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La figlia perduta
È la terza volta che vado a trovare le mie vecchie nemiche.
Finora sembra che abbiano sottoscritto un patto di non belligeranza perché non mi hanno mai punto. In realtà, penso che non mi considerino proprio, hanno tutte un gran da fare laggiù tra i telaini. Quelli centrali sono già tutti opercolati, le celle sono chiuse per permettere alla pupa di compiere il misterioso processo che la trasformerà in una piccola ape. Le regine sembrano in ottima forma; seguite dalla loro corte, depongono uova con una regolarità impressionante.
«Adesso capisco l’intima soddisfazione di un allevatore quando vede che le sue api stanno bene» mi avevi detto un giorno.
Questa mattina ho capito cosa intendevi. Osservando l’armonioso brulicare di vita, ho provato un senso di pienezza sconosciuto. Tutto andava nel migliore dei modi nelle arnie e mi illudevo di esserne in parte il responsabile.
La primavera ormai era esplosa intorno. Tra i cespugli e gli alberi era tutto un frenetico andirivieni di uccelli intenti a fare il nido. Beati loro, mi sono sorpreso a pensare, la natura ha stabilito un «come», un «quando» e un «con chi» riprodursi, salvandoli dal complesso intreccio di scelta e di destino che costituisce la vita di noi esseri umani.
Oggi ho controllato la presenza di celle reali. Quando me ne parlavi, le immaginavo come una stanza piena di gioielli, quasi una grotta di Aladino. «È lì che cresce la regina» mi dicevi, ma come e perché questo accadesse non mi era chiaro. Ora lo so, l’ape regina è un’ape come tutte le altre ma viene nutrita in modo diverso, solo con la pappa reale, e non cresce in una cella esagonale ma in una più grande simile a un’arachide ai bordi del telaino.
«Le celle reali» mi hai spiegato un giorno «vanno tolte per evitare il rischio di una sciamatura.»
È ancora viva nella memoria la prima volta che ti è successo. Stavo leggendo il giornale sulla panchina in fondo al prato, quando ho sentito intensificarsi un rumore non molto diverso da quello di un elicottero in lontananza. Tu eri andata a fare la spesa e, quando quella nube demoniaca è fuoriuscita dall’arnia, compiendo quella che mi era sembrata una folle danza, sono corso a ripararmi in casa. Sei arrivata poco dopo e hai lasciato cadere le borse della spesa a terra con un’espressione di meraviglia: «Sono sciamate!».
Ti sei infilata in fretta la tuta e con l’aiuto di una scaletta ti sei inerpicata sull’albero per tentare di recuperare le api dal ramo su cui si erano raccolte. Non era un’operazione semplice così ti sei girata e mi hai chiesto: «Mi dai una mano?».
«Non ci penso neppure» ti ho risposto impaurito, al riparo della finestra della cucina.
Alla fine ce l’hai fatta, hai catturato il nucleo con la regina e l’hai fatto cadere nel porta-sciami che avevi preparato sotto l’albero, poco dopo tutte le api l’hanno ordinatamente seguita all’interno.
Nel pomeriggio, con una tazza di tè in mano, mi hai spiegato che cos’è la sciamatura: si verifica quando la regina vecchia se ne va con un gruppo di fedelissime a fondare una nuova colonia.
Ti ho guardata incredulo.
«E perché lo fa?»
«Evidentemente ho lasciato una cella reale da qualche parte ed è nata una nuova regina, così la vecchia ha deciso di andarsene.»
«Le lascia tutto il regno?»
«Proprio così.»
Ho pensato che in fondo anche noi un giorno avremmo lasciato la nostra casa ad Amy perché questo era il corso naturale delle cose. L’ho pensato, ma ho taciuto per non vedere scomparire dal tuo volto l’espressione di gioia di quel giorno.
«Sarebbe meglio non farle sciamare» hai detto poi «ma non trovi che facciano una grande allegria?»
«Non provo ancora questo contagio.»
