrime che le accecavano gli occhi, sentì le braccia di Jay che la avvolgevano e la allontanavano dall’odore della carne umana bruciata.

«Non avresti dovuto guardare», le disse.

Lei si divincolò e iniziò a battergli i pugni sul petto. «Perché è successo? Perché?».

Jay la abbracciò, stringendola più forte, e lei notò che si era ustionato una mano.

«Sei ferito».

«Non è niente».

«Ho visto cos’hai tentato di fare».

Lui scosse la testa. «Troppo tardi. Speravo che li avrei convinti a parole. Avevano nascosto la ragazza, pensavo di avere più tempo».

Poi le mise un braccio sulle spalle e l’aiutò a tornare indietro verso la motocicletta.

Eliza salì sul sidecar, mentre il suo cuore batteva all’impazzata, al ritmo del tamburo che aveva di certo chiamato quella fanciulla alla morte, e pianse. Poi, dopo essersi ripresa un po’, guardò Jay, che aveva le braccia piegate sul manubrio e la fronte appoggiata sulle mani. Il dolore le bruciava nel petto, come se fosse stata la sua voce a gridare straziata, e non quella della ragazza.

«Era così giovane», disse lui.

Eliza non replicò, inspirò l’aria sforzandosi di respirare normalmente.

«Non andremo a casa. Ti porterò al mio palazzo. È a un’ora soltanto dalla reggia di Juraipore, ma staremo più tranquilli. Potremo parlare liberamente, alla reggia non sarebbe possibile».

«Non c’è nulla di cui parlare», riuscì a dire Eliza tra i singhiozzi sommessi, che, da un momento all’altro, minacciavano di trasformarsi di nuovo in un pianto disperato.

«C’è molto da dire, ma prima devi superare il trauma per aver assistito in prima persona a questo episodio. Io ho già visto cose analoghe».

Non parlarono più per tutto il viaggio e, dopo circa un’ora, giunsero a quello che lei riconobbe immediatamente come un palazzo dalla bellezza ormai sbiadita. Jay la condusse oltre un grande cancello che interrompeva un muro alto e lungo, poi in uno splendido cortile circondato su tre lati da edifici di pietra dorata, su due dei quali si aprivano delle porte.

«Le zone della servitù, le scuderie e i depositi», spiegò lui.

Sul palazzo di fronte al cancello c’era una veranda con colonne, che si estendeva lungo tutta l’antica costruzione a due piani. Doveva esserci anche dell’acqua lì, perché, al contrario dei luoghi circostanti, quel cortile era particolarmente verde e fiorito, con rose e petunie sparse che spuntavano rigogliose dalle aiuole tutt’intorno. Un albero alto, ricco di fiori gialli e foglie lunghe, svettava al centro e regalava una gradevole ombra alle due panche sottostanti.

«È un albero di cassia o senna siamese», spiegò Jay quando vide che Eliza guardava la pianta.

«Può raggiungere i venti metri d’altezza. Questo ancora non è tanto alto. Usiamo questi alberi per ricavarne mobili e attrezzi. Ce ne sono altri nei giardini dall’altra parte», disse lui, indicando genericamente oltre il colonnato.

Mentre entravano nell’edificio, attraverso una galleria aperta e una terrazza sul retro di una scala esterna, Eliza vide gli ampi giardini e quello che doveva essere un frutteto. Respirò il profumo dell’erba verde che si diffondeva nella freschezza dell’aria. Anche se non aveva idea di come sarebbe riuscita a superare l’orrore e il disgusto, portarla in quel rifugio tranquillo era stato un gesto gentile e premuroso da parte di Jay.

Si fermò un momento per guardare in lontananza e ammirare la terra sul retro che digradava dolcemente. Jay le mostrò una camera da letto al primo piano. «Quando farà più fresco e ti sentirai pronta, raggiungimi alla terrazza di sotto». Le strinse la mano. «A più tardi».

Eliza si stese su un letto dove nessuno doveva aver dormito da molto tempo. Riusciva a distinguere l’odore di naftalina e anche un profumo leggero che le ricordava quello di Laxmi. Forse quella era stata la stanza della madre di Jay? La camera comprendeva anche un piccolo salotto, che Jay aveva chiamato dari khana, con un grande tappeto sul pavimento e molti cuscini.

Eliza cercò di pensare ad altro, ma le grida disperate della giovane continuavano a risuonarle nella testa, ancora e ancora. Straniera in terra straniera, aveva sperato che tornare lì l’avrebbe aiutata a ritrovare la sua via, ma di fatto le sembrava di sprofondare. Quello non era un mondo adatto a lei, come a nessuna donna del resto, pensò, e non poté fare a meno di chiedersi se fosse al sicuro. Dopotutto, anche lei era vedova. Come doveva essere morire in quel modo agonizzante? Avrebbe provato il dolore, la paura, la crudeltà feroce più orrenda e inimmaginabile?

La luce del giorno sbiadiva e il cielo sfumava nei toni del lilla e del rosa. Eliza andò a cercare Jay e lo trovò che sorseggiava un whisky, comodamente adagiato su una sedia di vimini sotto le arcate della terrazza, che formavano una sorta di porticato sul retro dell’edificio, più piccolo e raccolto rispetto a quello che si apriva sulla facciata. Si passò una mano tra i capelli, con aria indolente, per scostarli dal volto. Poi si strofinò la fronte ed Eliza notò che era sporca di fuliggine.

«Vivevamo qui la maggior parte del tempo, prima», spiegò Jay, e agitando la mano bendata le chiese: «Vuoi bere qualcosa?».

Un maggiordomo le offrì una bibita e lei si sedette su una sedia di fronte a Jay. L’oscurità era ormai scesa e la luna iniziava a illuminare con la sua luce argentea il giardino, da dove salivano i profumi della notte, della terra e di altri aromi intensi diffusi nell’aria. Avrebbe potuto perdersi in quell’aria dolce, ma poi Jay iniziò a parlare.

