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Non ce ne saranno altre

La prima volta che abbiamo visto questa casa era poco più che un rudere. Erano appena comparsi i primi telefoni portatili e quella novità ci caricava di allegre speranze per il futuro. Proprio con il nostro cellulare abbiamo chiamato il numero dell’agenzia immobiliare scritto sul cartello ormai stinto appeso sulla porta.

Già vedendola da lontano tu, con la certezza del rabdomante, hai detto: «Sì. È proprio questa, non ho dubbi».

«Come fai a essere così certa? Magari tra una settimana ne troviamo un’altra che ci fa innamorare.»

Hai scosso la testa. «Non ce ne saranno altre. Né troppo piccola, né troppo grande, con abbastanza terreno, protetta dai venti del nord e aperta sul davanti, sempre pronta ad accogliere il sole. Ci sono alberi saggi vicino a cespugli che mettono allegria.»

Vedere cose che nessun altro vedeva era una delle tue attitudini più singolari. Rabbrividivo all’idea di dire all’agenzia: «La compriamo perché ci sono alberi saggi». Così, con la forza del mio buonsenso, ho azzardato: «Mi sembra ci siano un po’ troppi lavori da fare».

Ma tu già stavi disponendo l’ordine delle stanze. Lì il tuo studio, accanto la camera da letto, poi la cucina, il bagno. E l’angolo del giardino in cui avremmo messo l’altalena per i nipoti che un giorno, sicuramente, sarebbero arrivati.

«Non ti preoccupare» hai detto, sfregandoti le mani come se fossero già coperte della polvere dei lavori, «seguirò tutto io.»

«Non si vede il mare» ho osservato, ormai quasi certo della sconfitta.

Allora ti sei fermata, sei rimasta in silenzio, un gruppo di gabbiani è passato sulle nostre teste; hai alzato il dito in aria come volessi saggiare la direzione del vento o rimproverare un bambino.

«Non si vede ma… ascolta!»

I sassi hanno scricchiolato sotto le mie scarpe, i gabbiani sono scomparsi dalla nostra visuale. Ho drizzato il capo: da sinistra, in lontananza, giungeva il rumore di una motosega. Quando si è fermata, dalla parte opposta ho sentito, debole ma inconfondibile, il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli.

Ancora una volta avevi ragione tu.

Resistere alla tua energia era molto difficile, così quel rudere abbandonato nel bel mezzo di un’isola è diventato il nostro rifugio.

La ristrutturazione è stata lunga e laboriosa perché ancora non vivevamo lì. A turno, secondo i nostri impegni di lavoro, raggiungevamo l’isola e, per un po’ di giorni, seguivamo il cantiere. Quando, due anni dopo, in un freddo mattino di marzo, siamo riusciti a entrare, il giardino era ancora selvaggio.

Hai voluto subito appendere sulla porta e agli angoli della casa delle campanelle comprate in un qualche tuo viaggio in Oriente. Il vento, appena una brezza, le sfiorava delicatamente.

«È un piccolo coro angelico» hai detto «un coro di benvenuto.»

Poi hai aperto la porta e lì, nell’ingresso ancora saturo dell’odore d’intonaco, ci siamo abbracciati. C’era tanto cappotto, tanti maglioni e, dopo tutto quello spessore, c’eri tu. La fragilità di un piccolo uccello protetto dal nido. Non so cosa abbia pensato di me in quell’istante. Io il grande, il forte, quello che, anche nella burrasca, sapeva sempre tenere dritta la barra del comando. Ricordo però che hai posato la testa sul mio petto, indossavo un vecchio giaccone di lana blu.

«Quanti anni sono?» hai chiesto.

«Tanti» ti ho risposto, accarezzandoti i capelli.

La brezza era cessata, eravamo immersi in un profondo silenzio. Così stretti, sentivo il tuo cuore battere. Forse anche tu sentivi il mio. La campanella davanti alla porta ha tintinnato appena.

«Tanto complicati?» hai domandato.

«Sì» ho annuito, e siamo rimasti abbracciati ancora per un po’.

