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Di cosa è fatto il cielo?

Per un paio di giorni ho lasciato l’isola.

Mentre il traghetto si allontanava dalla costa, per un istante ho pensato che in fondo niente mi impediva di lasciarla per sempre. Per quale ragione dovevo rimanere legato a questa roccaforte di ricordi?

Nelle mie mani, il piccolo giardino in breve si sarebbe trasformato in uno spazio incolto. Tutto quello che avevamo sognato insieme era stato, appunto, insieme. Da solo non avevo abbastanza energia, fantasia e volontà per mettermi in moto e fare le cose che facevi tu.

Negli ultimi giorni, passando davanti allo specchio, ho avuto modo di notare un cedimento nella mia postura; mi sono accorto che invece di stare seduto con la schiena dritta sul divano, sempre pronto a balzare in piedi, ho iniziato a incurvarmi, a prendere una posizione accartocciata. Per la prima volta ho intuito che cosa volesse dire invecchiare.

Da quando la tua voce e i tuoi passi non risuonano più nella casa, ho iniziato a trascurarmi. Difficile esistere quando non ci si rispecchia nello sguardo dell’altro. Per gli uomini forse più che per le donne. Noi uomini abbiamo meno risorse, lasciati a noi stessi siamo come barche senza ormeggio. «Non si è mai pronti» ti avevo detto commentando l’improvvisa morte di tuo padre.

Non si è mai davvero pronti.

Ci può essere una verità più grande? Tra quello che la mente sa e quello che il cuore non riesce ad accettare si apre un abisso impossibile da colmare.

Quando già si vedevano le banchine del porto d’arrivo, non ho potuto fare a meno di domandarmi come ti saresti comportata tu se fosse successo l’inverso. A volte ne avevamo parlato. Avevo dieci anni più di te e gli uomini vivono in media meno a lungo. Immaginavamo che saresti stata tu a trovarti in questa situazione.

«Che cosa faresti?» ti avevo chiesto mentre eravamo seduti sulla nostra panchina in fondo al prato.

Eri rimasta assorta.

«Venderesti la casa?»

Mi avevi guardato stupefatta. «Non mi passerebbe neppure per l’anticamera della mente.» Poi avevi fatto una piccola risata delle tue: «Se ti odiassi certo, la venderei e scapperei a mille miglia di distanza dai ricordi».

«Dopo trent’anni è una bella cosa sapere che almeno non mi odi» avevo commentato, per stare al gioco.

«Non ricordo per quale ragione dovrei odiarti.»

«Per la mia ottusa prevedibilità maschile.»

Fabio mi stava aspettando al porto. Mi ha chiesto di accompagnarlo a fare un giro nell’entroterra alla ricerca di un ristorante o di un agriturismo dove organizzare il pranzo di matrimonio della figlia.

«Come va?» mi ha domandato uscendo dal parcheggio del porto.

«Va.»

«Sei sicuro di rimanere lì? Ho paura che tu sia troppo solo.»

«È così.»

«Pensi sempre a lei?»

«Cos’altro potrei fare?»

«Magari potresti partire per un po’… con la tua esperienza, ci metteresti un giorno a trovare un imbarco.»

«Sì, ci ho pensato, ma…»

«Ma?…»

«… mi sembrerebbe di tradirla.»

«Edith vorrebbe soltanto che tu fossi felice.»

«In questo momento non so più cosa potrebbe rendermi felice» ho scosso la testa. «E poi c’è un tempo per ogni cosa, e adesso non è più tempo di andare per mare.»

«È tempo di cosa allora?»

«Non so, non riesco a capirlo.»

Abbiamo visitato tre o quattro ristoranti e poi siamo tornati a cenare in quello che ci sembrava più adatto.

«Notizie di Amy?»mi ha chiesto, aspettando il conto.

«No, nessuna…»

Due giorni dopo sono tornato sull’isola.

Cadeva una pioggia fastidiosamente leggera.

Aprendo la porta, sono stato assalito da quell’odore di umidità che hanno le case non riscaldate da giorni. Tu non avresti voluto che io mi lasciassi andare; neppure io lo avrei voluto, la sciatteria non appartiene al mio carattere. Forse nella vita, ho pensato caricando di pellet la stufa, bisogna accettare anche questo, che a un tratto arrivi uno tsunami che ti colpisce alle spalle. Non lo avevi visto, non avevi sentito alcun allarme: d’improvviso, la sua ombra ti sovrasta, la sua forza ti travolge senza che tu abbia il tempo di rendertene conto; ti strappa dal tuo mondo, ti trascina lontano, insieme alle auto, agli alberi, ai tavoli, ai tetti delle case.

