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Forse non si è mai pronti
Fine marzo dello stesso anno.
Un muro di pioggia che sembra voler affogare il mondo. Smontato dal servizio, mi avvio verso casa con una valigetta in mano. Desidero solo stare un po’ al caldo e in pace; non è stata una bella traversata quella di ritorno dal Pireo. L’acqua che cade abbondante, quasi con rabbia, sui marciapiedi e sui canali mi spinge ad affrettare il passo. Anche se non ci sono turisti in giro, per abitudine percorro sempre le calli e i ponti meno conosciuti.
È proprio al penultimo ponte che scorgo qualcosa di giallo. Una figura seduta, raccolta in se stessa.
Quando le arrivo vicino, all’improvviso si alza.
«Capitano…» mormora. Vedo sul suo viso le gocce di pioggia confondersi con quelle del pianto.
Da quante emozioni sono stato assalito nel trovarmi davanti a te all’improvviso? Tante, e tutte in contraddizione tra loro.
Avrei voluto proseguire con sguardo e passo indifferente, come se tu fossi stata una pietra, un tronco, qualcosa di inanimato. Avrei voluto spostarti dalla mia strada con algida gentilezza: «Scusi, ma sono in ritardo», sperando che tu fossi ferita da quel gelido distacco. Avrei voluto fuggire, eppure lo strano tepore che sentivo salire nel mio corpo, quel lieve aumento del battito cardiaco mi mettevano davanti a una realtà del tutto diversa. Così, quando hai detto: «Andrea?» e i nostri sguardi si sono incrociati, ho semplicemente annuito.
A quel punto è successo l’imprevedibile, mi hai buttato le braccia al collo e sei scoppiata in singhiozzi.
La resa è stata immediata.
«Vieni, andiamo in un posto dove poter parlare» ho detto, prendendoti sottobraccio.
Il posto era casa mia.
Ti ho offerto un cambio d’abiti perché i tuoi erano fradici. All’inizio hai rifiutato testarda, ma quando ti ho fatto notare che rischiavi di ammalarti, hai accettato una mia tuta da ginnastica. Persa in quegli indumenti troppo grandi, sembravi un pulcino uscito troppo presto dall’uovo.
Dov’era la tua arroganza?
Dov’era il tuo sarcasmo?
Non riuscivo più a vederli.
Davanti a me c’era solo una ragazzina smarrita che sembrava annaspare in un vuoto cosmico.
Mi sono cambiato anch’io e ho preparato un tè. Oltre al fischio del bollitore, nella casa si sentiva soltanto il ticchettio della pioggia che cadeva sui vetri. Avevo capito che qualsiasi parola sarebbe stata inutile e fuorviante, per questo ho aspettato che fossi tu a parlare.
«Non si potrebbe correggere con un po’ di rum?» mi hai chiesto, soffiando sulla tazza fumante.
«Certo! Nella casa di un marinaio il rum non manca mai.» Il rum e il tè hanno fatto tornare il colore sulle tue guance.
«Mi ha lasciata» hai detto, posando la tazza sul piattino.
«Mi dispiace» ho risposto con finta indifferenza.
Il silenzio è sceso tra noi. Le lacrime hanno ripreso a sgorgare dai tuoi occhi.
«Per un’altra.»
«Era una storia lunga?»
«Dal liceo.»
Alla seconda tazza di tè corretto hai ripreso a parlare. Vi eravate conosciuti alla fine del ginnasio, eri stata attratta da lui fin dalla prima volta che l’avevi visto ma, almeno all’inizio, era stata un’attrazione a senso unico. Passava davanti a te come se passasse davanti a un lampione. Era circondato di ragazze adoranti perché, oltre che bello, era anche molto impegnato in un movimento di estrema sinistra. Alle assemblee nessuno parlava come lui e tutto quello che faceva era riconducibile alla sua passione per la causa. C’era qualcosa di febbrile in lui, il suo sguardo era sempre fissato su un orizzonte più lontano da quello dei comuni mortali.
«Ivano» hai detto «sapeva bene cos’era il bene e cos’era il male ed era pronto a insegnarlo agli altri. Bene era tutto ciò che rendeva il popolo libero, male tutto ciò che lo opprimeva e lo rendeva schiavo.» Il suo faro era il presidente Mao Tse-tung. Quando era morto, nell’umida stanza in cui si riuniva il suo gruppo, aveva declamato per un’intera settimana le sue massime. Eri andata a un paio di quegli incontri e lì, per la prima volta, ti aveva notata. Allora ti eri procurata Il libretto rosso e durante le vacanze di Natale ne avevi imparato a memoria una buona parte; la prontezza con cui rispondevi, citando il presidente Mao, aveva aperto il suo cuore e in primavera facevate già coppia fissa.
