19

Passi nella nebbia

Tre giorni dopo ci sono stati i funerali.

Mia madre avrebbe voluto che si celebrassero nella chiesa della Rosa Mistica ma la gente che voleva partecipare era talmente tanta che abbiamo dovuto scegliere la chiesa parrocchiale.

Guardavo la bara di mia madre davanti all’altare e provavo un senso di irrealtà. Non ero pronto a quel passaggio. Aveva soltanto sessantadue anni. Pensavo che avremmo avuto ancora tanto tempo davanti a noi, il tempo in cui avrei potuto risarcirla per il grande dolore che le avevo causato non sposandomi e non dandole dei nipotini. Invece se n’era andata, lasciandomi con quella spada infilata nel cuore. Non ricordo le letture di quella funzione, ma ricordo che nell’omelia, il parroco riferendosi a mia madre ha parlato della silenziosa operosità del bene.

Il giorno seguente, sul giornale, c’erano parecchi necrologi in sua memoria. Per decidere cosa scrivere nel nostro, ho quasi litigato con mio padre. Lui avrebbe voluto mettere Maria Vittoria, mentre io insistevo per Aldina. Alla fine abbiamo raggiunto un compromesso.

Il marito Rodolfo e il figlio Andrea piangono addolorati la prematura scomparsa di
ALDINA

(MAVI per gli amici)
sposa e madre esemplare

La settimana seguente sono rimasto a Cormons con mio padre. Aveva settant’anni e non aveva mai vissuto da solo. Ogni tanto mi affacciavo discretamente alla camera di mia madre con la segreta speranza che fosse stato tutto un sogno; appena aprivo la porta, la gatta Mimì balzava dentro e correva a strusciarsi sulla poltrona dove lei sedeva di solito; sul tavolino accanto, c’erano la pila dei suoi libri e una «Settimana Enigmistica» che non era riuscita a finire.

Cosa avrei dovuto fare delle sue cose?

Non riuscivo a capirlo.

«Pensaci tu!» mi aveva detto mio padre ma in quei momenti non ero assolutamente in grado di pensarci.

Ho trovato una signora non più giovane disposta a venire tutte le mattine e a cucinargli anche qualcosa.

«Vuoi che rimanga ancora?» gli ho chiesto dopo aver organizzato il tutto.

«Non sono mica un bambino!» ha risposto burbero, scuotendo il capo.

Dalla cesta dei lavori spuntava l’ultima opera di mia madre, avrebbe dovuto diventare un cuscino con l’immagine di un gattino bianco e rosso che giocava con un grosso gomitolo di lana. Non so per quale ragione, forse per il timore che la signora lo buttasse via, me lo sono infilato nella valigia prima di andarmene.

«Qualsiasi cosa, chiama» ho detto sulla porta. «Per un po’ starò a Venezia, ci metto un attimo a venire a Cormons. Magari anche solo per un calicetto!» ho gridato quando ero già al cancello del giardino.

Mio padre ha sorriso con un sorriso che era già di un vecchio.

Tornato nel mio monolocale da troppo tempo disabitato sono stato assalito dalla tristezza della mia vita da scapolo. Guardavo il telefono e pensavo che non avrei mai più potuto chiamare mia madre, sollevare la cornetta e sentire la sua amata voce dirmi: «Andrea?».

Nei primi giorni dopo la morte di una persona cara si viene assorbiti dalle incombenze pratiche. È soltanto più tardi, quando non c’è più nulla da fare, che si viene colti da un vertiginoso senso di vuoto. Dov’era mia madre? Non c’era più, questo era il brutale dato di realtà. Ma davvero non c’era più o semplicemente era andata in una dimensione in cui non potevo più raggiungerla?

Quando la sua mano aveva lasciato la mia, avevo provato la stessa sensazione di quando, da bambino, mi sfuggiva di mano un palloncino. Ero convinto di tenerlo stretto, poi all’improvviso lo vedevo volare in alto, irresistibilmente attratto dal cielo.

In Ucraina era esploso il reattore nucleare di Chernobyl. Preso dalle preoccupazioni, non ci avevo fatto molto caso ma ora che ero tornato a Venezia non facevo altro che leggere articoli e vedere programmi che parlavano di una catastrofe epocale. Nulla sarebbe stato più come prima; sarebbero nati bambini con due teste o con tre gambe, come quelli che andavo a vedere al Museo di Scienze Naturali di fronte alla mia scuola di Trieste. Le radiazioni di cesio avrebbero risvegliato la mostruosità in tutte le forme capaci di generare vita; soltanto i sassi sarebbero rimasti esclusi da questa gara di orrori. Del resto, un amico di Cormons appassionato di pesca, mi aveva detto di aver visto, la mattina stessa della deflagrazione, morire misteriosamente tutti i girini in uno stagno. La televisione non ne aveva ancora parlato. «Da qui, l’Ucraina è praticamente dietro l’angolo» aveva commentato poi.

