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L’alba porta luce

Il giorno della partenza è arrivato.

Nella tasca interna della giacca ho la tua busta ancora intatta. Chissà da quanto tempo l’avevi scritta. Forse ne avevi perso le tracce e me l’avresti data sei mesi dopo il nostro matrimonio, o magari dopo un anno.

Benedetto disordine.

Ci sono lettere che, per essere aperte, richiedono uno spazio intimo, raccolto, e altre invece che preferiscono un ambiente affollato. Queste ultime non sono molto diverse dalle bombe della Seconda guerra mondiale che spuntano ancora qua e là nel nostro territorio; sono lì da un tempo che potrebbe averle rese inerti ma in realtà non si può mai sapere, potrebbero dormire ancora o deflagrare con un’esplosione spaventosa. Dovevo usare la cautela degli artificieri, per questo avevo deciso che era meglio aprirla circondato da una folla anonima.

Il volo è decollato in perfetto orario, avevo un posto vicino al finestrino da cui potevo vedere con agio il paesaggio sottostante. Prendendo quota, l’aereo ha sobbalzato un po’, ha curvato sul mare e fino all’Elba ha sorvolato la costa. Non appena l’abbiamo superata, ho infilato la mano nella tasca e ho preso la lettera.

Caro Andrea,

da quanti anni voglio scriverti questa lettera? Forse dal giorno stesso in cui ti ho visto per la prima volta. Ricordi quanto sono stata sgradevole? Mi sono comportata come quegli animali che si fingono mostruosi per proteggersi dagli attacchi dei predatori. Se mi fossi stato indifferente ti avrei ignorato come, a quell’epoca, ignoravo tutte le persone. Di che cosa avevo paura? Di uscire da un mondo di introspezione, dall’esasperazione di un dolore interiore che non riusciva a trovare la voce per esprimersi. Sognavo un mondo perfetto, un mondo senza disparità, senza ingiustizia. Un mondo in cui il dolore sarebbe scomparso e io, tra tutti gli abitanti di quel mondo ideale, volevo essere la più perfetta, senza cedimenti, senza debolezze, senza nulla che riuscisse a farmi uscire dalla roccaforte in cui mi ero rinchiusa dopo la morte di mio padre e la conseguente deriva di mia madre.

I mesi passati nel tuo monolocale – il famoso ventre della balena, ricordi?, con le tende come fanoni – avevano aperto una fessura nella mia roccaforte ma quando mi sei comparso davanti a casa con l’anello in mano l’inquietudine penetrata in quella feritoia si è trasformata in panico. Avevo vinto quella borsa di studio e non te l’avevo detto. Comunque, anche prima dell’anello, avevo già deciso che sarei sparita dalla tua vita.

Volevo ferirti, volevo allontanarti da me perché mi era intollerabile l’idea che qualcuno mi aspettasse, che qualcuno mi amasse. Amare voleva dire rischiare di subire una perdita, un rischio a cui non volevo più sottopormi. Ero certa che così mi avresti presto dimenticata. E non solo dimenticata, ma anche detestata.

Era quello che in fondo desideravo.

C’era stata la storia con Ivano, certo, ma era una storia da ragazzi e il collante che la teneva insieme era il sogno di un mondo migliore, non certo l’affinità tra due anime.

Se l’amore fosse una sorta di elettricità, direi che con te ho percepito da subito un voltaggio diverso.

Perdonami, ma è per questo che sono fuggita.

Il periodo a Pechino è stato un periodo cardine, nel senso che da quel momento in poi la mia vita ha preso una nuova direzione. Il mondo idilliaco che avevo sognato non esisteva da nessuna parte, tutte le energie che avevo profuso per dare vita a una società più giusta erano tutte lì, inerti ai miei piedi. Non sapevo più cosa farmene di loro, non sapevo più in quale direzione avrei potuto incamminarmi.

