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Un giorno ti spiegherò

Al ritorno ho scoperto che mia madre era malata. Non aveva voluto comunicarmelo finché ero lontano per non crearmi un’inutile inquietudine. Era già stata operata e, davanti a una torta che aveva preparato per il mio ritorno, mi ha detto: «Non ti preoccupare, tutto è ormai alle spalle».

Non potevo fare a meno di pensare che quell’improvviso crollo fosse dovuto anche al deragliamento a cui avevo costretto la mia vita. Ci sono persone che dai deragliamenti traggono una nuova linfa e altre invece che da quello sferragliare fuori dai binari vengono travolte. Tendiamo, per nostra natura, a proiettarci costantemente nella testa delle immagini del nostro futuro e quando queste immagini si dissolvono non sappiamo fare altro che rimanere a contemplare lo schermo ormai vuoto. Mia madre si era vista cullare il nipotino. Il nipotino era scomparso e, in qualche modo, era scomparsa anche lei.

«Hai qualcosa da raccontarmi?» mi ha chiesto quel giorno.

Sapevo che quel «qualcosa» in realtà voleva dire «qualcuna» per cui ho scosso la testa.

«Ancora no.»

«Non fare pasticci» mi ha detto il giorno della partenza, già sulla porta di casa.

«O almeno, non farceli sapere» ha aggiunto mio padre.

A Venezia ho trovato la cassetta delle lettere intasata di bollette. In mezzo a quelle, una cartolina spedita dall’aeroporto di Francoforte. Raffigurava un aereo della Lufthansa in decollo.

Era tua.

C’era scritto: Un giorno ti spiegherò e, sotto la tua firma, avevi aggiunto P.S. Ti penso.

Stavo per stracciarla, ma in quell’istante ha squillato il telefono e l’ho appoggiata vicino all’apparecchio.

Quella cartolina poi, per ragioni misteriose, ci avrebbe seguito di casa in casa per tutto il corso della nostra vita. Non sapevamo mai in realtà dove fosse, ma ogni tanto spuntava fuori dai luoghi più imprevisti.

«La nostra cartolina!» esclamavi allora.

A volte si crede che siano i grandi gesti a determinare le svolte di un’esistenza, spesso invece sono proprio i piccoli, i più insignificanti, a farlo: quel Ti penso scarabocchiato frettolosamente che avevo letto con olimpico distacco, in realtà si era attaccato ai miei pensieri più segreti come una remora si attacca al ventre di uno squalo e, proprio come una remora che via via pulisce la pelle dai parassiti, aveva iniziato ad aprire una falla nel mondo artificiale nel quale mi ero rifugiato.

Dopo un mese di sosta, sono ripartito per l’Oceano Pacifico. L’effetto cura era ormai svanito. Avevo imparato a stare lontano dalle signore troppo sole. Navigare in quel modo era diventato nient’altro che un lavoro, il tempo libero lo passavo in solitudine. A volte, quando scendevo a terra, mi accodavo a gruppi dei colleghi. Un giorno li ho accompagnati fino alla porta di un tatuatore.

«Non entri?» mi hanno chiesto.

Ho declinato l’invito. L’unica immagine che avrei voluto incidere era quella di un impiccato.

Il mondo orientale comunque mi era più consono di quello caraibico e con il suo oceano – forse per il nome stesso, Pacifico – provavo più affinità che con l’Atlantico. Atlante, colui che porta sulle spalle il peso del mondo.

«Più il mare è piccolo» ti avevo detto un giorno «più è possibile trovarsi in balia di una tempesta forza 8.»

Quell’informazione ti aveva stupito.

Siamo abituati a pensare che il piccolo porti in sé un innato principio di tranquillità. Ma il Mediterraneo, schiacciato da due continenti e strozzato dallo stretto di Gibilterra, è un mare di grandi turbolenze mentre il Pacifico, con la sua immensa estensione, può permettersi il suo nome.

Spesso, contemplando le lunghe e pigre onde, ho pensato che quel movimento non fosse molto diverso da un grande respiro. Il respiro di una persona addormentata o in stato di quiete.

Il respiro che tanto avrei voluto avere.

Durante la navigazione, banchi di pesci volanti affiancavano di frequente la nave. Quelle strane creature sospese tra due mondi mi affascinavano fin da bambino. Erano nate nell’acqua, eppure volavano. Che bisogno avevano di farlo? Apparentemente nessuno, la loro natura era quella di pesci ma, a un certo punto, avevano sentito il desiderio di spiccare il volo, raggiungere il limite, scavalcarlo, rischiando la vita per scoprire cosa c’era oltre. Balzando fuori dall’acqua, in quanto pesci, sfuggivano alla voracità di altri pesci, ma esponendo i loro dorsi luccicanti ai raggi del sole, si offrivano come docili prede agli uccelli marini. Quel doppio rischio, però, non fermava il loro volo. D’altronde non erano le uniche creature capaci di vivere sospese tra due mondi. Era così anche per gli anfibi, per le sule e i cormorani che nuotavano sott’acqua con la stessa disinvoltura con cui solcavano il cielo.

