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Off limits
Oggi, andando a fare la spesa, sono rimasto sorpreso nel vedere una pila di panettoni accanto alla cassa.
«Di già!» ho esclamato, pagando il conto.
«Be’, siamo a fine novembre» ha osservato la giovane cassiera.
Tornando a casa mi sono ricordato dello smarrimento che provavo, negli anni delle mie rotte tropicali, quando vedevo comparire a un tratto Babbo Natale. Il mio immaginario di bambino nordico mi portava a pensare sempre al Natale come a un periodo di buio, di neve e di gelo: se mi avessero detto che da grande, anzi da vecchio, i tropici mi avrebbero raggiunto nel mio Paese, non ci avrei creduto.
Eppure è così.
La mattina, quando mi alzo, faccio fatica a capire in che stagione mi trovo. Un giorno, la casa e l’isola sono battute dal vento impetuoso di una tempesta, il giorno dopo sembra maggio anche se è novembre, mentre a giugno piove come fosse autunno avanzato. La convinzione che la Terra contenga in sé il principio di stabilità è un’idea erronea che deriva dalla brevità della nostra vita. Di solito la vita è troppo breve per riuscire ad assistere a una glaciazione o alla sua fine. La mia generazione invece ha avuto questa fortuna, se fortuna si può chiamare: nati in un’epoca in cui le stagioni erano ancora stagioni – d’inverno faceva molto freddo, in primavera e in autunno pioveva, in estate si sudava sotto il sole – con il passare dei decenni abbiamo visto la meteorologia trasformarsi in un gioco da prestigiatore. Cosa sarebbe saltato fuori il giorno dopo dal cilindro? Un coniglio? Una colomba? Dei foulard colorati? Nessuno poteva dirlo.
Così come non pensavo che il clima dei tropici potesse arrivare da noi, altrettanto non potevo immaginare che avrei vissuto la mia età matura come un film di fantascienza. Per il mio decimo compleanno, avevo ricevuto in regalo un robot: era di latta, la testa a forma di scatola, il busto soltanto un cubo un po’ più grande; appena si accendeva il giocattolo, le due lucette rosse degli occhi iniziavano a lampeggiare, mentre dal suo ventre metallico giungeva un vago rumore di ferraglia. All’epoca, era quello il massimo di fantascienza che si potesse concepire.
Se mi avessero detto che un giorno avrei avuto in mano una tavoletta con cui era possibile fare praticamente tutto quello che un essere umano può desiderare – vedere film, leggere libri e giornali, fotografare, filmare, connettermi con il mondo intero – non ci avrei creduto. Invece tutto è avvenuto con una rapidità sorprendente. Dall’arrivo del telefono cellulare in poi, un universo intero è esploso intorno a noi. A volte penso che quest’esplosione non sia stata molto diversa da quella avvenuta nel corso del Cambriano quando, come a un segnale convenuto, la forza vitale ha iniziato a produrre milioni e milioni di diverse e strampalatissime creature. C’erano spazi vuoti, e quegli spazi andavano occupati, ma in breve, geologicamente parlando, l’evoluzione ha poi fatto marcia indietro sforbiciando in modo drastico la varietà delle specie esistenti.
Succederà così anche con la tecnologia?
Forse a un tratto tutto sarà troppo e bisognerà sfrondare, eliminare, tenere come caro e importante soltanto ciò che davvero serve.
Chi lo può dire?
Quello che posso dire con certezza è che se noi due ci fossimo conosciuti in questi tempi la nostra storia sarebbe stata molto diversa: grazie al cellulare, ci saremmo subito ritrovati e mai più persi; grazie a Google, avrei potuto inseguirti fino in Cina, sapere in ogni istante dov’eri e cosa facevi. Certo, sia tu sia io avremmo potuto non leggere più i messaggi, niente doppia spunta blu; forse tu mi avresti mandato un’emoticon con una lacrima, io ti avrei subito risposto con una faccetta addolorata e così la nostra relazione sarebbe finita. L’unica traccia di ciò che c’era stato tra noi sarebbe stata allora quella della nostra memoria frantumata. Un giorno avresti detto ai tuoi amici, al tuo compagno, ai tuoi figli che quando eri molto giovane avevi incontrato uno che lavorava sui traghetti, un tipo po’ ossessivo, e io avrei raccontato ai miei eventuali interlocutori che a trent’anni avevo avuto una storia con una studentessa di Lingue, una tipa un po’ pazza.
