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Un luogo speciale

Ho deciso di passare il Natale in solitudine e non me ne sono pentito. Era una splendida giornata di sole, non c’era nessuno in giro; mi sono preparato un panino, ho preso l’acqua, il binocolo e con lo zainetto sulle spalle ho raggiunto il nostro promontorio; in principio l’aria era frizzante ma con il passare delle ore si è fatta calda al punto che ho dovuto togliere la giacca a vento.

Ogni coppia di innamorati ha il proprio luogo?

Non lo so. So che noi, fin dai primi tempi, ne abbiamo avuto uno speciale. Finché siamo vissuti al Lido, il nostro posto era la laguna; avevamo comprato una barchetta in vetroresina e quando eravamo liberi o ne sentivamo la necessità andavamo in giro per le barene.

È stato proprio durante una di queste gite che mi hai esposto la teoria cinese del feng shui. Anche i luoghi, mi hai spiegato, influenzano quello che siamo, ci sono luoghi propizi, luoghi neutri e luoghi nefasti; per confermare questa teoria, mi hai citato un ristorante nell’entroterra che, pur cambiando gestione, continuava a fallire; era stato costruito su una curva a gomito e questo per il feng shui è deleterio. A me non sarebbe mai venuta in mente un’idea simile, come non mi sarebbe venuto in mente che bisognasse scegliere un posto speciale dove stare insieme. Te ne ho chiesto la ragione.

«Speciale perché siamo noi due, da soli. Tutto quello che ci sta intorno, le preoccupazioni, i pensieri li lasciamo alle spalle. Siamo finalmente liberi di dirci tutto quello che vogliamo.»

Appena ci siamo trasferiti sull’isola hai subito voluto andare alla ricerca di questo luogo speciale. Lo hai trovato a due ore di cammino da casa. Era un promontorio a picco sul mare; in un tempo molto lontano vi avevano vissuto dei monaci eremiti, le differenti colorazioni delle rocce parlavano dell’attività di due vulcani, esplosi in epoche diverse; c’erano rocce rosse, rocce scure e distese di piante basse in cui nidificava una colonia di gabbiani.

Nelle stagioni morte, quando dal mare non saliva il rumore sordo delle barche dei turisti, il silenzio umano era assoluto, si sentivano soltanto l’infrangersi più o meno violento delle onde, i richiami dei gabbiani in volo, il sibilo delle raffiche di vento che trascinavano via le nostre parole.

Portavamo sempre due binocoli perché da lassù era possibile vedere passare le balene. Non accadeva spesso ma accadeva; in quei rari casi rimanevi in silenzio, estasiata.

«Eccola!» dicevi a bassa voce, come se fosse uno scoiattolo che si sarebbe spaventato al suono della tua voce.

«Credi che scappi, se ti sente?» ti ho detto una volta, prendendoti in giro.

«Non capisci? È come trovarsi sulla soglia di un tempio.»

Siamo rimasti così, con i binocoli puntati su quell’enorme massa grigia che nuotava non lontano dalla costa; ci pareva di sentire il soffio del suo sfiatatoio e che quel soffio fosse anche il nostro respiro e il respiro stesso del mondo. Quando poi, a un tratto, è scomparsa nella profondità del mare lasciando per ultima la sua gigantesca coda abbiamo trattenuto il fiato.

«Dove va?» hai chiesto.

«Negli abissi.»

Arrivato sulla punta mi sono seduto tra i sassi, i rosmarini e i resti di nidi della stagione precedente, e ho scrutato l’orizzonte; non c’era un filo di vento, anche il mare era insolitamente piatto; dopo un po’ ho visto un gruppo di delfini, erano una decina, i loro dorsi luccicanti balzavano ritmicamente fuori dall’acqua. Ero solo ma per alcuni istanti ho avuto l’impressione che tu fossi seduta accanto a me avvolta nel tuo giaccone con il cappuccio.

Soffiava il maestrale quel giorno, il vento strappava via le nostre voci; malgrado il tempo inclemente, avevi insistito per andare al nostro promontorio. Io sarei rimasto volentieri a casa, al calduccio. Eravamo seduti lì da qualche minuto quando hai detto qualcosa, l’ho capito dal movimento delle tue labbra perché le tue parole erano già volate in Corsica.

