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Una nebbia fittissima
Da qualche giorno è cambiata l’ora e ancora non sono abituato alla rapidità con cui il buio scende sulla casa. Mi ricorda lo stupore che provavo durante le mie prime navigazioni verso l’Equatore. Lì, davanti a quell’oscurità che cadeva sul paesaggio intorno con la velocità di una vecchia saracinesca, mi sono reso conto che poter contemplare le sfumature dei tramonti è un privilegio concesso a chi vive nella parte più alta dell’emisfero boreale. Tra il giallo e l’arancio, tra l’arancio e il rosso, ci sono un numero pressoché infinito di gradazioni, ed è la consapevolezza di quella varietà che ci mette al riparo dalla grande nemica della vita, la rigidità.
«Anch’io ero rigida da giovane» hai ammesso una volta. «Forse è inevitabile esserlo, finché si ha molta energia nel corpo e molta ignoranza nell’anima.»
«Io non sono mai stato rigido» ho obiettato.
Sei stata un attimo in silenzio, poi hai annuito.
«Hai ragione… all’inizio pensavo di sì, ma poi ho capito che eri semplicemente fermo. E tra la fermezza e la rigidità si stende un abisso.»
«Se fossi stato rigido, non avrei potuto starti dietro, inseguirti, avere la pazienza di aspettarti.»
«Tu eri abituato a stare sul ponte di comando. Anche se vedevi una tempesta all’orizzonte, sapevi di avere i mezzi per affrontarla.»
«Be’, non sempre… a volte ho avuto anche paura.»
«Certo, ma sapevi che il tuo compito era salvare le vite e i beni che ti erano stati affidati, conducendo la nave in porto.»
«E in caso contrario, affondare con lei.»
«Avere una ragione per morire vuol dire avere una ragione per vivere… Era quello che a me mancava. Ecco perché avevo inseguito la prima che mi era capitata a tiro.»
Il nostro terzo incontro, quello del tazebao, è avvenuto un po’ prima di Natale. Ricordo che era scesa una nebbia fittissima su Venezia e non aveva sollevato il suo manto dalle calli per più di una settimana. Nei canali più stretti si sentiva appena il regolare tonfo dei remi, le navi passavano lente davanti alle Zattere come enormi fantasmi; nell’aria ovattata le loro sirene sembravano il grido di un grande animale sofferente.
Malauguratamente, avevo una settimana di ferie. Il programma era andare a trovare i miei e passare le festività del Natale con loro, invece, ho telefonato a mia madre per avvisarla che avrei tardato un paio di giorni.
In realtà, ero in preda a una rabbia furiosa e in quelle condizioni non me la sentivo di chiudermi nella casa di Cormons. A mia madre non sarebbe sfuggito lo stato di profondo turbamento in cui mi trovavo.
Come avrei fatto a spiegarglielo?
Ho incontrato una ragazza arrogante e non faccio altro che pensare a lei?
Per sbollire il furore, camminavo con passo veloce per le calli più deserte. Camminando, parlavo tra me e me come a volte fanno i pazzi; avvertivo che mi stava sfuggendo di mano il controllo della mia vita. Davanti a questa deriva mi sentivo impotente; pensavo al barbuto che ti aveva circondato le spalle con protettiva confidenza e desideravo soltanto di farlo finire nel canale con un calcio nel sedere; poi me la prendevo con me stesso. Possibile che tu debba perdere tempo in cose così inutili? Che uno studentello qualsiasi sia in grado di renderti inerme e furioso per giorni?
Allora, per calmarmi, iniziavo a elencare tutte le cose positive della mia vita: avevo un lavoro che mi piaceva e che svolgevo con dedizione; avevo una famiglia che tutto sommato mi aveva regalato un’infanzia serena; avevo un carattere pacato e la grande fortuna di non annoiarmi mai solo con me stesso. A differenza della maggior parte degli esseri umani, infatti, la solitudine non mi faceva paura, anzi la ricercavo perché mi permetteva di riflettere sull’oscurità della notte e sul dono delle stelle, sul mistero in cui tutti noi viventi siamo costantemente avvolti.