Mi alzavo la mattina ed ero preda di acuta disperazione.

Dove sta andando il mondo? mi chiedevo.

Dove sto andando io?

E non sapevo più rispondermi.

A novembre ero ancora a Venezia.

Non avevo preso alcuna decisione sul mio futuro. I risparmi delle crociere mi permettevano un po’ di agio. Prendevo tempo, mi dicevo, in realtà perdevo tempo; mi alzavo ogni giorno senza un programma che non fosse quello di arrivare fino a sera; la notte, l’unico scopo era quello di tirare l’alba riuscendo a dormire alcune ore. Bevevo un po’ troppo, niente di eccessivo, piuttosto uno stillicidio continuo di calici. D’altra parte quando sale l’ansia, cosa si può fare?

«Prendi degli antidepressivi» mi consigliava un amico «sono fantastici, in pochi giorni torni a sorridere.» Ma, a parte che sorridere non entrava tra i miei obiettivi immediati, ero nato e cresciuto nel Collio, come avrei potuto sostituire un Tokai, un Sauvignon con pillole che avrebbero agito dentro di me senza che ne conoscessi gli effetti? La mattina mi alzavo e, guardandomi allo specchio, sentivo la voce allarmata di mia madre sussurrarmi: «Hai proprio una brutta cera».

È nell’ordine delle cose sapere che un giorno si perderanno i propri genitori; eppure, quando succede davvero, è impossibile non provare un senso di smarrimento. A un tratto sei solo, non hai più nessuno che ti precede nel tempo. Il futuro ti appartiene e, se non ne hai ben chiaro uno, diventa un problema. Tutto pesa sulle tue spalle e, se le tue spalle non sono forti, rischiano di cedere. Credevo che le mie lo fossero, ma evidentemente mi sbagliavo. Se avessi avuto Erica accanto, pensavo ogni tanto, e un paio di bambini, tutto sarebbe stato diverso.

Molte volte, in quei mesi, avevo avuto la tentazione di cercarla, di tornare sui miei passi per provare a ricomporre ciò che con tanta avventatezza avevo distrutto. Non aveva forse detto: «Ti amerò per sempre?». Chissà, magari mi aveva perdonato e mi stava ancora aspettando, con il suo sorriso senza ombre e il suo desiderio di maternità. Nonostante queste fantasticherie però, in tutti quei mesi non avevo fatto un solo passo.

Uscivo la mattina e iniziavo il giro dei bar, ormai mi conoscevano tutti. Entravo e mi chiedevano: «Il solito?». Il solito era un caffè doppio corretto. Se il tempo non era inclemente, mi sedevo a un tavolino fuori, imbacuccato nel mio giaccone blu, a osservare i turisti. Il mio gioco era quello di tentare di indovinare la loro nazionalità dai tratti fisici, dall’abbigliamento, dal modo di muoversi. Non era poi così difficile, eravamo nel 1986, un bel po’ di viaggiatori mancavano all’appello per via della guerra fredda.

È stato proprio in una gelida mattina invernale che ho sentito risuonare dei passi solitari. Passi solitari in un’inclemente giornata di nebbia. Non poteva essere altro che una creatura del Nord, ho pensato. Uno svedese, un norvegese, tutt’al più un danese. Anzi una, perché l’incedere frettoloso sembrava piuttosto femminile. Mentre ero ancora assorto in queste elucubrazioni, dalla nebbia è uscita una voce.

E quella voce era la tua.

«Andrea! Sei qui!»

Dopo un istante, ti sei materializzata davanti a me.

«E dove dovrei essere?» ho risposto istintivamente. Siamo rimasti per un po’ a fissarci in silenzio, avvolti dallo stesso stupore.

«Posso?» hai chiesto e a un mio gesto vagamente benevolo ti sei seduta davanti a me.

«Fa molto freddo qui fuori» ho detto per scoraggiarti dal restare.

Hai sollevato le spalle con noncuranza.

«Come va?»

«Va.»

Intanto mi avevano portato il secondo bicchiere di bianco, l’ho tracannato in un sorso solo.

«Mia madre è morta.»

«Mi dispiace.»

«Tu comunque non le saresti piaciuta.»

Hai abbassato lo sguardo. Da dove veniva quel desiderio di ferirti? Dalla pietra che pensavo di averci messo sopra?

«Sono tornata perché ho deciso di finire gli studi.»

«Niente più Bali?»

«È stata una parentesi.»

«Una parentesi solitaria?»

Sei rimasta un po’ sovrappensiero prima di rispondermi.

«Diciamo di sì. Ma ora devo pensare al mio futuro.»

«E il futuro dell’umanità?»

Il rancore non mi aveva abbandonato.

«C’è un futuro?» mi hai risposto.

La nube radioattiva aleggiava ancora intorno a noi, probabilmente ci era già entrata dentro, modificando il nostro patrimonio genetico e dandoci la patente di futuri procreatori di mostri.