Forse per questo, quando c’era qualcosa da chiarire nella nostra vita famigliare, preferivi scrivere delle lettere. Avevi sistemato un piccolo scrittoio in un angolo del salotto, la stanza più calda, e lì ti raccoglievi quando non c’era alcun film o romanzo che ti appassionasse. Tenevi degli epistolari regolari con diverse amiche sparse in tutto il mondo. Quando poi siamo rimasti soli in casa e ti occupavi di api, hai iniziato a scrivere con una certa regolarità appunti su dei grandi quaderni ad anelli che poi riempivi anche di piccoli disegni.
Quando mi avvicinavo curioso, alzavi il capo e dicevi: «Eh no, questa è una zona off limits».
In fondo, ciò che ci ha unito è stato anche l’essere entrambi persone solitarie. Avevamo i nostri spazi interiori e sono stati questi spazi a permetterci di navigare uno accanto all’altra così a lungo con un certo livello di armonia. Nessuno dei due si è mai annullato né è stato fagocitato dall’altro.
Essere uniti, rimanendo diversi.
Ci tenevi molto a questo concetto. Lo ritenevi l’unica possibile forma di libertà all’interno di una coppia stabile.
L’ultima lettera che ti ho visto scrivere sul tuo miniscrittoio era per Amy. Varie volte hai appallottolato il foglio e lo hai gettato nel cestino, ricominciando subito dopo da capo. Ci sono volute due o tre sere per ottenere quello che desideravi. Alla fine, cosa rara, hai deciso di leggermela.
«Secondo te va bene?» mi hai chiesto.
«Non potevi scrivere parole migliori.»
Il giorno dopo siamo andati insieme all’ufficio postale a spedirla come raccomandata e dalla settimana seguente hai iniziato ad attendere la risposta. Ogni volta che sentivamo la Vespa del portalettere fermarsi davanti alla nostra cassetta, vedevo il tuo sguardo illuminarsi di speranza per poi spegnersi non appena ti accorgevi che si trattava solo di bollette. Naturalmente, prima ti eri servita di mezzi più moderni: messaggi WhatsApp che non avevano mai avuto il beneficio della lettura, e-mail senza risposta.
Davanti a quel suo prolungato silenzio ti ho chiesto se preferissi rimandare il nostro impegno.
«Aspettiamo ancora un po’» hai detto.
E così abbiamo fatto.
Ogni sei mesi, per tre volte, abbiamo spostato la data.
Prima di rassegnarti, hai fatto un ultimo tentativo. Le hai scritto accludendo un biglietto aereo per Roma. Pur non avendo avuto risposta neppure quella volta, il giorno stabilito hai comunque preso il treno e sei andata a Fiumicino. Sei rimasta a lungo ad attendere agli arrivi. Il volo era atterrato in orario ma recuperare i bagagli a Fiumicino è spesso un problema, a volte vanno persi.
«Cosa faccio? Aspetto ancora?» mi hai chiesto tre ore dopo.
«Credo che sia meglio che tu torni.»
Sono corso al traghetto per riuscire a venirti a prendere alla stazione di Livorno.
«E se fosse successo qualcosa, se fosse morta?» mi hai domandato quando già la sagoma dell’isola compariva all’orizzonte.
«No news, good news» ti ho rassicurato. Nessuna nuova, buona nuova.
Ti sei stretta a me senza più dire una parola.
Questo pomeriggio di novembre primaverile mi sono messo a leggere i giornali in giardino. Intorno a me vedevo sugli arbusti e sulle rose gemme apicali inquietantemente gonfie: l’autunno dovrebbe essere il preludio del sonno ristoratore. «Senza il sonno dell’inverno non può esserci primavera!» ti capitava di commentare negli ultimi anni, mentre guardavi sconsolata la vegetazione che ci circondava.
Ecco, ora abbiamo intorno a noi una natura insonne, mi sono detto e, mentre giravo una pagina del giornale, un’ape insonne ha iniziato a ronzarmi intorno.
Mi avevi insegnato tu a distinguere le api dalle vespe.
«Le api sono pelose come orsacchiotti, mentre le vespe sono glabre. Al contrario delle vespe poi, le api non hanno il dono di un girovita invidiabile.»
Mi raccomandavi di non agitarmi davanti a loro perché i movimenti bruschi potevano scatenare la loro aggressività. Nonostante la mia immobilità, quest’ape continuava a ronzare tra i miei occhiali e l’inutile pagina di politica interna. «Che cosa vuoi da me?» le ho detto a un certo punto. «Non sono un fiore!»
Chiudendo il giornale, mi sono reso conto che il problema era proprio questo: intorno non c’era neppure un fiore.
«La natura ci parla» dicevi «solo che siamo troppo presi dai nostri pensieri per essere capaci di ascoltarla.»
Quest’ape mi stava forse chiedendo aiuto?
Da una memoria non troppo lontana, ho sentito la tua voce: «Le api non sopportano di essere orfane troppo a lungo».