«Cos’hai detto?» ti ho chiesto, avvicinando la mia bocca al tuo orecchio.

«Se mi rifai quella proposta» hai gridato per farti sentire.

«Quale?»

«Quella di quando ti sei vestito da becchino.»

Ho avuto un attimo di smarrimento. Da becchino? E quand’era successo? Poi dalla memoria è emersa l’immagine di me in piedi davanti al cancello di casa tua con la scatolina dell’anello in mano.

Quanti anni erano passati?

Di sicuro una trentina.

Mi sono girato a guardarti. Osservavi l’orizzonte, il vento faceva volare i tuoi ricci sfuggiti dal cappuccio; davanti a noi c’era la sagoma azzurrina della Corsica.

Ho preso la tua mano tra le mie.

«Sei sicura di quello che hai detto?»

«Sicurissima.»

«Non ho l’anello con me.»

Sorridendo hai messo una mano in tasca facendo ricomparire la scatoletta che avevo scagliato a terra davanti a casa tua.

«Ce l’hai ancora?»

«Pensavi che l’avessi buttato nella spazzatura?»

Il biglietto che lo accompagnava l’avevo strappato la sera stessa ma non mi ero mai domandato che fine avesse fatto l’anello.

«Allora?» hai incalzato.

Ho fatto un grosso sospiro per liberarmi di un peso che mi opprimeva il diaframma. Da quanto tempo era lì? Frammenti della nostra vita insieme sono comparsi in rapida e confusa successione nella mia memoria.

«Edith, mi vuoi sposare?»

«Sì.»

Trasportati dal vento, due gabbiani hanno sfiorato le nostre teste.

«Sei sicura di voler sposare un vecchio noioso e di restare con lui fino a che morte non vi separi?»

«Sì, sì, sì» hai risposto.

Districandoci tra cappucci, cerniere, sciarpe, guanti e la forza del vento ci siamo baciati con il gioioso entusiasmo delle prime volte.

Rientrato a casa nel primo pomeriggio ho acceso la televisione per sapere cosa era successo nel mondo. Mi sono imbattuto in un programma in cui la gente rideva senza ragione e, ancor più senza ragione, batteva le mani. Ho spento subito.

Faceva un po’ freddo in casa così mi sono accorto che era finito il gasolio. Era sabato e per di più il giorno di Natale, nessuno sarebbe potuto venire prima di lunedì o martedì. «La specialità della caldaia è quella di santificare le feste» avevi detto una volta in un frangente simile; secondo te era un destino inevitabile restare al freddo nei weekend, come quello delle lavatrici che divorano le calze e delle lavastoviglie che ingoiano cucchiaini; un guasto in un giorno feriale non era che l’eccezione che confermava la regola.

Sono andato nel ripostiglio del giardino a prendere un po’ di legna, in un cesto c’erano ancora delle pigne oculatamente raccolte tempo prima. Su uno degli scaffali più alti, l’altalena imballata era ancora lì. Dovrei buttarla, mi sono detto, e l’ho messa in un angolo, insieme a dei vasi rotti.

Dopo aver fatto partire il fuoco mi sono appisolato sul divano, protetto dal tepore di una coperta. I sogni che si fanno di giorno sono diversi da quelli che popolano le nostre notti?

Sono in un luogo buio, mi muovo a fatica. Dove sono? mi domando nel sogno. Nello spazio non può essere, perché non vedo le stelle intorno. All’improvviso scorgo di lato un lieve lucore, non capisco cosa sia, vengo colto dal terrore, poi capisco, è il muso di un capodoglio, ho le pinne? le squame? sono un pesce? mi chiedo cercando una via di fuga; in quel momento dalla parte più profonda dell’abisso vedo comparire un gigantesco tentacolo poi un altro e un altro ancora, il capodoglio e un calamaro gigante stanno per iniziare un combattimento; vedo il calamaro avventarsi con tutta la sua potenza sulla testa del cetaceo, avvolgerla, serrandogli gli occhi e la mandibola. Tra un po’ scorreranno ettolitri di sangue, mi dico, sentirò il sapore in bocca ma non riuscirò a vederlo perché quaggiù regnano le tenebre…

In quel momento, per fortuna, è squillato il telefono e mi sono svegliato.