Le notti degli insonni nelle case vuote sono una delle cose più difficili da sopportare. Alzarsi, andare in cucina a mangiare qualcosa e sapere che è inutile tendere l’orecchio perché non c’è più nessuno in camera, nessun sospiro, nessuno spezzone di parola sfuggito alla follia dei sogni; mangiare e tornare a letto, stare lì rannicchiati con il terrore di uscire dalla propria nicchia di tepore. Vivendo in città qualche diversivo ci può essere: lo sciacquone del piano di sopra, la tv a volume troppo alto di qualche altro insonne, il traffico della strada, un’ambulanza, un camion dei pompieri, due ubriachi che a tarda notte hanno un alterco proprio sotto le tue finestre, ma in una casa sospesa tra il mare e il cielo quale distrazione, quale ancora di salvezza ci può essere? C’è il tuo corpo, la tua mente, ci sono i fantasmi che la abitano e le cose intorno a te.

La casa piena di vita si è trasformata in un galeone fantasma. Nessuno lo governa più perché nessuno è in grado di farlo. Nel frammento di un sogno ho in mano il sestante, lo giro e lo rigiro, lo guardo e mi rendo conto che non sono più capace di usarlo. È obsoleto, mi sussurra una di quelle voci misteriose che parlano nei sogni. Ci sono i computer di bordo, cosa te ne vuoi mai fare di quel pezzo di metallo? È vero, mi dico, in fondo è solo un caro ricordo; lo dico, ma l’angoscia dentro di me cresce.

Forse questo smarrimento è un segno dell’invecchiamento. La demenza che incalza, perdere coscienza delle cose; non so più tracciare la rotta, né da quale parte girare il timone; l’unico orizzonte che mi rimane è quello del capriccio delle correnti. Le vele stracciate, il legno e gli ottoni opachi per la mancanza di cura, il galeone fantasma va alla deriva in attesa della scogliera che metterà fine ai suoi giorni. Penso ancora: non so neppure più orientarmi con le stelle, poi sprofondo nel sonno triste che donano le pillole.

Alle sei sono già sveglio con una giornata totalmente vuota davanti a me. La casa è avvolta nell’ululato del maestrale. Cerco di accendere il camino, ma si rivela un’impresa impossibile; a ogni raffica, il fumo invade la stanza con dense e prepotenti volute. Per non soffocare, devo spalancare le finestre, allora il vento irrompe nella stanza facendo tintinnare i quadri, volare i fogli di carta sparsi.

Mi trasferisco in cucina e mi rassegno alla modernità della stufa a pellet. L’ho caricata ieri sera, ed è un telecomando a dare gli ordini. Si accende un timer e i cilindretti compressi iniziano la combustione. Il tavolo della cucina è coperto di briciole, il lavello ingombro di piatti sporchi che aspettano di essere messi nella lavastoviglie. Il latte nel frigo è scaduto, così ripiego su qualcosa di caldo.

Le tracce delle tue passioni sono ancora in giro: di confezioni di tè ce ne sono almeno dieci; ne prendo una a caso, è molto scuro e ha un sapore affumicato.

Avevi l’abitudine, ogni sera, di apparecchiare la tavola per la colazione del giorno seguente.

«Perché fai tanta fatica?» ti ho chiesto appena trasferiti sull’isola. «In fondo si tratta di un caffè, di un tè e poco più.»

«Perché è un esercizio di speranza.»

«Cosa c’entra la speranza con i biscotti e la marmellata?»

«C’entra con il giorno e la notte. Davanti all’oscurità siamo inermi, non abbiamo certezze, possiamo solo sperare di approdare un’altra volta alla luce del giorno. Prepararsi per il mattino seguente vuol dire invitarlo a tornare.»

Quella tua osservazione mi aveva colpito. Non avevo mai pensato che la notte fosse un momento di smarrimento. Sapevo usare il sestante, sapevo leggere le stelle come fossero un abbecedario; c’erano le nuvole, certo, ma c’era anche il vento che prima o poi le avrebbe spazzate via. Non avevo mai pensato al buio come a un’entità capace di divorarti.

Solo stamattina, solo dopo stanotte, davanti a questa tavola piena di briciole, al lavello pieno di stoviglie, ho capito che avevi ragione. Mantenere viva la speranza o arrendersi, navigare ancora alla ricerca di un faro, oppure tirare i remi in barca e attendere l’impatto con lo scoglio.

Sono stato superficiale?

Sono stato sciocco?