Ultimo, ma non in ordine di importanza, da tre anni ero fidanzato con una mia ex compagna delle medie, Erica. Pensavo fosse la persona giusta con cui trascorrere il resto della vita. Era laureata in Pedagogia ma, dato che le piacevano molto i bambini, aveva deciso di fare la maestra elementare. Già da un paio d’anni insegnava a Portogruaro. Quando non ero in servizio, la raggiungevo con regolarità, oppure era lei a venire da me a Venezia. Le piaceva andare alla scoperta delle parti più nascoste della città e io l’accompagnavo volentieri. Dato che era incantata da quegli scorci, le avevo regalato per il suo compleanno una scatola di acquarelli e così, quando il tempo lo permetteva, ci fermavamo a catturare un angolo pittoresco; lei dipingeva con il blocco sulle ginocchia e io mi sedevo lì accanto, raccontandole quello che avevo fatto nelle ultime settimane. Spesso tornavamo verso casa mia tenendoci la mano.
Valutando razionalmente quegli elementi, mi era chiaro che il turbamento per averti incontrata altro non era che un’infatuazione. Evidentemente, nella solida fortezza della mia vita, in qualche punto a me sconosciuto si era aperto uno spiraglio e, attraverso quello spiraglio, si era infiltrato un fuoco fatuo. Ma era fatuo, appunto, e in quanto tale era mio dovere spegnerlo. Se il computer di bordo si rompe, non ci si consegna alla deriva ma si usa il sestante, nell’attesa che venga riparato.
Alla vigilia di Natale, mentre raggiungevo Cormons in treno attraversando una campagna invernale, avevo deciso che era ora di ricorrere al mio sestante. Durante la cena, a tavola – oltre a noi tre, c’erano i miei nonni materni e una vecchia zia di mio padre – ho annunciato che avrei sposato Erica prima dell’estate. Alla notizia, mia madre si è alzata e mi ha abbracciato, mio padre ha sollevato il calice: «Prosit!» e ha tracannato in un sol sorso tutto il contenuto. La vecchia zia, che probabilmente non aveva capito nulla, si guardava intorno come un uccellino smarrito mentre la nonna esclamava allegra: «Diventiamo bisnonni!».
«Il prima possibile» ho risposto sorridendo, alzando il mio bicchiere e facendolo tintinnare contro quelli dei presenti.
La mattina dopo mi sono svegliato con un gran senso di pace. Avevo fatto quello che doveva essere fatto. Le campane della chiesa intanto suonavano a festa per annunciare la nascita del Salvatore. Uno strato di brina ghiacciata imprigionava i campi e i vigneti. Mentre mi vestivo per accompagnare a messa i miei genitori, ho pensato: presto il sole la scioglierà e mi è sembrato che anche il mio cuore partecipasse a quello stesso processo di liberazione.
I mesi seguenti sono stati scanditi dal tran-tran lavorativo e dai preparativi del grande evento. Per San Valentino, ho invitato Erica a cena in un bel ristorante nei pressi di Udine e le ho dato l’anello di fidanzamento. Aprendo la scatoletta, è arrossita.
«Aspettavo da tempo questo momento» mi ha mormorato all’orecchio.
«Anch’io» e le ho sfiorato la guancia con un bacio.
Mia madre ha cominciato a venire spesso a Venezia perché non era convinta che l’appartamentino in cui vivevo – un monolocale da scapolo – fosse il più idoneo per una coppia di sposi.
«Se vengono i bambini, dove li metterete?»
«Mica verranno subito» ho obiettato.
«Che ne sai? I bambini vengono quando vogliono.»
«Ci penserò quando sarà il momento.»
«Con il pancione e tutto il resto? No, meglio pensarci adesso.»
Abbiamo cominciato estenuanti giri per le agenzie immobiliari. Gli appartamenti che ci piacevano erano tutti troppo cari per le mie tasche, quelli che rientravano nelle mie possibilità erano troppo piccoli e squallidi.
«Tanto vale rimanere dove sono» ho deciso alla fine dell’ennesimo infruttuoso giro.
«Secondo me dovremo iniziare a cercare a Mestre, per lo stesso prezzo potremmo trovare persino una villetta con un piccolo giardino. E poi per voi sarebbe più facile raggiungere la stazione per venirci a trovare.»
«Mestre no!» ho esclamato con troppo vigore.
Mia madre mi ha guardato stupefatta.
«Perché no?»
«Perché non c’è il mare intorno» ho risposto, e poi ho cambiato bruscamente discorso.