Quanto ti aveva affascinato la storia dei combattimenti dei giganti degli abissi. Credevi che si trattasse di leggende e quando ti ho detto che esistono davvero calamari lunghi quindici metri nascosti nelle oscurità più profonde, hai spalancato gli occhi per lo stupore.

«Dunque, là sotto si combatte?» hai domandato intimorita.

«Certo.»

«Come fai a saperlo?»

«Gli stomaci dei cetacei morti sono pieni di becchi di calamari, non riescono a digerire le parti dure.»

«Vince sempre la balena?»

«Il calamaro è il suo cibo, ma non lo sappiamo. Può darsi che alcune balene, a causa delle ferite ricevute, si inabissino.»

Questa stessa conversazione l’avevamo già avuta anni prima, in laguna.

«Adoro le acque basse» avevi detto quella volta, poi avevi proseguito più seria: «Promettimi che non lo dirai mai ad Amy».

«Mai. Prometto!» e avevo avviato il motore della nostra barchetta.

Nell’autunno dello stesso anno in cui ho conosciuto Amy siamo andati a vivere insieme, ho abbandonato la mia casa da scapolo a Dorsoduro e ci siamo trasferiti al Lido.

Eri stata tu a sceglierlo.

«È un po’ meno claustrofobico. Si può camminare per le strade come se fosse un luogo normale.»

Amy avrebbe cominciato l’asilo e tu avresti continuato a fare l’assistente del tuo professore di Ca’ Foscari, seppur senza alcun riconoscimento economico. Io avrei proseguito il mio regolare tran-tran lungo il Mediterraneo.

«Non ti dispiace che io sia sempre via?» ti ho chiesto una volta, partendo.

«Ma no, così posso vivere con l’allegria dei cani che aspettano il ritorno del padrone. E poi sei sicuro che ti sopporterei, se ti avessi tra i piedi tutti i giorni?»

L’inaugurazione della casa è coincisa con il terzo compleanno di Amy, alla fine di settembre. Hai ornato l’appartamento con grandi festoni di carta colorata fatti appositamente da te e tua madre ha portato una torta di compleanno decorata con un coniglietto di zucchero accanto alla scritta Tanti auguri, Amy e tre candeline rigorosamente rosa.

Amy era molto legata alla nonna dato che i primi due anni li aveva passati principalmente in sua compagnia.

Anche tua madre sembrava rinata con quel folletto che trotterellava per casa; il tempo cupo della vedovanza, avvelenata dal sospetto del tradimento, si era dissolto grazie anche a un incontro avvenuto un paio di anni prima sul treno che da Mestre la portava a Padova. Stava andando a trovare un’amica e si era trovata di fronte a un signore che continuava a fissarla.

«Lei non è Ines, la moglie di Giacomo?» le aveva chiesto appena il convoglio si era messo in movimento. A quel punto anche tua madre si era resa conto che quel volto non le era sconosciuto. Il nome non le veniva in mente, ma si ricordava che era stato un amico di suo marito.

«Sono Eros, si ricorda? Cantavo con suo marito nel coro degli alpini.» Si erano stretti la mano. «Devo forse scusarmi di una cosa con lei» aveva proseguito. «Il giorno dell’incidente avevo dato a Giacomo il cappotto di mia moglie. Sapevo che sua suocera era un’ottima sarta e volevo che lo allargasse un po’ perché dopo la gravidanza faceva fatica a chiuderlo.»

La morte improvvisa e violenta dell’amico, le aveva spiegato, aveva cancellato il ricordo di quell’episodio e quando gli era tornato in mente nelle settimane seguenti non aveva avuto il coraggio di suonare alla porta di casa e di chiedere indietro il cappotto. Davanti a una tragedia così grande come avrebbe potuto compiere un gesto tanto indelicato?

Tua madre si era illuminata.

«Se vuole, ce l’ho ancora!»

L’amico era scoppiato a ridere: «Altroché allargare. Adesso per mia moglie ce ne vorrebbero due. Lo regali a qualcuno che ne ha bisogno».

E così, il giorno dopo, lei lo aveva fatto. Era andata a un punto di raccolta della Caritas e se n’era sbarazzata. Là dentro, tra quelle pareti gialle, insieme al cappotto erano scomparsi anche gli ultimi dei suoi fantasmi.

