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Uragano

Non ti ho più vista, né tu ti sei fatta più viva.

Nelle prime settimane, quando sbarcavo, lo facevo a testa bassa per paura di incontrare il tuo sguardo. A novembre, quando le calli erano ormai avvolte nell’irrealtà della nebbia, ho capito che non c’era alcun rischio. Mi avevi cancellato dalla tua vita, così come io stavo cercando di cancellarti dalla mia e questo tentativo mi portava a vivere una forma di rabbia fino ad allora sconosciuta. Prendere fuoco per un contrattempo era molto diverso dal vivere con un’eterna tensione di impotenza. Sulle isole, i gabbiani per sfogare la loro rabbia strappano con furia ciuffi di erba e li lanciano contro un rivale. Un modo per risolvere una questione esplosiva senza spargimenti di sangue. Ma io, che ciuffi d’erba potevo strappare?

Quando ero a Venezia, mi sfogavo camminando. Uscivo da casa e facevo tutto il periplo dell’isola delle Zattere fino alle Fondamenta Nuove; attraversavo calli deserte alternandole a quelle invase dal fiume dei turisti. Era una liberazione poter urtare qualcuno nella folla, gridare «Ma va’ in malora!» e poi tirare dritto.

Tornavo a casa e passavo gran parte della notte sprofondato nella nostra poltrona, con un bicchiere di whisky in mano e lo sguardo perso su uno schermo perennemente acceso.

A volte, la luce dell’alba mi trovava ancora lì.

In quei mesi mi sono reso conto che la rabbia non è poi molto diversa dalla ruggine: dopo un silenzioso esordio si espande in ogni dove, corrodendo tutto ciò che può corrodere. La mattina mi guardavo nello specchio e stentavo a riconoscermi. Il viso era gonfio, lo sguardo aveva una fissità vitrea che non apparteneva ad Andrea.

C’era ancora qualcosa di vivo in me?

Qualcosa capace di muoversi?

«Cosa ti sta succedendo?» mi ha chiesto un giorno un collega davanti a uno spritz. Abbiamo parlato per un po’ poi, dopo aver finito il calice, mi ha suggerito di cambiare aria.

Tornato a casa, ho provato un senso di sollievo.

Il giorno dopo mi sono licenziato dalla società di traghetti e il 1° gennaio sono entrato in servizio in una compagnia di navi da crociera. Quel Natale l’ho passato a Cormons. Mia madre era più pallida del solito, sembrava improvvisamente invecchiata.

«Non ci vedremo più» mi ha detto, accompagnandomi alla porta.

«Esagerata!» le ho risposto. «Tornerò, solo un po’ meno spesso.»

Mi ha abbracciato e, in quell’abbraccio, per la prima volta ho sentito quello che un figlio non vorrebbe mai sentire.

L’incombere della fragilità.

Due giorni dopo sono arrivato ai Caraibi e lì, sotto quel sole implacabile, sono rimasto sei mesi. La vita su una nave da crociera è molto diversa da quella su un traghetto: la concreta praticità dei trasporti lascia il posto a un’effimera mondanità. Dopo le ore di lavoro, non c’era la partita a carte con i colleghi o il ping-pong, ma il ripetitivo rito delle cene di gala, dei balli e dei concerti. La noia era lo spettro che aleggiava su quei viaggi. Paradossalmente, ciò che io cercavo nella vita in mare veniva rifuggito come la peste dai passeggeri. La nave non era poi molto diversa da un circo viaggiante e, in quel circo, anche gli ufficiali dovevano recitare la loro parte.

Durante il primo imbarco, quel mondo totalmente artificiale è stato la mia cura. C’era un buon numero di donne che viaggiavano sole e che amavano intrattenersi in conversazioni con i giovani ufficiali. Nei primi tempi, sprofondato in una poltrona del bar o appoggiato a un parapetto sotto il cielo stellato, ascoltavo con vera dedizione le confidenze sempre più personali di queste signore. In alcuni casi, osservando il loro volto, le loro mani, pensavo addirittura di potermi anche innamorare di una di loro, ma era un pensiero che generalmente svaporava la mattina seguente. Mi parlavano delle loro vicende sentimentali, della delusione per i loro ex, della mancanza d’amore nella loro infanzia. Di solito queste confessioni erano strettamente legate al consumo di alcol. Più aumentava, più si scendeva nell’intimità, ma era sempre uno scendere opaco, incapace di suscitare in me un interesse che durasse più di una notte. Prima di sbarcare, qualcuna mi lasciava perfino un’ardente lettera con il numero di telefono e la promessa, magari un giorno, di venirmi a trovare a Venezia.