«Un paio di settimane prima che mio nonno morisse, mia nonna smise di mangiare e di bere. Badava a suo marito, lo accudiva e lo nutriva, ma una notte la sentii cantare Ram-Ram ripetutamente. Mio nonno era appena morto, quando lei aveva annunciato che avrebbe commesso il suttee quando lui fosse stato cremato, il mattino successivo. Credeva che fosse disonorevole per una moglie sopravvivere al proprio marito».

Si mise in tasca una scatola di fiammiferi che stavano sul tavolino, si alzò in piedi e scelse una lunga candela da un contenitore metallico attaccato al muro. Prese la scatola di fiammiferi, ne sfregò uno e con quello accese la candela, con la quale illuminò una coppia di lampade fissate al muro esterno; l’odore dell’olio bruciato riempì l’aria, la luce ondeggiò ed Eliza fissò il fumo nero che saliva.

«E tu eri lì?»

«Ero lì con mia madre. Lei sapeva che suo padre non sarebbe vissuto ancora a lungo. Dopo la morte del nonno, mia nonna si lavò e indossò l’abito con cui si era sposata, poi rimase accanto al corpo di mio nonno per tutta la notte, con l’ululato dei cani come unica compagnia. Quando sorse il sole, arrivò anche il suo devar, il fratello del marito, che doveva eseguire gli ultimi rituali. Quando una sati va al rogo, è accompagnata dalla gente, perciò la folla aveva già iniziato a radunarsi».

«Tu hai visto tutto?».

Jay guardava fuori, nell’oscurità, poi si voltò verso di lei, con gli occhi tristi, privi di luce, ma con le labbra tese in un sorriso amaro.

«La nonna mi aveva mandato a chiamare, ma mia madre intercettò il messaggio e mi ordinò di restare chiuso nella mia stanza. Mia madre non avrebbe approvato, io però dovevo vedere. Perciò scappai dalla finestra. Amavo entrambi i miei nonni». Fece una pausa e deglutì prima di riprendere. «A volte le donne vengono legate, ma non nel caso di mia nonna. Quando infine arrivai, le fiamme erano già alte e non riuscii nemmeno a vederla, tuttavia la sentii. Stava cantando Ram-Ram e cantò finché non morì. La gente la adora ancora oggi».

Eliza tacque. Osservò i suoi tratti, spigolosi, cesellati dalle ombre alla luce delle lampade a olio, e riconobbe il dolore e l’angoscia ancora incisi sul suo volto. Come aveva fatto a non notarlo prima? Ma poi lui curvò le spalle e si rinchiuse in una sorta di silenzio interiore, chinando il capo e guardandosi le mani. Aveva un muscolo della mascella contratto. Che cosa orribile a cui assistere, per un bambino; doveva averlo segnato, proprio come la morte di suo padre aveva segnato per sempre lei.

«Quanti anni avevi?»

«Tredici anni. Accadde una settimana prima del mio quattordicesimo compleanno. Durante le vacanze, altrimenti sarei stato in Inghilterra, a scuola».

Lo guardò con le lacrime agli occhi, commossa e piena di compassione per il bambino che era stato. «E immagino che tu non l’abbia detto a nessuno, quando sei tornato a scuola».

Lui scosse la testa e la guardò di nuovo. Eliza aveva la sensazione che riuscisse a vedere la sua anima, e lei quella di lui. Poi Jay distolse lo sguardo.

«Già mi ritenevano un selvaggio, un animale. Mia nonna adorava suo marito e fu devastata dalla sua morte, ma a parte mia madre nessuno provò a dissuaderla. Suo cognato era molto preoccupato, perché, se lei non avesse compiuto quel gesto, avrebbe disonorato il nome della famiglia».

«Perché le donne lo permettono?».

Lui scrollò le spalle. «Alcune lo vedono ancora come un’ultima forma di devozione e sacrificio femminile. La nonna voleva restare con suo marito nella vita successiva, e quello era l’unico modo per riuscirci».

«Ma è un crimine contro le donne».

Jay la guardò di nuovo con una tale tristezza negli occhi che lei desiderò ardentemente poterlo confortare, ma non poteva tacere.

«E se non esistesse nessun’altra vita successiva, Jay?».

Lui sospirò profondamente, però sostenne il suo sguardo.

«Le donne valgono così poco?», continuò Eliza.

«Quelle che vogliono diventare sati ne parlano come un atto di devozione volontaria. Io e te potremmo anche dire che hanno fatto loro il lavaggio del cervello, di sicuro hanno interiorizzato le antiche credenze. La scelta era tra l’essere arsa viva o vivere come una moglie fallita».

«Senza alcuna coercizione?».

Lui sbuffò e spostò lo sguardo; per un momento Eliza pensò che l’incantesimo si fosse spezzato.

«Oh, sì. I sacerdoti, che ricevono beni di valore dalle donne, le incoraggiano, così come i parenti di entrambe le famiglie, che vogliono accaparrarsi i gioielli; in alcuni casi, le vedove devono essere drogate con il bhang, che tu conosci come marijuana, o oppio, oppure legate al cadavere del marito con le corde, bloccate con dei pesi. Tuttavia, anche se la vita da vedova è dura, molte hanno cercato di fuggire. E quando ciò accade, la disgrazia ricade sull’intera famiglia».

«Dunque, l’attaccamento alla vita è più forte dei legami di famiglia o di qualsiasi promessa di immortalità?»

«Sì».

«Ma alcune ci credono fermamente, come tua nonna?»

«Penso di sì. Per alcune di loro si tratta di una scelta profondamente spirituale; è difficile da comprendere, non è vero? Ma accade per molte ragioni, non è solo un’imposizione religiosa; talvolta donne depresse o disperate se ne servono per suicidarsi, cosa che naturalmente sarebbe illegale».

«Sembra tutto legato a una visione idealizzata della donna».

«La vostra cultura non è poi tanto diversa, anche se siete meno estremi».

«Noi non bruciamo le donne». Nonostante la tristezza dipinta sul volto di Jay, Eliza gli rivolse un’occhiata tagliente. «E l’infanticidio femminile non si pratica in Inghilterra».

«Forse non più, ma torna indietro nel tempo. Lo sapevi che dopo la messa al bando britannica, ci sono stati ancora più casi di suttee?».

Lei scosse la testa e tra loro cadde un silenzio imbarazzato.