Il volo di ritorno faceva scalo a Hong Kong e su quella tratta ho incontrato Thomas. Eravamo vicini di posto, è stato lui ad attaccare bottone. A quell’epoca mi sembrava vecchio, ma in realtà aveva poco più di quarant’anni. Mi ha colpito perché i tratti orientali e quelli europei si fondevano in modo armonico sul suo viso. Ci siamo messi a parlare in cinese, mi faceva domande e sembrava ascoltare con attenzione le mie goffe risposte. Sembrava affascinato dal fatto che fossi di Venezia (ho tenuto ben nascosto Mestre!). Mi ha rivelato che uno dei suoi sogni era trasferirsi lì un giorno, magari da vecchio. Lo ha detto ridendo e in quel momento ho notato che aveva un’irresistibile fossetta sul mento.

Mi ha raccontato di essere nato ad Amburgo – una città anch’essa piena di acqua – e di vivere tra la Germania e Hong Kong. Sua madre era cinese, suo padre tedesco e da generazioni la sua famiglia commerciava in stoffe preziose.

Quando siamo atterrati a Hong Kong mi ha proposto di fermarmi un po’ in quella città, se davvero volevo imparare qualcosa di più della cultura cinese. A casa aveva una ricca biblioteca, ha detto, libri che a Pechino non mi sarebbe mai stato permesso di leggere. Quella proposta mi ha spiazzato. L’ultima cosa che desideravo era tornare a rinchiudermi nella villetta di Mestre con mia madre. Gli ho risposto che non avevo grandi possibilità finanziarie. Su questo mi ha tranquillizzato, aveva una casa grande e non avrebbe avuto difficoltà a cambiarmi il volo.

Così, invece di imbarcarmi come previsto sulla tratta Hong Kong-Dubai-Roma, sono salita su un taxi e sono andata a casa di Thomas. Mi ha presentato Faith, una ragazza filippina minuta e silenziosa che vi abitava. C’era una bella libreria, Thomas mi ha detto di servirmi pure, come se si trattasse di una pasticceria. Mi sono guardata intorno un po’ inquieta. Non vedevo una seconda stanza. Potevo dormire sul divano, mi ha detto, era comodissimo. Poco dopo la filippina ci ha servito la cena: tante piccole ciotole piene di pietanze colorate.

Thomas ha iniziato a parlarmi della profondità filosofica del taoismo, ero così affascinata dalle sue parole che quasi mi dimenticavo di mangiare. Aveva un piccolo gong sul tavolo con cui chiamava Faith. Mi sentivo in imbarazzo per lei, dovevamo essere coetanee.

Dopo cena ci siamo seduti sul divano e mi ha declamato delle poesie classiche cinesi. Prima di andare a dormire mi ha chiesto se avevo mai praticato la calligrafia. Ho risposto di no. Era un’arte importante, ha aggiunto, se volevo avrebbe potuto darmi qualche lezione. Proveniva, infatti, per parte di madre da una famiglia di calligrafi. I suoi parenti rimasti in Cina erano stati tutti uccisi, la calligrafia era considerata un’arte borghese, ha concluso, augurandomi la buonanotte.

Quella è stata per me una notte insonne. Dormivo al ventesimo piano di un grattacielo, in una città in cui non conoscevo nessuno, in tasca non avevo che pochi dollari. In più ero a casa di uno sconosciuto. Perché mi ero fidata?

La mattina dopo, mentre Thomas srotolava il feltro per la mia prima lezione di calligrafia, la risposta mi è venuta spontanea. Perché ne ero affascinata. Stava alle mie spalle, mi diceva di non irrigidire la mano, di respirare piano, univa il suo respiro al mio e con dolcezza conduceva il pennello nella giusta direzione. A fine mattinata, la stanza era piena di fogli bianchi coperti di sgorbi neri. Li ho guardati desolata ma lui mi ha spiegato che non dovevo deprimermi, la calligrafia era un’arte e, come tutte le arti, richiedeva un lungo tirocinio. Poi ha messo un grande foglio di carta di riso sul feltro e, muovendosi con grazia, ha tracciato due ideogrammi, quello di uomo e quello di donna.

Uomo e donna, ha detto, l’origine di tutto.

Quella notte non ho dormito sul divano ma tra le sue braccia.

La cosa che non hai mai voluto sapere, e che io provo imbarazzo anche solo a scrivere, è che Amy è stata concepita in un elegante appartamento a The Peak da una sciocca ragazza di provincia e un impenitente seduttore.