«Perché hai troppa paura» hai sorriso e fino all’ora di cena ti sei rifugiata nello studio a scrivere i tuoi appunti.
Mentre Amy frequentava il penultimo anno di liceo mio padre è morto. Si è trattato di una morte rapida e indolore; si era messo a letto la sera con un po’ di affanno e la mattina non c’era più. Non ha causato un incolmabile vuoto in me, non era mai stata una grande presenza nella mia vita. Ha lasciato a Nives, che non aveva sposato, l’ufficio di Gorizia mentre io ho ereditato la villa di Cormons con tutta la tenuta.
Ci è stato subito chiaro che non avremmo voluto invecchiare in quella casa enorme, piena di memoria e costosa da mantenere e avremmo preferito sbarazzarcene. In fondo, al Lido ti eri sempre sentita prigioniera e con il passare degli anni quella prigione fisica era diventata anche una prigione esistenziale. L’insegnamento non ti appassionava più, i ragazzi erano distratti e deconcentrati, trattavano il cinese con la stessa leggerezza dell’inglese. Presto Amy avrebbe finito il liceo e si sarebbe trasferita da qualche parte a fare l’università.
«Vorrei lasciare il lavoro e questa casa» hai proposto infine «possiamo permettercelo?»
«Se vendiamo Cormons, sì.»
In pochi mesi ho trovato un acquirente, un ricco russo che voleva investire nel vino. Dalla villa ho portato via i ricordi più cari di mia madre, un vecchio mappamondo e, dalla biblioteca, i libri che avevo più amato. Poi ho chiuso la porta alle mie spalle, senza più girarmi indietro.
Abbiamo discusso a lungo su cosa fare.
Tu amavi la montagna, io il mare.
Per questo, alla fine, abbiamo optato per un’isola. Che cos’è infatti un’isola se non un pezzo di montagna scaraventato in mezzo al mare? In entrambi i posti c’è la totale apertura dell’orizzonte ed era questo che desideravi più di ogni altra cosa.
«Era ora di lasciare questo mortorio!» ha commentato Amy, quando gliene abbiamo accennato. I rapporti con lei erano sempre tesi e altalenanti. In molte durezze era simile alla ragazza Edith che avevo conosciuto sul traghetto per il Pireo.
Però, nel frattempo, il mondo intorno a noi era cambiato, Mao Tse-tung era diventato un personaggio remoto della storia come Carlo Magno; gli ideali, i sogni, le utopie erano stati divorati da un utilitarismo privo di scrupoli, i giovani erano stati trasformati in un’importante categoria di consumatori e l’offerta che si apriva davanti a loro diventava di anno in anno più diversificata e allettante. La comparsa dei telefoni cellulari aveva creato una serie infinita di bolle in cui vivevano mondi in grado di comunicare soltanto al proprio interno. La pacifica marijuana dei «figli dei fiori» era stata sostituita da un’infinità di pasticche create in laboratorio, capaci di distruggere in un sol colpo un’intera vita. Lentamente e inesorabilmente, come i balani che in poco tempo corrodono uno scafo non trattato, il cinismo aveva invaso ogni spazio della vita sociale e la furbizia era diventata una delle qualità più ambite.
Nonostante l’avessimo cresciuta con una visione del mondo molto diversa da quel «Mors tua, vita mea», Amy non si sottraeva allo spirito del tempo. Forse, se non fosse morto Marco, non sarebbe andata così, ma da quella falla era entrata dell’acqua e nessuno era riuscita a fermarla. Con il tempo, ti eri convinta che a quella falla avesse contribuito non poco il mistero in cui era avvolta la sua paternità biologica.
Al ritorno dal tuo viaggio solitario, le avevi chiesto: «Vuoi che parliamo di quella cosa di cui non abbiamo mai parlato?».
«Non me ne frega niente» ti aveva risposto, fulminea.
Amy ha superato la maturità con il minimo dei voti. Qualche giorno dopo ci ha comunicato che voleva continuare i suoi studi al Dams di Bologna.
«Avete qualcosa in contrario?» ha chiesto.