«Cosa farai?»

«Lo dirò ad Anish e poi a Chatur, ma entrambi non faranno nulla. Poi parlerò anche con Clifford Salter. Gli inglesi cercheranno i colpevoli, solo che saranno introvabili. Gli abitanti del villaggio li copriranno».

«Ma tu potresti identificarli».

«Gli inglesi non indagheranno poi molto a fondo, sanno già che il suttee è ancora praticato».

«Chissà perché in tutto il mondo le donne sono, e sono state, tanto maltrattate», mormorò lei, in preda a un’angoscia difficilmente gestibile.

Lui scrollò le spalle. «Una domanda antica come il mondo, di cui non conosco la risposta».

Eliza si rese conto di essere estremamente vicina al baratro, ma al tempo stesso, se aveva intenzione di rimanere lì, sarebbe stato importante comprendere meglio l’India, e non semplicemente giudicarla.

La notte copriva il giardino come una coltre. Eliza non riusciva a distinguere più nulla, ma sentiva lo scricchiolio dei rami e degli animali che camminavano sul terreno, ed esitò prima di parlare di nuovo, temendo che, se avesse fatto una mossa di troppo o detto la cosa sbagliata, le fondamenta della sua vita si sarebbero sgretolate. Negli occhi tristi di Jay lei rivedeva se stessa, e per quella ragione voleva donargli qualcosa di suo. Aveva sempre pensato che se non avesse parlato a nessuno di suo padre si sarebbe protetta, ma aveva vissuto sotto una campana di vetro che stava iniziando a creparsi.

Alla fine interruppe il silenzio e lo guardò dritto negli occhi. «Mio padre è morto quando avevo dieci anni», confessò, con il cuore che le martellava nel petto.

«Mi dispiace».

E i suoi occhi dicevano il vero.

«Anch’io ho assistito alla sua morte».

10

Eliza aprì gli occhi in una mattina dorata; l’aria era così dolce da sembrarle irreale, quasi che l’incubo si fosse misericordiosamente dissolto alla luce del giorno, fatta eccezione per l’odore. Dal momento che la notte prima era crollata sul letto ancora vestita, si tolse gli indumenti ai quali s’era aggrappato l’odore del sacrificio umano e trovò una vestaglia in un guardaroba scuro. Se l’avvolse attorno e andò sulla terrazza a cercare Jay.

Fuori la giornata era talmente immobile che non frusciava neppure una foglia, ma il profumo delle erbe aromatiche, del gelsomino e di qualcosa di simile al caprifoglio riempiva l’aria. Notò che l’arco che delimitava la terrazza era color sabbia e che scintillava alla luce del sole. La sera prima non aveva fatto caso al colore.

«Se solo potesse essere sempre così», disse quando vide Jay al seguito del maggiordomo, che procedeva portando un vassoio con il caffè.

«Così come?»

«Pieno di pace».

Jay guardò il cielo come a cercare una risposta e poi posò lo sguardo su di lei.

«Il mio cuore è qui», le disse, emozionato. «È qui che vengo quando la vita mi sembra impossibile. Qui è dove sono nato».

«La stanza che mi hai dato era quella di tua madre?».

Lui annuì, senza smettere di fissarla. «Noi tutti abbiamo il cuore spezzato. Tu, io, Indi. È questo che ci unisce».

Quando lui si smarrì nei suoi pensieri, Eliza convenne che era vero.

Aveva la barba incolta, indossava gli abiti del giorno prima, sporchi di sabbia e di fumo e, anche se il suo volto era pulito e non c’era più la fuliggine, sembrava in qualche modo perso.

«Hai bisogno di abiti puliti?», le chiese. «Io di sicuro».

Eliza annuì.

«Posso procurarteli».

«Avrei anche bisogno di lavarmi i capelli».

Eliza, a differenza di Clifford, non credeva che gli inglesi fossero stati sensibili nei confronti delle usanze locali, ma fino a quel momento aveva creduto che avessero avuto la ragione dalla loro; eppure, se voltavano le spalle a simili orrori, erano anch’essi colpevoli. Avevano di sicuro preso il potere sedando le ribellioni, ma in realtà che diritto avevano di stare lì? Quel pensiero spaventoso le fece male all’anima. La misoginia aveva molte facce nei diversi Paesi del mondo, ma nessuno meritava di essere bruciato vivo, arso come se fosse nient’altro che un pezzo di carne. Nessuno.

Guardò il bel giardino rigoglioso, e ne percepì la calma e la tranquillità. Era selvaggio e affascinante, con i sentieri ben tenuti e tanti fiori – rose rampicanti, gelsomini e altre varietà che non conosceva – che crescevano ovunque.

Non era difficile capire che sarebbe potuto diventare ancora più splendente, magari aprendo la vista sul panorama. Da qualche parte doveva esserci dell’acqua, e forse era per quel motivo che il terreno era in pendenza. Decise di chiedere.

«La maggior parte è acqua piovana raccolta in piccoli serbatoi. Ci sono dei fiumiciattoli, o nallah, che convogliano le piogge e noi qui abbiamo i pozzi. Ma dovremmo fare di più, costruendo dighe, serbatoi e cisterne. Di fatto abbiamo bisogno di opere di irrigazione, però non so ancora bene cosa fare».

«Non vuoi fare la differenza nella vita delle persone?».

Lui si accigliò, ma quell’ultima domanda doveva averlo colpito molto.

Eliza continuava a pensare all’acqua. Forse non avrebbe potuto fare nulla per la condizione femminile, ma pensare ad altre maniere in cui aiutare le persone la faceva sentire meglio.

«Ci dev’essere un modo per aiutare la gente».

«Faccio tutto ciò che posso, do lavoro ai locali, consento loro di venire a prendere l’acqua dal nostro pozzo, ma è mio fratello che deve mettere tasse più eque, e non lo farà».

«E che dire dell’irrigazione?»

«Be’, come ho detto…».

Ma lei lo interruppe. «Di certo potresti far costruire qualche sistema idrico», disse.

«Ci ho pensato».

«Ma qui. È il posto perfetto. Sulla tua terra, nel punto in cui digrada, potresti realizzare un lago, e magari altre strutture più in là».