Era per questo, per seguire la sua passione che ti eri iscritta a Lingue orientali, per studiare cinese. In Cina, infatti, la povertà, la diseguaglianza e l’ingiustizia erano state sconfitte per sempre, a tutti erano state date le stesse possibilità e questo vi rendeva entusiasti. Le guardie rosse erano il vostro mito, avreste voluto diventare come loro per portare la rivoluzione all’interno del nostro Paese clerico-fascista.
In quei due anni, mi hai confessato, avevi vissuto per lui e per la vostra idea di giustizia sociale. Era quella che ti dava la forza di affrontare le lunghe riunioni notturne, i turni al ciclostile, i picchetti davanti al petrolchimico di Mestre nelle gelide mattinate d’inverno. Volevate essere le scintille capaci di scatenare l’incendio che avrebbe cambiato radicalmente il mondo.
«Una bella cosa avere degli ideali» ho commentato senza troppa convinzione.
«Già» hai annuito. «Peccato che quello che diceva poi non lo metteva in pratica. Dato che eravamo compagni, ci eravamo giurati sincerità assoluta, non dovevano esserci ombre tra noi.»
«E invece?»
«Invece aveva un’altra da mesi.»
Un giorno avevi dimenticato la borsa, così eri tornata alla sede e li avevi trovati stretti in un abbraccio che era quasi un amplesso. L’indomani avevate avuto un incontro chiarificatore. Lui ti aveva spiegato che nel mondo a venire non ci sarebbe stato spazio per sentimenti così deprecabilmente borghesi come la gelosia: la negatività del possesso non doveva tarpare le ali alla varietà dei rapporti. «Ma se io mi mettessi con un altro?» avevi chiesto dopo un breve silenzio. «Ne sarei felice» era stata la sua risposta, congedandoti con un bacio sulla guancia.
Quella conversazione ti aveva turbata.
Nei mesi seguenti era stato sfuggente, parlava con te ma era come se non ci fosse; ti dava appuntamenti ma poi si scordava di averteli dati. Dopo aver passato pomeriggi interi ad aspettarlo, avevi capito che la presunta sincerità non era altro che la più alta forma di ipocrisia.
«Non ero pronta» hai concluso mentre gli occhi tornavano a inumidirsi.
«Forse non si è mai pronti.»
Il campanile della chiesa vicina aveva battuto le otto di sera.
«E se mangiassimo qualcosa?»
Hai annuito.
«Non sono un gran cuoco, la mia specialità è la pasta al pomodoro.»
«Magari con il sugo già pronto…»
«Magari…»
«Be’, non ti preoccupare, la mia sono i Sofficini.»
Abbiamo riso. E così i fusilli con salsa industriale sono stati il primo pasto della nostra vita insieme.
Ho aperto una bottiglia di Cabernet del Collio.
«Vengo da lì» ti ho detto, riempiendo il tuo bicchiere.
«L’avevo capito dall’accento che non eri veneziano!»
Ti ho raccontato allora brevemente della casa di Cormons e dei miei genitori. I «quarti di nobiltà» ti hanno fatto ridere.
«In che cosa consistono?»
«Quando fanno gli esami del sangue, nella siringa, in mezzo al rosso, compare sempre una striscia color blu.»
Siamo arrivati al fondo della bottiglia. Fuori la pioggia continuava battente. «Come fai ad andare a Mestre?» ti ho chiesto. «Vuoi rimanere a dormire qui?» Ti sei guardata in giro smarrita. Era evidente che c’era solo un letto nella casa.
«No, è meglio che vada.»
«Sicura?»
«No.»
«Allora resti?»
«Solo se è chiara una cosa. Tu mi dai una coperta e io dormo su questa poltrona in cucina.»
«No, è proprio il contrario. Io resto qui e tu dormi nel mio letto.»
Sei rimasta in silenzio. Poi mi hai chiesto: «Senza strani pensieri?».
«Senza alcuno strano pensiero» ti ho rassicurata.
Ti ho dato un asciugamano pulito e prima che tu entrassi in bagno ho fatto sparire lo spazzolino di Erica. Ti sei infilata sotto le coperte con la mia vecchia tuta addosso e hai chiuso subito gli occhi, come se da tempo aspettassi quel momento.
«Vuoi che ti legga qualcosa?» ti ho chiesto.
Hai annuito e così ho preso da uno scaffale Il Milione, l’ho aperto a caso e, nel silenzio della casa, ho iniziato a raccontarti delle meraviglie di Baudac e delle sue montagne.