Nella piazzetta non passava nessuno; tra di noi, solo le nuvole di vapore prodotte dai nostri fiati. Hai guardato l’orologio.

«Ho una lezione importante.»

«Vai pure.»

Ti sei alzata sistemandoti la borsa dei libri sulla spalla.

«Mi piacerebbe rivederti» hai detto.

«Per fare cosa?»

«Così, per stare un po’ insieme… parlare… passeggiare…»

«Il mio numero ce l’hai» ti ho risposto stancamente poi ho ascoltato i tuoi passi che si allontanavano inghiottiti dalla nebbia.

Due domeniche dopo mi hai telefonato alle otto di mattina. Credevo fosse mio padre, per questo ho risposto.

Mi hai colto di sorpresa.

«È una bellissima giornata» la tua voce era piena di entusiasmo «perché non facciamo una passeggiata?» Davanti al mio silenzio, hai incalzato: «Alle dieci potrei essere lì».

«Va bene» ho acconsentito «ma aspettami sotto.»

Sei arrivata puntualissima.

Da casa mia a Dorsoduro ci siamo diretti verso le Zattere, da lì abbiamo osato andare a San Marco; dalla Riva degli Schiavoni poi ci siamo inoltrati tra le calli per raggiungere le Fondamenta Nuove; prima il giro esterno, poi il giro interno; poi ancora facevamo come i salmoni, percorrevamo controcorrente le calli e i ponti più affollati, altre volte campi e sestieri soltanto nostri.

All’inizio, la conversazione è stata un po’ stentata poi, con la scioltezza dei passi e l’aria frizzante, le tue parole hanno ripreso la vivacità di un tempo. Abbiamo parlato a lungo di Marco Polo e della Cina. Tu eri convinta che quella nazione sarebbe comunque stata il futuro e per questo pensavi che fosse importante studiarne la lingua. Entro un anno, massimo un anno e mezzo, ti saresti laureata.

«E poi?»

«Poi cercherò un lavoro.»

«Come guardia rossa?» ti ho stuzzicato.

«No, con quello ho chiuso.»

Mi hai raccontato poi di esserti fermata, dopo Pechino, alcuni mesi a Hong Kong. Lì, lontano dalla censura del regime, avevi scoperto la cultura cinese classica e quella che in fondo era stata solo un’infatuazione ideologica per la Cina si era trasformata in una vera e propria passione.

«Noi pensiamo sempre alle cose come fossero separate. La vita, la morte, l’anima, il corpo. Invece tutto è unito nel cosmo e tutto è legato dalla relazione. Ti ricordi Leibniz?»

«Le monadi senza porte e finestre?»

«Sì! Ecco, non c’è nulla di più sbagliato.»

«Addirittura!» ho risposto, scettico.

«Certo! La nostra cultura osserva tutto dal buco della serratura della razionalità. In realtà noi dipendiamo da fenomeni di cui non riusciamo neppure a immaginare l’esistenza.»

«Tipo?»

«Tutto ciò che non si vede e non si può valutare. Lo spirito degli antenati, gli influssi emanati dalla terra, dalle stagioni, dal cielo… La realtà è molto più complessa di ciò che possiamo comprendere con la nostra mente.»

Molte volte mi era capitato di pensarlo e così per la prima volta da quando ci eravamo ritrovati ti ho sorriso.

Siamo andati avanti così per il resto dell’autunno e tutto l’inverno.

Camminavamo per Venezia e parlavamo. Parlavamo e camminavamo, senza stancarci mai.

Ho trascorso quel Natale con mio padre a Cormons, è stato di una tristezza incommensurabile; invece di improbabili fiori, ho portato sulla tomba di mia madre un piccolo abete ornato di fili d’argento. A casa tutto era in ordine, tuttavia aleggiava tra le stanze un senso di desolazione. Mio padre si era fatto male la barba, c’era una parte della guancia su cui il rasoio non era passato; stavo per farglielo notare ma poi ho pensato che sarebbe stato meglio tacere.

È stato un inverno freddo, con forti nevicate e in alcuni punti la laguna era quasi ghiacciata.

Alla fine del Carnevale, un periodo che entrambi detestavamo, mi hai chiesto: «Non sei un po’ stufo di camminare sempre in questa specie di labirinto?».

«Sì, sarebbe bello cambiare, ma Venezia è così…»

«Non sono mai stata in laguna. Non si potrebbe prendere una barca? In fondo tu sei capitano.»

«Pensavo tu volessi camminare.»

«Sì, ma abbiamo fatto abbastanza i criceti, non ti pare?»

La domenica dopo mi sono fatto prestare un gozzo da un amico e abbiamo iniziato la nostra gita in laguna. Temendo che tu prendessi freddo, mi sono procurato una cerata gialla; aiutandoti a indossarla, per un istante sono stato sul punto di abbracciarti.