Inutile negare la stupidità della giovinezza.

Mi sentivo importante, il fatto che un uomo di tale cultura mi ascoltasse, mi facesse domande, mi trattasse da sua pari mi riempiva di orgoglio. Nonostante le mie arie, non ero altro che una ragazza ingenua e quel mondo così lontano dal mio mi procurava una sorta di ebbrezza.

Thomas lavorava per lo più a casa, faceva lunghe telefonate in mandarino, in inglese, in tedesco, spediva e riceveva fax in continuazione. Ogni tanto io lo stuzzicavo e lui mi sorrideva complice. Qualche volta mi portava a cena nei suoi locali preferiti. Gli piaceva porgermi il cibo con le bacchette senza dirmi cosa fosse, chiedendomi se mi piacesse. Una volta mi ha fatto mangiare persino una cavalletta!

Dopo una settimana ho chiamato mia madre, c’era la segreteria telefonica, le ho detto che avevo trovato un piccolo lavoro e che sarei rimasta un po’ a Hong Kong, di non preoccuparsi. Ero stordita dal fascino di Thomas e, nel mio candore giovanile, ero convinta che anche lui fosse colpito dal mio.

Un giorno però mi ha comunicato che di lì a due giorni sarebbe partito per Amburgo. Speravo che mi dicesse: «Vieni con me, ti presento ai miei» e invece mi ha detto che se non volevo tornare in Italia, poteva trovarmi un lavoretto, aveva degli amici che gestivano un bel ristorante in una località turistica. «Non posso restare qui?» gli ho chiesto. «No, perché Faith torna dai suoi per qualche mese e chiudo la casa.» «Ma tornerai?» «Ovvio, stupidina!» ha risposto dandomi un rapido bacio.

Una settimana dopo, con lo zaino sulle spalle e una valigia in mano, ho lasciato il suo appartamento per raggiungere il ristorante dei suoi amici. Ci siamo salutati all’aeroporto. «Ciao, tesoro» mi ha detto e ho visto la sua schiena sparire tra la folla degli imbarchi per l’Europa.

La sera stessa sono arrivata al ristorante di Bali. I proprietari erano gentili e in pochi giorni ho imparato tutto quello che c’era da imparare. In fondo non dovevo fare altro che servire ai tavoli.

Dopo una quarantina di giorni mi sono accorta di aver mancato il ciclo. Ho pensato che fosse lo stress, ma i cambiamenti che avvenivano giorno dopo giorno nel mio corpo spingevano i miei pensieri in un’altra direzione.

Appena sono stata certa di aspettare un bambino, l’ho chiamato. Non è stato facile, sono riuscita a raggiungerlo solo dopo tre giorni. C’era un forte rumore di sottofondo, era difficile riuscire a capirsi. Gli ho detto che avevo un problema.

«Non ti trovi bene con i miei amici?»

«Non è questo, è un altro tipo di problema.»

Dopo un breve silenzio, lui ha capito.

Mi ha tranquillizzato, ha detto che sarebbe tornato a Hong Kong il mese dopo e lo avremmo risolto.

Ero interdetta, mi ero aspettata di sentire un qualche tipo di emozione, invece il mio non era altro che un problema da risolvere. Per qualche mese mi ero proiettata un film nella mia testa. L’uomo maturo e affermato folgorato dalla ragazza incontrata all’aeroporto, il loro amore che cresceva di giorno in giorno e diventava eterno… Poi qualcuno aveva sparato una fucilata sullo schermo e l’aveva ridotto in pezzi. Il rumore era stato secco, l’effetto immediato perché la verità delle cose – questo l’ho imparato con il tempo! – spesso emerge in modo improvviso e brutale.

Non mi ero comportata in modo molto diverso dalle ragazze dei fotoromanzi che, senza un attimo di esitazione, cadevano tra le braccia del primo seduttore. Mi sentivo ferita per l’alta idea che avevo di me stessa, del mio spirito critico, della mia intelligenza ed ero angosciata per quella vita che sentivo crescere dentro di me, una vita che non avevo cercato né desiderato e di cui non sapevo cosa fare.