Se era davvero successo questo, dovevo trovare qualcosa a cui aggrapparmi. Dopo l’impatto iniziale, l’acqua stava risucchiandomi verso il mare aperto. Lì, in mezzo alle correnti, mi sarei trasformato in un relitto tra gli altri. Era questo che dovevo impedire.

Da dove cominciare?

Dal fare ordine materiale, certo.

Ma poi?

La tristezza del letto vuoto, sconfinare con le gambe sull’altro lato e trovare solo il gelo; alzarsi al mattino e vedere il cuscino accanto perfettamente teso.

Prima di addormentarmi, mi è tornata in mente l’altalena che avevo comprato non appena ci eravamo trasferiti sull’isola. L’avevo vista in offerta in un grande magazzino e non avevo resistito.

Tornando a casa, te l’avevo mostrata raggiante, tu ti eri subito incupita.

«Perché l’hai presa?»

«Be’, perché spero che, prima o poi, ci sarà qualcuno felice di usarla.»

«Falla sparire!» mi avevi intimato perentoria e, senza aggiungere altro, eri uscita dalla stanza.

Molte volte avevo pensato di buttarla via, ma in realtà era ancora lì, su un ripiano alto del ripostiglio degli attrezzi. Gli anelli saranno arrugginiti, mi sono detto, le corde marce, e poi sono scivolato in un sonno pesante, apparentemente privo di sogni.

La seconda volta che sei salita da me a Venezia, ti sei fermata per tre giorni. In quei tre giorni hai cancellato con un colpo di spugna la vita che avevo vissuto prima di conoscerti. La tua presenza, la vicinanza sempre più complice dei nostri corpi hanno fatto il miracolo di schiudere davanti a me una porta di cui fino ad allora avevo ignorato l’esistenza.

Ignorato?

Forse mi ero sforzato di ignorarla.

C’era la realtà. Un uomo e una donna innamorati che scoprono i loro mondi. Ma a quella realtà se ne aggiungevano infinite altre. A un certo punto ho pensato che non eri molto diversa da Sheherazade: l’evento più insignificante scatenava in te il bisogno di raccontare una storia, e quella storia finiva quasi sempre con una domanda. Mi chiedevi di essere complice e io maldestramente cercavo di starti dietro.

«Cosa c’è sopra le nostre teste?» domandavi mentre eravamo sdraiati a letto.

«Il soffitto» rispondevo.

«E sopra il soffitto?»

«Il signore del piano di sopra.»

«E poi?»

«E poi c’è il tetto.»

«E sopra al tetto?»

«Che cosa vuoi che si sia? Il cielo.»

«Non è mica così semplice. Di cosa è fatto il cielo? Di aria?»

«Di aria. Di azoto e di ossigeno principalmente.»

«Mio padre da bambina mi diceva che la Terra è fatta di tanti strati. È così anche per il cielo?»

«Più o meno. Subito sopra di noi c’è la troposfera.»

«Che cos’è?»

«È dove si forma il tempo meteorologico, le nubi, la pioggia…»

«E poi?»

«Poi c’è la tropopausa e, dopo ancora, la stratosfera.»

«Che cosa le differenzia?»

«Più si sale, più c’è pace; niente corrente, niente vento, niente tempesta.»

«Pace» hai ripetuto, poi sei rimasta un po’ in silenzio tirandoti la punta dell’orecchio.

«Perché lo fai?» ti ho chiesto.

«Lo faccio da quando sono piccola… credo che sia un modo per attivare il cervello…»

«Credi di averne bisogno?» ti ho domandato, ridendo.

«Come si fa a vivere così, senza cercare di capire le cose?»

Quando la mattina del terzo giorno ti sei alzata in modo brusco, dicendo: «È ora che vada» e, senza particolari effusioni o smancerie, ti sei messa il cappotto e sei uscita, il mondo mi è crollato addosso. Sheherazade se n’era andata e io ero rimasto prigioniero nella triste realtà della mia vita.

«Non so neppure dove abiti» ti avevo detto quando eri già sulla porta.

«Ma io so quando sbarchi» avevi risposto ed eri scomparsa con passo leggero giù per le scale.