Tornando a casa, ci aveva raccontato, aveva ripensato sorridendo alle sedute spiritiche di un tempo. Come mai nessuno degli spiriti che si alternavano a parlare le aveva detto la verità? Forse perché era troppo banale! Come avrebbe potuto dire, tramite la roca voce della medium, che il cappotto aveva bisogno di essere allargato? Sarebbero scoppiate tutte a ridere.

«Comunque, da quando quell’indumento non è più in casa, mi sento nuovamente piena di energia. Era come una spugna che assorbiva ed emanava influssi negativi.»

«L’energia negativa è quella che avevi dentro» avevi commentato tu.

«Credo che tutti ce l’abbiamo quando ci sentiamo traditi nell’amore» era stata la sua risposta.

Rammendata quella voragine della memoria, anche il vostro rapporto aveva trovato un nuovo equilibrio; nonna Ines era indispensabile per la crescita di Amy e tu ti fidavi delle sue scelte perché, malgrado le tue ribellioni, eri ancora disperatamente figlia; avevi dovuto diventare adulta dopo la perdita di tuo padre. Ristabilita la verità – non era un traditore, non aveva una doppia vita – ti eri presa il lusso di tornare in un certo senso bambina.

Oltre a fare la nonna, tua madre aveva cominciato a impegnarsi con il comitato di quartiere nelle lotte contro l’inquinamento di Marghera e un pomeriggio alla settimana dava ripetizioni di matematica ai bambini e ai ragazzi che non potevano permettersele.

Quel giorno, per il compleanno di Amy, aveva portato un grande album da disegno e una scatola di matitone, la piccola si era subito messa a riempire i fogli con disegni indecifrabili. Disegnando, parlava a voce alta, spiegando a se stessa quello che stava facendo.

Gli anni passati al Lido erano stati scanditi da una serena e banale quotidianità. Amy aveva perso il suo primo dente, lo aveva messo sotto il cuscino e il giorno dopo il topolino le aveva portato un regalo. A cinque anni aveva avuto la varicella. A sei aveva fatto il suo ingresso alla scuola elementare. A sette aveva cominciato a praticare il pattinaggio artistico.

Tu intanto avevi iniziato la carriera universitaria, la spregiudicatezza ambiziosa dei rampanti non ti apparteneva ma la tua dedizione allo studio ti aveva fatto comunque avanzare. L’ambiente accademico era mediamente ostile e pieno di trappole, per questo ti muovevi con cautela.

Io, nel frattempo, continuavo a navigare ed erano proprio queste mie assenze a rendermi più dolce l’idea del ritorno. Invece di aprire la porta del mio buio monolocale pieno di polvere, con i bicchieri impilati nel lavello, appena entravo nella nuova casa trovavo una bambina che mi buttava le braccia al collo urlando «zio!» come se ogni volta si ripetesse un miracolo inaspettato.

Dopo esserci trasferiti al Lido, abbiamo discusso a lungo se fosse giusto o meno che lei continuasse a chiamarmi in quel modo, agli occhi di tutti eravamo una coppia innamorata con una bambina. Tutti infatti pensavano che fossi il padre.

«Non sarebbe più semplice se mi chiamasse papà?»

«No, perché non lo sei. Ai bambini non bisogna mai dire le bugie. Le bugie sono come un boomerang» era stata la tua risposta. «Le lanci, ti dimentichi di loro e, quando meno te lo aspetti, tornano indietro e ti colpiscono alla nuca.»

La consapevolezza di non essere in realtà il padre di Amy l’avevo relegata in una stanza segreta dei miei pensieri, si affacciava raramente e per pochi istanti, magari quando, crescendo, vedevo un tratto del volto che non era tuo o un movimento, un’espressione che non apparteneva a nessuno di noi due.

Con l’ingresso nella scuola elementare abbiamo dovuto affrontare l’arduo scoglio della festa del papà. Amy era tornata a casa imbronciata con in mano un foglio in bianco su cui aveva scritto: Il mio papà. Come compito a casa avrebbe dovuto disegnarlo e scriverci sotto un pensierino.

«Non so cosa disegnare!» ha gridato, puntando i gomiti sul tavolo.