«Pensi forse che io sia fatto d’oro? La motocicletta sarà anche mia, ma, Eliza, l’automobile è di mia madre. Ho questo bel palazzo antico, però posso appena permettermi di ristrutturarlo e di viverci bene; di certo non potrei mai permettermi di finanziare un progetto d’irrigazione».

«Allora raccogli i fondi. Se c’è la volontà…». Si fermò un istante, ma poi non riuscì a tacere. «La vedi la povertà della gente?»

«Certo».

«No, Jay. Non credo, vedi ciò che vuoi vedere; tuttavia, svilupperò le fotografie che ho scattato ieri e vedrai le cose con occhi diversi. Non potrai ignorarle così facilmente quando le vedrai stampate nero su bianco. È tempo di agire, di fare qualcosa».

«Parli come il mio amico Devdan».

«Be’, se il suo scopo è quello di fare qualcosa di significativo per colmare le disuguaglianze qui, allora sono dalla sua parte. Tu hai l’acqua, è da lì che deve partire».

«E il denaro?»

«Raccoglilo. Io farò tutto il possibile».

Eliza apprezzò il palazzo di Jay, un luogo speciale dove ritirarsi, rinfrancare la mente e l’anima. Nonostante ciò a cui aveva assistito, si sentiva come se avesse fatto un passo verso qualcosa che aveva perso e iniziava a ragionare in modo diverso. Non avrebbe saputo spiegare cosa fosse. Senso di appartenenza, forse, anche se era strano a dirsi, dopo aver assistito a una tradizione che doveva farla sentire ancor più un’estranea.

Dopo aver fatto colazione con una specie di torta a base di latte cagliato e miele, tornò nella sua stanza, dove erano stati preparati una serie di abiti indiani; inoltre, scoprì che un bacile di acqua tiepida era stato sistemato sul piccolo lavandino. Si lavò i capelli per liberarsi finalmente da quel terribile odore, ma non riuscì a impedirsi di piangere ancora al pensiero della giovane donna. Per lei non ci sarebbe stato più nessun bagno ai capelli, nessun figlio, nessuna vita. Lasciò i capelli sciolti e bagnati, si vestì, e poi trovò Jay seduto in una stanza al piano inferiore, poco arredata ma luminosa e ariosa, con le pareti che brillavano come gusci d’uovo.

Le sorrise e si alzò quando la vide. «Hai dei bei capelli».

«Questi?», chiese sollevando le ciocche bagnate.

Jay rise. «Quando sono asciutti, hanno mille colori. A volte sono dorati, a volte sembrano di fuoco».

«Tutto fuorché color cammello, dopotutto».

«Sono stato scortese, perdonami».

Lui la guardò negli occhi e, per un momento, Eliza pensò che avrebbe potuto perdonargli qualsiasi cosa.

«Pensavo che fossi l’ennesima inglese arrivata per guardare a bocca aperta noi selvaggi».

«Non sono mai stata così».

Camminavano e parlavano. Per prima cosa, Jay la portò alla splendida veranda colonnata. Si trattava di una loggia, o di un portico largo, che conduceva a una terrazza affacciata su un lato del giardino di sotto. Gli archi erano ogivali e le colonne di rinforzo scolpite con fiori intagliati e foglie delicate. Alcune decorazioni si erano spezzate, ma la pietra era di un morbido color oro.

«Qui nel Rajputana c’è abbondanza di arenaria, ardesia, marmi e altre pietre. Le cave di Makrana hanno fornito gran parte del marmo del Taj mahal di Agra. Inoltre, abbiamo anche il calcare di Jaisalmer e la pietra rossa, quella usata per il Forte rosso a Delhi. L’hai visto?»

«Sì. Tra l’altro, mi piacerebbe molto tornare a Delhi. Come sai, vivevo lì con la mia famiglia. Può darsi che prima o poi io debba andarci a ritirare le mie stampe».

«Assicurati di stare all’Imperial, dove alloggiano tutti gli inglesi».

Lei annuì; poi passarono attraverso una grande porta che li condusse nella più stupefacente delle stanze, con un soffitto alto il doppio delle altre e dove la luce entrava da finestre che lei non riusciva nemmeno a vedere.

«Sono sopra gli archi», le spiegò Jay, seguendo il suo sguardo.

Il modo in cui la luce illuminava la parte superiore della stanza faceva pensare che il sole fosse stato creato solo a quello scopo e l’altezza del soffitto era tale che le loro voci sembravano salire al cielo, per poi tornare in basso, cambiate.

«Questa è una sala per i ricevimenti, ma stai attenta al pavimento».

Abbassò lo sguardo e vide che il pavimento era rotto e sgretolato in più punti.

Jay si fermò un attimo. «Vuoi parlarmi di quello che è successo a tuo padre?».

Eliza chiuse gli occhi per un secondo e, quando li riaprì, lui la stava guardando con un’espressione tanto dolce e gentile che le venne da piangere.

«Accadde il ventitré dicembre del 1912. Non potrò mai dimenticare quel giorno, perché lui era seduto su uno degli elefanti che seguivano immediatamente quello del viceré, alla testa di una processione. Mia madre e io eravamo tanto orgogliose. Delhi sarebbe succeduta a Calcutta come sede del governo britannico, era il giorno in cui il viceré faceva il suo ingresso trionfale nella città, in base al cerimoniale di Stato».

Jay la guardava attentamente e i suoi occhi sembravano preoccupati. «Va’ avanti».

Lei si concentrò per rispondere con calma.

«Qualcuno fece esplodere una bomba. Io e mia madre guardavamo la processione dal nostro balcone; vidi mio padre cadere, e quando scesi, scoprii che la bomba l’aveva ucciso». Fece una pausa e lui allungò una mano verso di lei.

«Fu colpa mia. Gli avevo chiesto di fermarsi a salutarmi. Se non l’avesse fatto… Comunque, scesi e gli gettai le braccia al collo. Gli dissi che gli volevo bene. Per molti anni ho creduto che mi avesse sentita. Qualcuno mi aiutò, ma il mio vestito bianco era sporco del suo sangue».