«Ma no, ne siamo felicissimi.»
Abbiamo aperto una bottiglia di spumante per festeggiare la fine della scuola. Tu hai scaricato i programmi dei corsi di studi del Dams e hai passato un pomeriggio intero con lei a valutare quale sarebbe stato il più adatto.
In agosto siete andate insieme a Bologna a cercare un appartamento e a settembre si è trasferita lì.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno non ha voluto trascorrerlo con noi ma con i suoi amici. Sono andati a un rave party in un casolare abbandonato nella campagna veneta. Ha dormito fuori per due notti. Quando è tornata, glielo abbiamo fatto notare.
«Che ve ne importa?» ci ha risposto. «Ormai sono maggiorenne.»
Dato che lo zaino della nonna Ines si era logorato, gliene abbiamo regalato uno nuovo più capiente, sperando che fosse un invito ad abbandonarsi all’allegria di un viaggio per il mondo.
Sul comodino le hai lasciato una busta con scritto Per i tuoi diciott’anni. Non abbiamo mai saputo se l’avesse letta o se l’avesse distrutta prima di aprirla. Una volta che era stata particolarmente offensiva nei tuoi confronti, l’avevo ripresa con una certa fermezza.
«Taci tu che non sei niente!» mi ha risposto.
Eravamo convinti che facesse uso di droghe e ci sentivamo totalmente impotenti. Se interrogata, negava alzando le spalle.
«Le droghe sono nel vostro cervello.»
Non conoscevamo più nessuno dei suoi amici, né a lei veniva in mente di presentarceli.
Intanto noi avevamo comprato la casa sull’isola e avevamo cominciato a ristrutturarla. Facevamo la spola tra Venezia e Livorno e ogni tanto tu ti fermavi a Bologna. Da quelle visite uscivi sempre più turbata.
«Non mi sembra che studi un granché» mi dicevi. «Non mi piacciono le persone che ha intorno.»
A febbraio, una forte nevicata aveva interrotto il tuo viaggio da Livorno e Venezia e avevi deciso di fermarti da lei. Avevi suonato e ti avevano aperto ma, dall’espressione del ragazzo alla porta, si era capito che stavano aspettando qualcun altro. La casa di nostra figlia era in realtà un centro di spaccio, il tavolino era pieno di pastiglie colorate che il tizio, che Amy guardava con sguardo adorante, stava distribuendo in tante piccole buste.
«È tua madre?» le aveva chiesto, vedendoti.
«Purtroppo sì.»
A quel punto tu, invece di andartene, ti eri trasformata in una belva. Avevi preso a calci il tavolo, gridando: «Non permetterò che questa merda uccida mia figlia!». Avevi cercato di mollare uno schiaffo al giovanotto ma lui ti aveva bloccata in tempo, trascinandoti alla porta e spingendoti fuori mentre tu continuavi a gridare: «Vi denuncio tutti! Vi mando tutti in galera!».
Sei tornata a casa in uno stato di assoluta prostrazione, non ti avevo mai vista così. La casa del Lido era già mezza sbaraccata, ti sei gettata sul letto, sospirando.
«La mia vita è stata un unico errore.»
Mi sono seduto davanti a te, la sponda del nostro letto ha cigolato. «Hai solo avuto una vita molto complicata. Del resto le persone complicate raramente hanno vite semplici.»
Un mese dopo, in un blitz antidroga, la polizia ha arrestato il compagno di Amy. Lo abbiamo visto insieme al telegiornale. Il giorno seguente hai chiamato nostra figlia ma non ti ha risposto. Hai scritto una e-mail e la e-mail è tornata indietro. Sei andata a Bologna e hai suonato un’altra volta alla sua porta. Ti ha aperto una ragazza allegra.
«Amy? Non abita più qui. Sono subentrata al suo affitto.»
«E dove è andata?»
«Non ne ho la minima idea.»
Da quel giorno, dei nostri due figli, uno riposava sotto la fredda pietra di un cimitero e l’altra considerava noi morti.