La natura è implacabile, non si sogna di seguire i nostri desideri. Ogni giorno quella piccola cosa aumentava di volume e di complessità e il suo inesorabile progredire divorava tutti i piani della mia vita futura. Mi sono sottoposta a ogni forma di fatica fisica nella speranza che quel piccolo mostro capisse che non era gradito. Speravo di svegliarmi un giorno in un lago di sangue e tirare un sospiro di sollievo perché tutto era finito. Non volevo aspettare che tornasse Thomas, non volevo che fosse lui con i suoi soldi a risolvere il problema. Volevo che accadesse «per caso», poter dire «ho perso il bambino» attribuendo l’accaduto a un destino più grande.

Detestavo, tu lo sai, il concetto di Provvidenza. Il mondo per me non era altro che un delirante mattatoio e l’idea che ci fosse questa «fatina» che, dall’alto, sistemava tutto con la sua bacchetta magica mi riempiva di rabbia. Ma ora, con il senno di poi, ripensando all’intero corso della mia vita – della nostra vita – che cos’è stata la tua apparizione quel giorno al ristorante, se non un’elargizione di Grazia da parte di quella tanto odiata fatina?

A un tratto eri lì, davanti a me a carponi sul pavimento, completamente ubriaco, a cercare di raccogliere della frutta che ti rotolava via.

Dall’altra parte del mondo, ma eri proprio tu, il mio Capitano!

Vederti e trovarmi immediatamente sbalzata in un mare in tempesta è stato tutt’uno. Che ti amavo ancora, e che amavo solo te, mi è stato chiaro in un secondo ma avevo fatto di tutto per farmi odiare da te, come potevo essere certa che i miei tentativi non avessero avuto successo? Di sicuro mi avevi cancellata, avevi un’altra, o molte altre, e queste altre mi avevano cacciata definitivamente dal tuo orizzonte.

«Il cuore ha ragioni che la mente non conosce.»

Chi lo aveva detto? Pascal? In quel momento ho capito che era proprio così. Vedendoti, ho capito che la vita avrebbe potuto ricominciare in modo diverso.

Due settimane dopo mi sono licenziata e sono tornata in Italia. A mia madre non ho potuto nascondere la mia condizione. «Qualunque cosa tu decida, ti sarò vicina» mi ha detto, poi ha aggiunto: «Comunque ricordati che di solito la vita porta con sé altra vita». Stavano scadendo i mesi consentiti dalla legge per risolvere il problema. Sono andata con mia madre all’ospedale. Vedendo sullo schermo quella piccola cosa pulsare dentro di me con caparbia regolarità ho avuto la certezza che non fosse affatto un problema da risolvere ma una minuscola persona che, con tutto il suo carico di originalità, chiedeva di venire al mondo.

Dico questo ma non ti nascondo che i mesi della gravidanza sono stati mesi difficili. Ero preoccupata, impaurita, mi sentivo totalmente inadeguata come madre. Un giorno sì e uno no mi dicevo che forse sarebbe stato meglio risolvere il problema. Mia madre intanto continuava a sferruzzare tutine, aveva tirato fuori la mia vecchia culla e mi confortava ripetendo il suo motto: la vita porta con sé altra vita.

Devo confessarti però che mi sono sentita una madre inadeguata ogni giorno della mia esistenza. Quanta di questa inadeguatezza è responsabile di quello che è successo poi tra me e Amy? Sarebbe accaduto anche se fossi stata una madre perfetta, se tu fossi stato il padre biologico? Sono domande a cui nessuno potrà mai rispondere. Siamo forse tutti inadeguati perché la vita è troppo complessa per essere affrontata con le nostre misere forze. Bisognerebbe poter salire su un monte e da quel monte guardare il futuro. I nodi che verranno al pettine, i sentieri che si ingarbuglieranno. Ma forse anche questo sarebbe inutile. Se avessimo visto in anticipo che Marco un giorno si sarebbe ammalato e sarebbe morto, cosa avremmo potuto fare? Siamo inadeguati alla vita perché siamo inadeguati davanti alla morte. Ci danniamo a fare piani e disegnare strategie e poi tutto finisce. Che senso ha il prima, se non c’è un poi, se non c’è un dopo?