L’incandescenza che avevo provato nella settimana precedente al nostro ultimo incontro aveva lasciato il posto a una sensazione di segno opposto. Non c’era più fuoco intorno a me, ma aria e, in quell’aria, ero sospeso. C’era un filo teso tra me e il futuro, tra me e il presente e su quel filo ero costretto a camminare ma, sebbene fossi capace di bilanciarmi su un ponte sferzato dalle onde, non ero altrettanto certo di saperlo fare su un filo d’acciaio sospeso sul vuoto. Affrontavo quel rischio perché non avevo alternative, perché sapevo che l’unico modo per raggiungerti era indossare i panni di un funambolo.

Siamo andati avanti così per tutta la primavera. Apparivi, scomparivi. Non sapevo mai se ti avrei trovata allo sbarco o se il tuo posto sarebbe stato desolatamente vuoto.

«È un mese che non ci vediamo» ti ho fatto notare una volta, leggermente risentito.

«Avevo un esame importante» mi hai risposto.

Non facevamo tutte le cose che fanno di solito gli innamorati: uscire, andare al cinema, passeggiare. Che ci fosse il sole o la pioggia, ce ne stavamo sempre chiusi nel mio monolocale.

«Mi sembra di stare nel ventre di una balena» hai osservato una volta.

Ti ho dato ragione. Infatti che cos’era quella stanza in penombra, in cui l’unico rumore che giungeva era quello dell’acqua del canale sottostante, se non il luogo segreto in cui, come Pinocchio e Geppetto, stavamo andando incontro a una nuova fase della nostra vita?

Le settimane intanto passavano e davanti a me cresceva di giorno in giorno uno spettro molto più grande di quello di Mangiafuoco. Incombeva il matrimonio e io sembravo aver archiviato il problema. Quando il telefono squillava, rispondevo soltanto se ero solo e se ero certo che la mia voce non tradisse alcun tipo di emozione. Ogni volta che Erica proponeva di vedersi, ero io ad andare a Portogruaro.

«Mi mancano le mie gite a Venezia» mi ripeteva spesso, ma io lasciavo cadere la frase nel vuoto.

Un giorno mi aveva mostrato delle foto di mobili. Le avevo guardate distrattamente, dicendo: «Carini… ma si potrebbe trovare di meglio». Vedevo comparire sul suo volto, incontro dopo incontro, l’ombra della delusione, e quell’ombra feriva il mio cuore così come feriva il suo. Il non detto cresceva, era come se tra noi ci fosse una sottilissima lastra di ghiaccio che, di settimana in settimana, aumentava di spessore; l’aria fresca che ci aveva avvolti all’inizio si era trasformata in un gelo, era sorto un iceberg; attraverso l’acqua solidificata vedevamo ancora i nostri volti ma non c’era più alcuna possibilità di incontro tra il calore dei nostri corpi.

Ci sono uomini capaci di tenere in piedi diverse relazioni senza alcun turbamento. Io non appartenevo a quella categoria. Volevo un bene profondo a Erica e l’ultima cosa al mondo che desideravo era ferirla. La mia vita aveva avuto una svolta imprevista e di quella svolta lei non aveva colpa. Ero io che avevo deciso di fare il funambolo, non Erica. Ogni passo era sospeso e a ogni passo avrei potuto cadere nel vuoto.

Quali garanzie mi davi tu?

Nessuna.

Quali garanzie mi dava Erica?

Tutte.

Purtroppo la vita degli esseri umani difficilmente si fa rinchiudere nella serenità di un’addizione. Anzi, spesso, per ragioni misteriose, ci sentiamo fatalmente attratti dalla forza della sottrazione.

Mia madre, intanto, incalzava con i preparativi. L’ultima volta che ero stato a trovarla si era portata avanti con i compiti mostrandomi, su una rivista, alcuni modelli di vestitini di maglia che avrebbe messo in cantiere non appena fosse apparso all’orizzonte un nipote.

Non potevo indugiare oltre.

A metà maggio, un fine settimana in cui eravamo entrambi a Cormons, ho invitato Erica a cena in un ristorante sui colli. Abbiamo cenato all’aperto sotto due maestosi tigli in fiore; sopra le nostre teste c’era un frenetico viavai di insetti.

Quando il buio è sceso, tra noi è sceso anche il silenzio.