«Eliza, so che sembra una domanda strana, ma tu credi al destino?»

«Non sono neanche sicura di sapere cosa sia», rispose lei.

«Crediamo di poter modificare il nostro destino, ma ci sono cose che sembrano dover accadere, che non hanno altra opportunità se non quella di accadere».

«Per esempio?».

Jay sembrava intento a valutare se dirle qualcosa di molto serio, ma alla fine decise di non farlo.

Le sorrise, poi agitò la mano nell’aria con noncuranza. «Significa qualcosa di diverso per ciascuno di noi, suppongo. Io mi chiedevo solo cosa significasse per te».

Più tardi, Jay la condusse attraverso il giardino fino alle scuderie sul retro del palazzo. Eliza si domandò come mai non fossero già di ritorno a casa e glielo chiese.

«Tu sai andare a cavallo?», le domandò con il viso illuminato dal sole.

«Sono un po’ arrugginita».

Jay le lanciò un’occhiata. «Pensavo che potremmo fare una breve escursione al di fuori della pista battuta».

Uno stalliere salutò Jay, e lui ricambiò il saluto con affetto, poi il ragazzo portò fuori due cavalli. Nel frattempo, Eliza stava ancora riflettendo sul destino e sul perché lui le avesse chiesto cosa ne pensava. Decise infine che gliel’avrebbe domandato in seguito.

«Cavalli del deserto», le spiegò, all’oscuro delle sue riflessioni. Eliza rimase meravigliata da quelle magnifiche teste che si alzavano sui colli arcuati dei due animali, così come dalle orecchie eleganti e curve; tuttavia, ciò che davvero attrasse la sua attenzione furono le ciglia lunghe e le narici frementi.

«Il cavallo del deserto discende dai cavalli arabi».

«In realtà, preferirei fare l’escursione un’altra volta. Ho bisogno di tornare alla reggia per sviluppare le mie pellicole prima che si rovinino. Ti dispiace?»

«Solo un giretto? Non aver paura, il tuo è molto docile».

Si sentiva combattuta tra il desiderio di trascorrere più tempo assieme a lui e la preoccupazione per le sue capacità di cavallerizza. «Ti sarei d’impaccio».

Jay semplicemente le sorrise e lei comprese che un rifiuto sarebbe stato inutile, quindi annuì nervosa. L’ultima volta che era andata a cavallo era un’adolescente, ma dato che iniziava a sentire di aver trovato qualcuno di cui potersi fidare in quel mondo alieno, non poté resistere alla tentazione di trascorrere altro tempo in sua compagnia.

«Vogliamo provare prima senza sella? Se non l’hai mai fatto prima, ti sembrerà fantastico. Ti aiuterà a cancellare il terribile ricordo di quello che è accaduto ieri».

Eliza non disse nulla, ma pensò che non avrebbe mai potuto dimenticare.

«Si crea un legame molto più stretto con l’animale. Vuoi provare? Non potrai salire usando la staffa, però».

Eliza lo guardò senza rispondere e lui interpretò il suo silenzio come un assenso, perciò si avvicinò per aiutarla a montare a cavallo, a cui lei si sedette in groppa con il cuore in gola.

«Guarda me», disse lui, già in groppa al suo animale. «Devi sistemarti un po’ più avanti e posare le gambe più in là, senza premere i tacchi o i polpacci sui fianchi del cavallo quando rallenta o si ferma. Non essere nervosa». Ma Eliza non voleva mettere la sua vita nelle mani dell’animale.

«Andrà tutto bene. Fidati del tuo cavallo, altrimenti sentirà la tua paura. Rilassati e goditi la cavalcata».

Prima di muoversi, lo guardò. «Cosa intendi tu per destino?».

Lui scrollò le spalle. «Da queste parti pensiamo sempre al destino».

Ma la sua risposta non la soddisfece, e qualcosa nel modo in cui lui sfuggiva al suo sguardo le fece credere che doveva esserci un altro motivo per cui lui aveva sollevato l’argomento poco prima. C’era qualcosa che non voleva dirle. Partirono con un’andatura tranquilla e, anche se non stavano andando veloce, le mani di Eliza iniziarono a sudare. Superarono alcuni villaggi afflitti dalla povertà e vide la miseria che gridava in quel paesaggio appassito, cosa che la fece pensare a come l’acqua avrebbe potuto cambiare le vite di quelle persone. Poi gradualmente, mentre oltrepassavano i villaggi, con il vento tra i capelli, iniziò a godersi la cavalcata nella terra ruvida e magica del Rajputana. Aveva anche iniziato a sentirsi più in simbiosi col suo cavallo.

Jay fu di parola: la corsa fu breve e in men che non si dica lei era già al suo fianco nel sidecar.

«Ti è piaciuto?», le chiese prima di avviare il motore della motocicletta.

«Lo sai, mi sono sorpresa di me stessa». Era vero. Anche se le urla disperate della ragazza riecheggiavano ancora nella sua mente, la cavalcata l’aveva aiutata a rilassarsi. Lui scoppiò a ridere ed Eliza lo guardò. «Dovresti vedere la tua faccia», le disse. «Hai tutte le guance arrossate. Volevo rapirti e portarti nel mio regno privato e farti prigioniera».

«Hai un regno privato?», fu tutto ciò che lei riuscì a replicare, poi guardò lontano, non sapendo bene se per l’imbarazzo o per il battito accelerato del suo cuore, a cui non voleva dare importanza.

11

Tornata alla reggia, la prima persona che incontrò fu Indira. La luce filtrava dalle finestre del corridoio, tracciando disegni luminosi sul pavimento e, quando Eliza li guardò, sentì di non essere all’altezza di tanto fulgore.

«Sei stata fuori più del previsto», notò Indi, e le sorrise, anche se sembrava contrariata mentre camminavano assieme attraversando le stanze del pianterreno.

«Sì».

Indi si fermò, Eliza, invece, proseguì.

«E come mai? Serve solo un giorno per andare fino al mio villaggio e tornare».

Pensando che la ragazza fosse semplicemente curiosa, Eliza si voltò per guardarla. «È accaduto qualcosa».