Non ti ho mai detto nulla dei due mesi in cui sono stata da sola dopo la morte del nostro bambino. Mi muovevo con la stessa frenetica ansia di un cane abbandonato dal padrone, annusavo i luoghi, decidevo se andare da una parte o dall’altra nel tentativo di trovare una strada che mi riportasse a casa. Ho dormito in tristissime pensioni inondando il cuscino di lacrime. Anche se era estate, sentivo sempre freddo. Quel gelo veniva dal nostro piccolo, dal suo corpo tutto solo nella tomba.

Dopo un mese di vagabondaggio ho incontrato una persona alla stazione di Bologna. Non come Thomas, non ti preoccupare, ti ho fatto già soffrire abbastanza. Ci eravamo guardati già al bar – anche questo è un mistero, a un tratto ci si riconosce – e poi, casualmente o provvidenzialmente, ci siamo trovati seduti vicini sul treno. Era in pensione da un paio di mesi e stava raggiungendo Arezzo perché voleva ripercorrere il cammino di San Francesco. Nel continuo alternarsi di luce e di buio delle gallerie tra Bologna e Firenze ho pensato che avrei potuto andarci anch’io. San Francesco era un ragazzo ribelle, per questo mi era sempre stato simpatico. Cercava la verità della sua vita. E non era la stessa cosa che stavo cercando anch’io? «Le dispiace se vengo con lei?» gli ho chiesto. «Affatto» ha risposto lui.

Pochi giorni dopo, camminando al suo fianco per sentieri silenziosi, ho scoperto che anche la sua vita, come la nostra, era stata segnata dalla perdita di un figlio. «Lei è fortunata» mi ha detto «perché il vostro bambino è morto di malattia, mentre il mio per una stupida fatalità. Le malattie sono implacabili ma le fatalità sarebbero evitabili, per questo è quasi impossibile trovare pace. Sarebbe bastato essere più attenti e non sarebbe successo niente.» A due anni, suo figlio era rimasto soffocato da una castagna caduta per terra durante la cena della sera prima. L’aveva trovata gattonando, era già sbucciata così l’aveva messa in bocca. Quando si erano accorti che era cianotico avevano fatto la cosa più sbagliata di tutte: gli avevano infilato due dita in bocca. Se avessero conosciuto la manovra salvavita, il loro Luca sarebbe sopravvissuto, ma così non è stato. «La morte è sempre atroce» ha commentato «ma le morti stupide sono le più atrocemente imperdonabili di tutte.»

Dopo quel fatto, mi ha raccontato, la loro coppia era scoppiata e al termine di un periodo di continue recriminazioni – «Se tu non avessi…», «Se tu fossi stato…» – tra di loro era sceso un glaciale silenzio. Poi sua moglie aveva incontrato un altro uomo, un tipo allegro che la portava sempre a ballare e si era rifatta una vita. «A me sono rimasti i cocci e da allora cammino senza pace per cercare di rimetterli insieme.» Dopo un breve silenzio, ha continuato: «Anche se ho quasi la certezza che quella pace la troverò solo sottoterra. Forse il nostro errore è quello di farci domande troppo grandi. Ma quando capitano queste cose non si può fare a meno di chiedersi: perché a me e non a un altro? Il grande bivio che separa gli agnelli che andranno al macello da quelli che tornano quieti all’ovile. Solo quando senti i tragici belati del mattatoio ti rendi conto di trovarti nel gruppo sbagliato. Troppo tardi».

Dopo una settimana, ci siamo separati. Lui, Pietro, voleva raggiungere Roma mentre io non volevo abbandonare quei boschi e l’incanto dei piccoli borghi fuori dal tempo. Avevo con me il sacco a pelo e, essendo estate, più di una volta mi sono trovata a dormire all’aperto.

Avevo paura?

Come si fa ad avere paura quando la tua coperta è un cielo stellato e intorno a te senti solo i rumori discreti di un bosco notturno? Quella pace in qualche modo quietava i miei pensieri, li rendeva più limpidi, più chiari.

Non so spiegarti la ragione ma, a un certo punto, ho sentito che quel gomitolo che sentivo aggrovigliato dentro di me cominciava a sciogliersi. Camminavo molto e parlavo poco, lasciavo che quel cielo e quel silenzio mi entrassero dentro. E così, piano piano, ho iniziato a intravedere un bandolo.