«Fai lo zio» l’hai incoraggiata.

«Ma è mio zio!»

«Sì, ma è uno zio speciale.»

«Speciale?»

«Ce ne sono pochissimi al mondo. È uno ziopapi. Dovresti essere davvero felice di avere uno ziopapi e non un papà come tutti gli altri.»

Rincuorata da quella notizia, Amy ha disegnato una sorta di nave con un camino che mandava fumo; la nave era sovrastata da una figura gigantesca con una cosa tonda in mano. Ha aggiunto sotto, come pensierino: Ziopapi salva quelli che annegano.

Da quel giorno «ziopapi» è diventato il mio appellativo.

«Ziopapi!» gridava, quando l’andavo a prendere a pattinaggio.

«Ziopapi, guarda!» strillava quando trovava una conchiglia degna di attenzione sulla spiaggia.

Nel tempo libero andavamo in giro per la laguna a bordo della barchetta in vetroresina. Le avevo insegnato a distinguere tutti gli uccelli marini e gli aironi. Appena ne scorgeva uno, ripeteva a voce alta il suo nome e poi si girava, aspettando la mia approvazione.

Quando è stata abbastanza grande, ho comprato una togna di sughero per insegnarle a pescare; era un semplice filo con un amo piombato alla fine. Ho fermato la barca in un posto che ritenevo idoneo, ho buttato l’ancora e siamo rimasti in silenzio ad attendere che un pesce abboccasse. Amy aveva lo sguardo scintillante e tutto il suo corpo mostrava un’eccitazione contenuta. Quando finalmente abbiamo tirato su un sarago che si dimenava forsennatamente tutto è cambiato, vedendo l’amo con il sangue nella bocca e la disperazione nei suoi occhi, si è tirata indietro terrorizzata da quel corpo guizzante.

«Adesso no!» ha gridato. «Adesso no. Cosa ne facciamo?»

Sorpreso da quella reazione ho detto la prima cosa, e la più stupida, che mi è venuta in mente: «Lo portiamo a casa e lo mangiamo».

Amy allora è scoppiata in singhiozzi.

«No! Lo uccidi. Lo vuoi uccidere!»

«Stavo scherzando» ho detto cercando di rimediare poi, impegnando tutta la mia abilità, sono riuscito a sfilare l’amo dalla bocca senza strapparla, e a rimettere il pesce in acqua.

Vedendolo scomparire tra le alghe Amy si è un po’ calmata.

Non mi ha rivolto comunque la parola fino a che non siamo arrivati a casa e si è buttata tra le tue braccia.

Sei rimasta con lei fino a che non si è addormentata poi ti ho visto arrivare in cucina.

«Ma sei impazzito?» mi hai aggredito. «Come ti è venuto in mente di farle vivere un’esperienza del genere?»

Ho tentato goffamente di difendermi: «Di solito ai bambini piace pescare».

«Forse a voi stupidi maschi.»

Nei giorni seguenti una luce sconosciuta è comparsa nello sguardo di Amy. Parlava poco e non mi guardava mai negli occhi.

Sono partito con quell’inquietante luce chiusa nel mio cuore. Al mio ritorno, però, è venuta a rannicchiarsi accanto a me sul divano.

«Gli abbiamo dato da mangiare ma non perché gli volevamo bene…» ha mormorato. «L’abbiamo imbrogliato per ucciderlo.»

«Tesoro» le ho risposto accarezzandole i capelli «hai visto con i tuoi occhi che è tornato in acqua sano e salvo. Adesso sta con la sua mamma e con i suoi fratelli.»

«Sei sicuro? Come fai a saperlo?»

«Sono o non sono un capitano? Sai quanti pesci ho visto tornare a casa sani e salvi?»

«Anche le tartarughe?»

«Certo!»

«E i cuccioli dei delfini?»

«Naturale!»

«E i cavallucci marini?»

«A centinaia, e anche migliaia di stelle marine.»

Rassicurata da quell’elenco, Amy si è addormentata su di me.

Quel giorno su quel divano, due cose mi sono state chiare: che Amy era indiscutibilmente tua figlia e che quella mattina, sulla barca, il candido universo della sua infanzia si era definitivamente incrinato.