«Con Jay?».

Il cuore di Eliza sussultò. Forse aveva sperato di poter parlare con Indira di quello che era successo ma, sconvolta dai suoi occhi freddi che la fissavano, si rese conto di non poterlo fare.

«Preferirei non parlarne».

«Sei stata al suo palazzo?»

«Sì, nella vecchia stanza di Laxmi, credo».

«Ora è la camera di Jay».

«Non lo sapevo».

«E lui dove ha dormito?»

«Non lo so. Ora scusami, devo sviluppare le mie pellicole». Fece due passi, ma Indi la raggiunse e la prese per una manica.

«Questi non sono i tuoi vestiti. Cos’è successo ai tuoi abiti?».

Indira strinse gli occhi e assunse lo stesso aspetto geloso e sospettoso che Eliza aveva notato durante la festa. Stupita per l’aperta ostilità della fanciulla, Eliza balbettò una risposta sconnessa.

«Io… Io…».

«Ti ha lasciato la sua camera da letto. Sei una privilegiata. A me non l’ha mai data».

Eliza si indignò per il tono di Indira. Non avrebbe permesso a quella ragazzina di rivolgersi a lei in quel modo. «Mi dispiace, ma non è colpa mia. E adesso, per piacere, devo proprio andare». Se la tolse di torno e riuscì ad allontanarsi, ma il breve scambio con lei le lasciò l’amaro in bocca. Non voleva davvero farsi nemica Indira.

Anche se ci stava provando, non riusciva a togliersi dalla mente il suttee. Non era solamente l’orrore di ciò che aveva visto ad attanagliarle il cuore, era soprattutto l’odore terribile che era entrato dalle narici ed era rimasto dentro di lei. Decise che doveva parlarne con qualcuno; un inglese, che avrebbe compreso appieno come si sentiva. Così uscì di soppiatto, prese un risciò, e un quarto d’ora dopo era seduta sul sofà di Dottie e sorseggiava un buon tè in una tazza di fine porcellana cinese.

«Be’, devo dire che è davvero un piacere», disse Dottie. «Io non so mai come impiegare il mio tempo, mentre suppongo che tu non abbia questi problemi».

Eliza scosse la testa, ma la stava ascoltando a malapena. La normalità di Dottie e di tutto ciò che era inglese attorno a lei, la stupì: la ciotolina di piselli dolci sul tavolino da caffè, il pianoforte all’angolo, i quadri con i cani da pastore e le tendine a fiori, di tessuto liberty, giudicò. Quella vista le fece scuotere il capo in preda a un’ondata di nostalgia.

«Ho bisogno di parlarti», le disse. «La mia testa sta andando a ruota libera e non so più cosa pensare o come sentirmi». Avvertì un nodo in gola e fece un bel respiro. Sarebbe riuscita a confidarsi? Le parole sembravano inadatte a descrivere la crudezza di un tale supplizio.

«Certamente».

Eliza guardò il viso gentile di Dottie. «Se te ne parlo, non sono esattamente sicura di chi dovrebbe sapere questa storia».

Dottie sembrava perplessa.

«Io…». Eliza si fermò. «Ho visto una cosa».

«Sì?»

«Una donna arsa viva».

Dottie si morse il labbro. «Che orrore. Un incidente?»

«No. Tu non… ». Respirò. «Era una vedova arsa viva».

Dottie si portò la mano alla bocca e impallidì. «Mio Dio! Non so che dire. Devi essere sconvolta».

«Credo di sì. Pensavo di stare bene, ma continuo a sentire l’odore della sua carne che brucia e non riesco a togliermelo dalla mente. Dottie, è stata la cosa più straziante che io abbia visto in vita mia».

«Oh, mia cara».

Eliza singhiozzò.

Dottie si alzò e prese a camminare per la stanza. «È contro la legge, quindi per prima cosa dobbiamo dirlo a Clifford, e poi…».

«No», s’intromise l’altra. «No, per favore, lascia che sia Jay a riferirglielo. Ha detto che accade ancora e le autorità non fanno assolutamente nulla. Mi chiedevo proprio se non sia meglio che lui risolva la questione dall’interno, senza coinvolgere gli inglesi».

Dottie la guardava sempre più sconvolta. «Di certo non ti ha portato lì per assistere!».

«No. Stavamo andando da un’altra parte e ha cercato di fermare la cerimonia».

«E poi?»

«È stato molto coraggioso, si è anche bruciato una mano, ma…». Un altro singhiozzo. «Era troppo tardi per fermarli».

Dottie si diresse allo stipetto degli alcolici e girò la chiave. «Mi sa che qui ci vuole qualcosa di più forte di un tè. So quel che faccio». E prese una bottiglia. «Un po’ di brandy?».

Eliza annuì e Dottie versò due bicchierini pieni di liquore ambrato, scolandosi il suo in un sol sorso, mentre si sedeva sul sofà accanto a Eliza.

«Cristo, che gente», commentò Dottie. «Non m’interessa la loro religione; questo è un abominio. Una barbarie». Scosse la testa. «Proprio quando credi di esserti ambientata, ecco che accade una cosa del genere».

«Ma io credo che non ci sia niente di simile a questo, è che… Non so che fare. È stata la cosa più orrenda che io abbia mai visto».

Chinò il capo e sentì le lacrime che le bruciavano gli occhi.

«Ne sono certa».

«Mi sento così male». Si piegò in avanti e nascose la faccia tra le mani; Dottie le carezzò la schiena.

«Povera, povera ragazza mia».

Eliza si voltò per guardare Dottie. «Jay dice che il suttee è stato nascosto sotto il tappeto e che, anzi, è stato praticato ancora più spesso dopo che lo hanno dichiarato illegale. Deve essere Jay a fare la denuncia. È meglio che la faccia lui».

«Ti ha detto lui di dire ciò?».

Eliza la guardò. «No, ovviamente no».

«Perché si tratta di omicidio, Eliza. Non si può tenerlo nascosto».

«Ormai è fatta. Meglio che vada. Per favore, tienilo per te per il momento. Non voglio che Clifford sappia che ero lì; biasimerebbe Jay e proverebbe a limitare la mia libertà».