Nei giorni di cammino in compagnia di Pietro almeno una cosa mi si era chiarita. Dopo la morte di Marco, noi non ci siamo lanciati nel gioco al massacro delle colpe reciproche. È stato un periodo burrascoso, certo, ma in quella burrasca mai ci siamo scagliati l’uno contro l’altra.

Se ho deciso di partire, aggiungendo altro dolore al tuo dolore, è stato proprio per questo: per evitare che dentro di me – e tra di noi – si formassero delle pericolose sacche di rancore. Perché questo? Perché ti amo, perché ho sempre voluto che il nostro rapporto durasse per sempre. Perché abbiamo una figlia, Amy – per me è sempre stata nostra figlia – e questa figlia si è persa nel mondo. Solo se saremo uniti forse un giorno riusciremo a recuperarla. In fondo, adesso è Amy il nostro agnello insanguinato. Mentre Marco riposa, lei se ne va in giro per il mondo piena di ferite.

Erano da sempre dentro di lei? Siamo stati noi a provocarle? È l’ombra di Thomas che vive nella sua anima? Chi può dirlo? Una delle poche cose di cui sono stata sempre convinta – ricordi la mia ribellione per il nome? Non sono Patrizia, sono Edith! – è che i figli non appartengono ai genitori ma soltanto a loro stessi. Accettare la loro libertà senza smettere di amarli, non è forse questo il nostro compito? Il più arduo dei compiti! E avere la pazienza di aspettarli. Io aspetterò, noi aspetteremo tutta la vita che Amy faccia ritorno, che Amy torni a essere quella che noi conoscevamo, che riprenda a trotterellare assieme a noi con la stessa allegria di un tempo.

Se sono tornata a casa più serena, se sono tornata in grado di riprendere la nostra vita è perché un giorno, lungo il cammino, mi sono imbattuta in una chiesetta abbandonata. Dentro nidificavano le rondini e sopra ciò che restava dell’altare c’era scritto: Alba fert lucem. L’alba porta la luce. La luce vince sempre sulle tenebre. Quella verità era da sempre sotto i miei occhi ma solo in quell’istante ho capito che l’amore è più forte della morte, e che la morte trionfa davvero in noi soltanto nel momento in cui abbandoniamo questa certezza. Limitati nella nostra esperienza fisica, di solito pensiamo che l’amore sia soltanto quello che proviamo nella nostra dimensione temporale. Noi abbiamo amato Marco, l’abbiamo chiamato alla vita e Marco non c’è più ma quegli ultimi mesi che cosa sono stati se non un continuo flusso d’amore? E com’è possibile che quell’amore si sia annullato per il semplice fatto che Marco non è più con noi?

Camminando nella pace di quei boschi, camminando nei luoghi in cui tanto tempo prima aveva camminato quel ragazzo che ribellandosi aveva trovato la più grande delle libertà ho pensato – o meglio – ho sentito proprio questo: il tempo non è che una briciola dell’Eternità e se non alziamo lo sguardo da questa briciola non riusciremo mai a vivere la pienezza di una vita che non teme la morte. In qualche parte dell’universo l’amore che ci ha uniti – me, te, Amy, Marco, il nostro famoso quadrato, ricordi? – brilla come una stella e lì, nel mistero di quella Luce che non è umana, vivremo per sempre.

Ecco, ora sai, seppure in modo ancora frammentario, cos’è successo nei periodi della vita in cui non siamo stati insieme. Anche se non lo hai mai ammesso, sono sicura che in tutti questi anni la paternità di Amy sia stata per te un silente e doloroso rovello. Forse è per questo, per preservare la serenità del suo rapporto con lei e con me, che non hai mai voluto sapere. Neppure io ho saputo più nulla di Thomas né ho avuto il desiderio di cercarlo magari solo per comunicargli che aveva avuto una figlia da me. Sarei stata pronta a parlare con Amy se lei lo avesse desiderato – era un suo diritto – ma anche lei ha sempre preferito tenere chiusa quella porta. Anche quando è iniziato il periodo delle grandi crisi, anche quando ero assolutamente decisa a dirle la verità, lei ha continuato caparbiamente a tenerla sbarrata.