Sul nostro tavolo, protetta da un contenitore di vetro, c’era una candela e, accanto alla candela, un vasetto con una rosa. Era rossa, quasi bordeaux e molto profumata. Abbiamo parlato per tutta la cena di argomenti neutri; mi sforzavo di mangiare con appetito ma tutto dentro di me era paralizzato da un senso di angoscia che cresceva di minuto in minuto. Quando è arrivato il dessert – due trionfanti tiramisù – ho affondato il cucchiaio nel mascarpone e le ho detto: «Ti devo parlare».

Non c’era stupore negli occhi di Erica ma solo la quieta consapevolezza di chi si trova davanti a un evento lungamente temuto.

«Parla» ha risposto senza distogliere i suoi occhi dai miei.

Non mi aspettavo quella reazione, mi sono fermato esitante.

È stata lei a chiedere: «C’è un’altra?».

Sotto ai miei piedi, la fune è improvvisamente scomparsa, stavo precipitando nel vuoto, l’aria mi sibilava nelle orecchie.

«Un’altra? No…» ho risposto, cercando di frenare il rossore che sentivo salire al volto. Difficile mentire se non si è abituati a farlo. «Non è questo… piuttosto non mi sento pronto…»

«Se non ti senti pronto a trent’anni, quando lo sarai?»

«È proprio questo il problema, forse non lo sarò mai.»

Ho iniziato a parlare della mia inquietudine, del fatto che mi ero stufato di fare il travet sulla linea Venezia-Pireo. In me c’era un bisogno di avventura che stava tornando a galla ed era incompatibile con una serena vita famigliare.

«Ti aspetterei, ci sono tanti ufficiali che hanno una famiglia.»

«Ma io non sopporterei di sapere che passi la tua vita ad aspettarmi.»

Erica ha posato la sua mano sulla mia.

«Mi sento molto confuso.»

«Lo vedo. Ma sei sicuro che vivere senza legami importanti alla lunga sia una buona cosa?»

«No, non lo è.»

Invece di guardarla, ho posato gli occhi sulla fiammella che danzava tra di noi. «Non posso fare altrimenti.»

«Da te non me lo sarei mai aspettato.»

«Neanche io me lo sarei aspettato.»

In quel preciso momento, un petalo della rosa è caduto sulla tovaglia.

Abbiamo finito il dolce in silenzio. Mentre aspettavamo il conto è entrata una chiassosa compagnia che festeggiava un addio al celibato. Poco prima di salire in macchina, nel buio del parcheggio, all’improvviso Erica mi ha abbracciato. Siamo rimasti un po’ così, con i suoni che provenivano dal ristorante alle nostre spalle; sentivo il tepore delle sue lacrime che scivolavano lungo le guance. Le ho accarezzato la testa. Siamo come due naufraghi, ho pensato, e in quel momento il suo sterno e tutto il suo piccolo corpo sono stati scossi dal sordo rumore dei singhiozzi. Avrebbe potuto dirmi: «Sei un mostro…» invece ha mormorato: «Ti amo e ti amerò per sempre».

Quella notte ho sognato di assistere a una lezione di anatomia. Soltanto quando il professore con il camice bianco ha affondato il bisturi nel torace mi sono reso conto di non essere uno degli studenti presenti ma il cadavere disteso sull’acciaio. Mi sono svegliato di pessimo umore, con un atroce mal di testa. Facendomi la barba, ho pensato a Ivano, al suo mito perverso della sincerità.

Sarebbe stato meglio se avessi detto a Erica: «Ho un’altra»? Non avrei messo così un macigno sulle sue spalle?

Avrebbe pensato che non l’amavo più perché a lei mancava qualcosa, si sarebbe tormentata per quello, e non sarebbe stato vero.

A Erica non mancava davvero nulla, sarebbe stata una moglie e una madre perfetta. Ero io quello che era stato travolto da un fiume in piena e portato lontano. Lei non aveva alcuna responsabilità, alcuna colpa.

A quel punto però ero molto confuso.

C’era davvero un’altra?

Tu balenavi e poi sembravi sparire dietro a una cortina di fumo, e io brancolavo nell’oscurità, cercandoti.

La mattina ho accompagnato mia madre a messa e dopo pranzo, appena trasferiti in salotto per vedere il telegiornale, ho annunciato: «Erica e io ci siamo lasciati».

Mia madre è impallidita, cadendo a peso morto sul divano.

«Sei impazzito?»

Mio padre, in poltrona, si è acceso il solito sigaro.

«Quod sequitur, fugio» ha declamato «quod fugit, ipse sequor