Dottie le prese una mano. «Cara, non posso lasciarti andare via in questo stato. Sei davvero scossa. Rimani e mangia qualcosa. Magari un sandwich, vuoi?».

Più tardi, quel pomeriggio, Eliza si diede da fare nella camera oscura e, una volta finito il lavoro, rimase assorta a ripensare a ciò che aveva visto e ciò che aveva detto Dottie. Quando le tornava in mente Jay, provava un sentimento tenero, più affettuoso di prima. Voleva chiedergli del destino e non smetteva di pensarci. Era forse come il fato, qualcosa su cui non si ha alcun controllo? Se così fosse stato, non sarebbe mai stata d’accordo con una visione tanto fatalistica della vita.

Pensò anche a Indira. Avrebbe dovuto trovare un modo per favorire la sua amicizia con lei, non la competizione.

In seguito, si spogliò e si sdraiò sul letto ad ascoltare il canto degli uccellini fuori dalla finestra. All’inizio le voci del passato non volevano lasciarla andare. Prima suo padre, che le prometteva che l’avrebbe salutata, poi Oliver, poco prima di uscire di casa, sbattendo la porta sul loro matrimonio e sulla sua vita. Ma alla fine, esausta per il dolore e la stanchezza, si addormentò.

Si svegliò quando sentì bussare alla porta. Pensando che si trattasse di Indi o Kiri, si avvolse in una vestaglia di seta e andò alla porta, con i capelli in disordine. Con sua grande sorpresa trovò Jay sull’uscio. Si guardarono e, mentre le guance le arrossivano, cercò di coprirsi meglio il seno con la vestaglia.

«Che c’è?», riuscì a chiedere.

«Mia madre vuole parlarti».

«Come mai sei venuto tu a dirmelo? Ho fatto qualcosa di sbagliato?»

«No, me l’ha semplicemente suggerito».

Durante la conversazione, Eliza aveva sostenuto il suo sguardo. Fu lui a distoglierlo, prima di tornare a fissarla negli occhi. «Eliza, io…».

«Sì?».

Lui allungò una mano per sfiorarle i capelli.

«Hai dei bei capelli».

Lei sorrise. «Mi sa che me l’hai già detto».

C’era qualcosa nella sua espressione che la fece sentire meglio di come avrebbe dovuto. Si stava forse prendendo gioco di lei? Eliza avvolse un dito nella catenina d’argento che portava sempre al collo e indugiò nel punto in cui si trovava la piccola pietra preziosa alla base della gola, proprio dove sentiva pulsare il sangue. In quel momento, l’Inghilterra era molto lontana.

«Puoi aspettarmi nel corridoio? Veramente, aspettami, vorrei che dessi un’occhiata a queste mentre mi vesto». Eliza indietreggiò, prese le lastre fotografiche e gliele porse, con le mani tremanti. Non doveva permettergli di influenzarla in quel modo.

Mentre si vestiva, sentì parlare hindi nel corridoio e si avvicinò alla porta per cercare di sentire il discorso.

Riconobbe la voce bassa di Jay e poi una voce stridula, femminile; anche se non riusciva a capire che cosa stesse dicendo, comprese che apparteneva a Indira. Eliza non si era mai considerata bella, ma aveva già conosciuto l’invidia femminile. A scuola un gruppo di ragazzine una volta l’aveva bloccata per tagliuzzarle i lunghi capelli. Da quel giorno aveva vissuto nel terrore e l’ultima cosa di cui aveva bisogno in un momento in cui si sentiva così estranea a quel luogo era di diventare di nuovo vittima della cattiveria di un’altra donna.

Alla fine le voci nel corridoio tacquero e, quando Eliza uscì, Jay stava passeggiando avanti e indietro con le sue fotografie in mano.

«Problemi?», gli chiese.

«Mi dispiace, non ho avuto modo di osservarle con attenzione, ma capisco cosa intendi dire quando parli di povertà. Noi ci siamo abituati, sai. Potrei tenerle per un po’?».

Le fece un mezzo sorriso e poi scosse la testa. «E avevi ragione anche su Indira. Sono stato cieco».

«Un osservatore esterno ha sempre uno sguardo più lucido».

Lui sospirò. «Non l’ho mai incoraggiata e non provo sentimenti di quel tipo nei suoi confronti. Sarebbe sbagliato, l’ho sempre considerata una sorella». La guardò con uno sguardo enigmatico. «Quando mi sposerò, dovrò farlo con qualcuno di pari rango. Se dovesse accadere qualcosa a mio fratello, dovrei subentrare».

Be’, abbastanza chiaro, pensò Eliza.

«Come ho detto, se Anish muore, gli succederò al trono, anche se Chatur farà di tutto per impedirmelo. Vorrei cambiare molte cose e in cima alla lista c’è proprio il ruolo di Chatur. Ma per far ciò dovrei conformarmi alla tradizione».

«Ovviamente. E non hai niente a che vedere neppure con me». Eliza si sforzò di non far trasparire alcuna emozione mentre ascoltava le sue parole, ma quello che aveva dichiarato l’aveva presa alla sprovvista, e suonava come un avvertimento.

«Adesso andiamo a parlare con Laxmi. A proposito, ho già detto del sati a Clifford Salter. È rimasto scioccato, come è ovvio, e mi ha promesso di occuparsene». Fece una pausa. «Non gli ho detto che c’eri anche tu. Avrei dovuto?»

«No. Preferirei che non lo sapesse, non voglio che mi protegga troppo».

«Il fatto è che lui potrà fare ben poco».

Jay la condusse attraverso corridoi e stanze infiniti fino al vestibolo blu dove aveva aspettato quando era arrivata.

«Indira ha dipinto questa stanza per mia madre».

Eliza ammirò i fiori azzurri, le foglie e la filigrana d’oro, che si innalzavano sulle pareti fino al soffitto.

«Ha un talento incredibile».

Laxmi uscì in quel momento e tese la mano a Eliza. «Sono lieta di vederti. Mio figlio mi ha detto del vostro viaggio».

Non sapendo bene a quale parte del viaggio si riferisse, Eliza si limitò ad annuire, con il cuore che le batteva forte.