Per questo, quando è diventata maggiorenne le ho messo quella lettera sul comodino. In quelle righe le ho raccontato tutto, le ho scritto il nome e cognome di suo padre e il luogo dove trovarlo. L’avrà letta? Chissà! Magari l’ha rintracciato e ora vive felicemente con lui in qualche parte del mondo e sui nostri diciott’anni di vita in comune ha steso la striscia nera che un tempo stendeva su suo padre sconosciuto.

La settimana scorsa, mentre mi aiutavi a sparecchiare, mi sono accorta che le tue mani non sono più quelle di un tempo. È cresciuto il rilievo delle vene e qua e là sulla pelle sono comparse delle macchie scure. Ora, scrivendo, ho guardato le mie e, sebbene in vantaggio di dieci anni, mi sono resa conto che ti sto seguendo sulla stessa strada. Siamo invecchiati, stiamo invecchiando insieme. Questa considerazione mi ha dato una grande serenità.

Se avessi deciso di sposarti la prima volta che me lo hai chiesto, in un paio di anni probabilmente la nostra relazione sarebbe andata in rovina, ugualmente se avessi accettato di «regolarizzare la nostra situazione» quando aspettavo Marco. Mentre adesso, con una ritrovata gioia infantile, non attendo altro. Le cose vivono nella loro verità quando hanno il tempo di maturare internamente, non quando ci si mette un nome sopra.

Ora ho capito che c’è un Bene che ci sovrasta, un Bene che prima ci genera nella nascita e poi, in modo misterioso e diverso, ci rigenera nella morte. Senza questa idea di flusso, senza questa idea di dono credo sia abbastanza difficile vivere una vita degna di questo nome. La vita potrebbe non esserci, invece c’è. Potremmo essere come Marte, come la Luna, come Saturno, sfere di sassi che ruotano e nuotano nel vuoto siderale, invece siamo creature vive su questa piccola, bistrattata, meravigliosa terra. Dovremmo essere testimoni di un simile miracolo. E testimoni vuol dire non arrendersi, non smettere di stupirsi, non permettere che i fantasmi che generano le piccole morti quotidiane che ci circondano abbiano il sopravvento sui nostri giorni.

Un’ultima cosa, mio caro amatissimo Andrea. Volendo fare – dopo tutti questi alti voli – i conti della serva, credo di poter dire che tra noi due tu sei quello che ha dato di più, per questo non posso che dirti grazie e prometterti che da domani in poi cercherò di riequilibrare i conti. Ai tempi in cui ti ho incontrato, la semplice parola «amore» provocava in me il riso beffardo della giovinezza. Ero convinta che l’amore non esistesse. Mi sbagliavo. Che cosa è stato il rapporto tra di noi, e quello che abbiamo avuto con la vita, se non una grande storia d’amore?

La tua Edith che cercava la felicità e l’ha trovata accanto a te.

P.S. Non credi che con le scarpe che abbiamo scelto rischierò di inciampare lungo la navata? Che ansia! Per fortuna so che non sarai lontano e mi afferrerai in tempo, impedendomi di cadere.

Terminata la lettura, ho ripiegato i fogli con meticolosa cura e prima di rimettere il plico in tasca, l’ho baciato come si baciano le cose care. Sotto di me c’erano dei densi cumuli bianchi, sopra un sole che dardeggiava sulle ali dell’aereo.

Ho infilato gli occhiali scuri.

Si è aperto uno spazio tra le nubi e ho visto apparire le ultime propaggini delle Alpi. Mi ricordo di quando a Venezia, nel nostro letto, ci eravamo messi a parlare dell’atmosfera e della troposfera. Le tue mille domande. Quanti tipi di nubi ci sono? E di che cosa sono fatte? Non sai quanto mi manca questa tua inesausta curiosità.

La voce del comandante ha annunciato una breve turbolenza, chi era in piedi si è seduto, da sotto gli occhiali mi è sfuggita una lacrima. La vita è stata troppo breve, ho pensato, prima che l’aereo iniziasse a ballare.