I primi sei mesi li ho vissuti così.

Ero malato e mi stavo curando.

Ma già al secondo imbarco un filo di inquietudine ha preso a insinuarsi nella mia vita apparentemente spensierata. Guardavo i colleghi più anziani, il loro passare da un gala all’altro, da una cabina all’altra, guardavo i loro ventri sempre più prominenti, i volti gonfi di chi con troppa naturalezza frequenta l’alcol e mi domandavo se quello dovesse essere anche il mio futuro.

Una sera ho confidato le mie perplessità a un ufficiale francese con cui ero entrato in sintonia.

«Ma goditi la vita!» mi ha esortato, dandomi una pacca sulla spalla.

Goditi la vita, già.

Che cosa volevo di più?

Facevo un lavoro che mi piaceva, vivevo tutto l’anno tra il sole e le spiagge dei Caraibi, non c’era una sola notte in cui rischiassi di rimanere solo in cabina, eppure non ero più felice. Anzi, non solo non ero felice, ma più passava il tempo, più ero preda di una sottile malinconia.

Poi un giorno, quasi alla fine del secondo semestre, siamo incappati in un uragano di una certa potenza. Il circo è stato costretto a smontare le tende e la nave è tornata a essere quello che era: un guscio d’acciaio in balia degli elementi. I bar erano vuoti, così come la sala da ballo e il teatro. Le onde sferzavano con violenza gli oblò e i passeggeri erano tutti nelle cabine a lottare contro i conati di vomito. La verità della vita aveva preso il sopravvento sulla sua rappresentazione. Una signora, in corridoio, mi è caduta quasi addosso. «Ce la faremo?» mi ha chiesto e io, in barba a tutte le regole della compagnia, ho risposto con soddisfazione: «Speriamo».

Poco prima dell’alba siamo usciti dalla tempesta. Il mio pari grado mi ha dato il cambio e mi sono ritirato finalmente in cabina. Nel sonno anomalo di chi dorme mentre il sole è alto, ho fatto un sogno pieno di fuoco, con molta gente che fuggiva inseguita dalle nubi. Da ragazzo, nella biblioteca di casa, avevo letto la descrizione che Plinio il Giovane aveva scritto dell’eruzione del Vesuvio in cui aveva perso la vita suo zio Plinio il Vecchio.

Era un frammento di quel racconto che avevo sognato?

In quella spaventosa eruzione, i corpi degli abitanti di Pompei erano stati pietrificati nella lava nelle posizioni più strane; il silenzio spettrale della morte aveva pietosamente coperto le loro vite spezzate.

C’era silenzio adesso nella mia vita.

E nella tua?

Dov’eri?

Dov’era il tuo corpo?

Rannicchiato accanto al mio?

Era per questo che quando un’altra donna si alzava dal mio letto provavo un senso di fastidio? Corpi che non erano stati sfiorati dal fuoco né inseguiti dalla nube lasciavano dietro di loro pieghe leggere, non calchi.

Il calco era tuo.

Solo tu avresti potuto riempire quel vuoto.

Mentre per la seconda volta sorvolavo l’oceano per tornare casa, ero perfettamente consapevole che quel vuoto c’era e che ci sarebbe stato per sempre nella mia vita. La rabbia era svaporata, al suo posto era subentrata una malinconica tristezza. A tratti avrei voluto mandare indietro il film della mia vita, cancellare i primi tre giorni passati insieme e la cena di addio con Erica, tornare sul binario, sognando, sperando che non ci fossero più deragliamenti.

Avevo compiuto da poco trent’anni e il sentimento che sempre più spesso accompagnava i miei giorni era quello di una cinica amarezza.

Avevo buttato via le cose più importanti per inseguire un sogno.

Ma era stato un sogno, appunto.

Appena avevo cercato di afferrarlo, era svanito.