Una volta all’interno della sala principale, ne ammirò la bellezza. Come un palazzo splendente di specchi, uno sheesh mahal, tutte le pareti erano ornate con mosaici di vetro colorato, con angeli alati dipinti sul soffitto e intonaco dorato. Rimase a bocca aperta, non aveva mai visto nulla di simile; il pavimento, inoltre, era pieno di grandi cuscini di seta, anche se Laxmi le indicò le sedie. Eliza si accomodò su una sedia con un cuscino di velluto rosso, mentre Jay prese posto su una poltrona.

«Ho saputo che hai delle idee a proposito di irrigazione», disse Laxmi.

«Era solo un’opinione».

«Buona, peraltro, anche se il mio figlio maggiore Anish non sarebbe d’accordo; tuttavia, da quando Jayant me ne ha parlato, questa mattina, non ho pensato ad altro. Se vogliamo che gli abitanti siano dalla nostra parte, dobbiamo rendere loro la vita più facile; altrimenti gli inglesi, o i rivoluzionari, li convinceranno facilmente a rivoltarsi contro di noi. Come sai, sta già succedendo in alcune zone del Paese, e disordini di questo tipo possono soltanto aumentare. Temo per il nostro regno e sto aspettando che Anish faccia qualcosa, ma dato che non agisce, sento che devo occuparmene io. Adesso ho un piano e desidero togliermi un peso».

Jay alzò le sopracciglia. «E ora preparati a restare stupefatta».

«La mia idea è questa. Abbiamo molti gioielli di famiglia. Se riuscissimo a ottenere un finanziamento da parte degli inglesi, sarei lieta di pagare un ingegnere che sviluppi e realizzi il progetto».

«Dobbiamo essere onesti, madre».

Spinta da Jay, Laxmi si strinse nelle spalle e proseguì. «Ottimo».

«Eliza, una volta che l’ingegnere ha realizzato il progetto, mia madre sarebbe disposta a farci impegnare parte dei gioielli di famiglia, a patto che il finanziamento degli inglesi arrivi subito dopo».

«Ma questo dovrebbe rimanere tra noi tre», aggiunse Laxmi. «Mio figlio maggiore non deve saperne nulla. Jayant mi ha assicurato che possiamo contare sulla tua discrezione».

«Naturalmente». Eliza rifletté per un momento. «Dovrete accertarvi, però, che il progetto sarà approvato e che ci saranno fondi a disposizione, prima di iniziare».

«Esattamente, ed ecco che entri in gioco tu. Se riuscissi a parlare del progetto con il signor Salter e lo convincessi a presentare tutta la documentazione necessaria per ottenere delle autorizzazioni, ci permetteresti di compiere un grande passo verso il prestito. Sarebbe anche utile per trovare i finanziatori che potrebbero sostenere il progetto».

Eliza non si era aspettata che Jay la prendesse tanto sul serio, ma ne fu deliziata. «Non so quanta influenza possa avere su di lui, ma ci proverò».

Parlarono dell’idea per un’altra mezz’ora, poi, quando Jay se ne andò perché aveva una partita di polo, Eliza si alzò.

«Rimani, Eliza. Ora che ci hai conosciuto un po’ meglio, ci sono delle domande che vorresti farmi?», le chiese Laxmi, facendole cenno di tornare a sedersi. «C’è qualcosa che vorresti sapere?».

Eliza era contenta. Quello a cui aveva assistito le aveva lasciato la sensazione di non essere al sicuro alla reggia, ma allo stesso tempo non riusciva a liberarsi dal pensiero che avrebbe dovuto saperne di più, se avesse voluto sentirsi a casa lì.

«Mi piacerebbe molto conoscere meglio la vostra cultura», disse lei, con in testa ancora l’immagine della pira ardente.

«La cultura della corte? O la rigida etichetta che governa le nostre relazioni?».

Eliza ci pensò e decise di non dire nulla del sati. «Be’, entrambe le cose, ma io intendevo i riti, le preghiere, le divinità. A cosa servono? Mi sembra che abbiate tanti dèi».

«Siamo una società molto legata alle tradizioni, ma le nostre pujas, le preghiere, danno significato a un mondo che altrimenti sarebbe senza senso. Siamo hindu, la nostra non è una religione, anche se alcuni pensano che lo sia. È ciò per cui siamo nati, un modo di vivere».

«Ma queste divinità non esistono realmente?»

«Il reale e l’irreale sono tutta questione di interpretazione. Esistono nelle nostre menti e nei nostri cuori, ecco perché sono importanti. Ci danno le regole in base alle quali viviamo le nostre vite. Non è tutto positivo, ma sappiamo da che parte stare. Conosciamo il nostro posto nel mondo. Potresti dire lo stesso di voi?».

Eliza pensò ai villaggi, con i vicoli polverosi e tortuosi, e con il rigagnolo della fogna al centro della strada. Nonostante l’estrema povertà, le erano piaciute le case di creta essiccata, le mucche addormentate e i bambini minuscoli, con gli occhi neri, che la guardavano. Aveva ammirato l’incredibile grazia delle donne: alte, dritte, con i capelli e i visi avvolti nella mussola leggera. Erano quanto di più lontano potesse esistere dall’Inghilterra, sia nel tempo che nello spazio, eppure straripanti di dignità e tradizioni.

«Non ci ho mai pensato», disse, rispondendo alla domanda di Laxmi, anche se non era del tutto vero. In realtà Eliza non aveva idea di quale fosse il suo posto nel mondo e desiderava molto parlare a Laxmi della vedova bruciata viva, di quanto questa tradizione la facesse sentire vulnerabile, dato che anche lei era vedova. Avrebbe voluto essere onesta con questa donna generosa. Dirle la verità.

«Cos’altro posso fare per aiutarti ad ambientarti?», le chiese ancora Laxmi. «I tuoi occhi sembrano ancora angosciati e mancano molti mesi prima che il tuo anno qui a Juraipore finisca».

«Mi piacerebbe visitare tutto il castello, fortezza inclusa. Non ho idea di come si vada da un posto all’altro e non voglio fare affidamento sugli altri per tutto il tempo».