Era così forse anche per gli esseri umani?

O lo era solo per alcuni?

Quante dimensioni si incontrano nel corso di una vita?

E quante di queste ci appartengono per natura?

Dopo la vita ci sono altre realtà ad attenderci?

Ogni tanto, come un fulmine, mi attraversava il pensiero che ti fosse successo qualcosa: un incidente con la macchina, l’incontro con uno squilibrato. Chissà se sarei mai venuto a saperlo. Un sogno, un presagio, magari uno spirito di quelli che apparivano a tua madre avrebbe bussato improvvisamente alla mia porta?

E se le anime in cielo, prima della nascita, fossero legate tra loro da una sorta di cordone ombelicale? È per questo che poi si cercano per tutta la vita? È per questa ragione che, quando si sono ritrovate, non possono più stare l’una senza l’altra?

Qual era stato il filo che ci univa?

L’attrazione fisica, certo, ma quella in fondo non era altro che il riflesso di qualcosa di più profondo e complesso. Era forse proprio la sindrome del pesce volante ad averci reso così indispensabili l’uno per l’altra? Il non accontentarsi di un mondo, l’andare costantemente alla ricerca di una qualche forma di deragliamento? Ma quel deragliare, quel cancellare ciò che prima c’era stato, non si era rivelata un’azione benefica per me. Anzi, mi aveva quasi condotto all’annientamento.

Era stato così anche per te?

Magari te ne stavi da qualche parte felicemente abbracciata a Ivano, con un berretto con la stella rossa in testa. Forse mi ero solo illuso che fossimo legati da quell’invisibile cordone. Forse ciò che ci aveva uniti era un materiale di ben più bassa lega, qualcosa che uno psicologo, in poche sedute, avrebbe sbrogliato con la stessa forza tranciante con cui Alessandro Magno aveva tagliato il nodo di Gordio.

Sebbene la rabbia fosse passata, non mi era ancora possibile pensarti con la stessa benevola liberalità con cui ti pensava probabilmente Ivano. Saperti felice tra le braccia di un altro non mi rendeva altrettanto felice, ma mi rattristava anche il pensiero che tu potessi trovarti in difficoltà, che avessi bisogno di me e io non fossi in grado di aiutarti.

Razionalmente, non pensavo sempre a te. Piuttosto era come se la mia mente fosse un palcoscenico e tu una comparsa che camminava invisibile dietro le quinte. Ogni tanto, da lì, sconfinavi anche nei sogni ma, più che di sogni compiuti, si trattava di convulsi frammenti. Metterli insieme cercando di trovarvi un significato sarebbe stato come cercare di unire le tessere di due diversi rompicapo.

Una mattina, però, mi sono svegliato con un improvviso senso di felicità. Il cielo basso e pesante che da più di due anni incombeva sui miei giorni sembrava essersi dissolto. Non sapevo spiegarmi quell’improvviso senso di libertà: forse soltanto, come i condannati, avevo finalmente scontato la mia pena. Vestendomi, sono rimasto sorpreso dalla mia voce che canticchiava. Un tempo lo facevo molto spesso.

Dato che eravamo fermi due giorni a Mahé – ancora un altro Oceano, quello Indiano – per il cambio di passeggeri e avevo mezza giornata libera, ho preso la mia borsa con l’attrezzatura e sono andato a fare un’immersione.

Da quanto tempo non provavo più la gioia infantile della meraviglia? Sotto di me, intorno a me, si stendeva lo straordinario mondo della barriera corallina. Neppure il più folle degli artisti né il più folle dei maghi avrebbe potuto inventare quella magnificente varietà di forme e di colori, quella grazia fluttuante che mi circondava. Due anni di cupi risentimenti e di tristezza avevano cancellato dal mio orizzonte la vivificante presenza della bellezza. Per tutto quel tempo avevo girato come una banderuola impazzita, avevo camminato con una benda sugli occhi, protendendo timoroso le mani in avanti nel tentativo di capire cosa stesse succedendo intorno a me. Nuotando tra gli anemoni e i coralli, tra i pesci pagliaccio e i pesci balestra, quella mattina la benda era improvvisamente caduta.

La vita, ho pensato, si rinnova sempre e sempre può sorprenderci.

Con quella speranza nel cuore, sono uscito dall’acqua.