Il maestrale ha strappato una persiana dal suo perno e la sbatte con un ritmo irregolare. Toc-toc toc-toc. Se si tratta di una risposta alle mie domande, non sono in grado di comprenderla. Intanto il pellet nella stufa, da marrone è diventato rosso: tante minuscole, regolari braci. Un fuoco domato, ordinato, privo degli irosi scoppi, della fumata devastante di un legno non ancora abbastanza secco.

È questo il fuoco in cui si sarebbe trasformato il nostro amore negli anni della vecchiaia?

E qual era stato il fuoco che aveva arso nella nostra giovinezza?

Malgrado il maestrale, sono uscito a fare una passeggiata nei dintorni dell’isola. Camminare senza il vento o camminare con il vento, tutto cambia: se cammini nella quiete, i tuoi pensieri sono i tuoi pensieri, stanno davanti a te come un campo ordinato, dirigi i tuoi passi e sai dove stai andando; se cammini con il vento che ti sferza, tutto sibila nella tua testa, tutto si rimescola e si confonde; devi mantenere l’equilibrio, ammortizzare le gambe un istante prima che arrivi la raffica; lotti costantemente con ciò che è fuori di te, e questo fa emergere ciò che, nella quiete, resterebbe nascosto.

Poco prima di arrivare al promontorio mi sono seduto. Le onde erano alte e il fragore si levava con violenza. Per uno come me che ha trascorso la vita in mare è strano stare in mezzo a una burrasca e non dover fare niente. Se fossi stato a bordo, con questo tempo avrei avuto solo preoccupazioni, invece potevo starmene quietamente seduto a guardare le onde.

A un tratto, dalla mia memoria, è comparso un altro sibilo, quello della bora che soffiava intorno alla casa della mia infanzia.

Era stato proprio in una giornata di bora che mi ero introdotto nella biblioteca dei miei genitori. Una stanza non grande foderata di volumi fino al soffitto. I libri di mio padre, di mio nonno, del mio bisnonno: la memoria cartacea della nostra famiglia era tutta raccolta lì. C’era una grande finestra affacciata sul giardino ma gli scuri non venivano mai aperti. Una scrivania, un mappamondo impolverato, un cestino della carta nel quale nessuno mai gettava fogli. Nessuna stufa, nessun calorifero. Le pareti emanavano l’umido gelo dell’inverno, e quel gelo i libri erano pronti ad assorbirlo. Era uno dei luoghi più inospitali della grande casa sulla collina eppure, dagli otto anni in poi, sarebbe divenuto uno dei miei rifugi preferiti. Portavo con me una coperta e una torcia e lì, come un piccolo topo curioso, trascorrevo pomeriggi interi.

Nella mia prima visita, mentre il vento infilandosi tra gli infissi faceva volare le tende come fossero fantasmi, da uno degli scaffali bassi avevo estratto un volume su cui c’era scritto Il Milione. Dato che mio padre di tanto in tanto la domenica mi comprava «Il Corriere dei Piccoli», avevo pensato che in quelle pagine ci fossero altre avventure del Signor Bonaventura, il famoso possessore di un biglietto da Un Milione! Che delusione quando mi ero accorto che non c’era alcun disegno. Non conoscevo i personaggi di cui si parlava in quelle pagine, tranne i Re Magi. Così avevo posato il libro sul pavimento, mi ero avvolto nella coperta e avevo iniziato a leggere.

Anche nella tua vita, per ragioni diverse, Il Milione era stato un libro importante.

Abbiamo mai parlato dei Re Magi?

Non riesco a ricordarmelo.

Sono tornato a casa per pranzo e prima dell’imbrunire il maestrale ha smesso di soffiare, così ho finalmente potuto accendere il fuoco in salotto. La legna è quella del pino marittimo che abbiamo visto cadere come un fuscello durante una tromba d’aria; ero stato io a tagliarlo con la motosega mentre tu ti eri preoccupata di divellere rametti e raccogliere le pigne.

Ora arde con fiamme gagliarde mentre il profumo della resina si spande per la stanza. Tra le fiamme ricompaiono i Re Magi, prima gli zoccoli del cammello di Melchiorre poi gli altri due, Gaspare e Baldassarre; malgrado i loro abiti sontuosi, sembrano tristi.

È stata proprio la lettura del Milione a svelarmi la ragione della loro malinconia.

Appena giunti a Betlemme, raccontava il libro di Marco Polo, avevano deposto ai piedi del Bambino i loro doni. Oro – per sapere se era Signore terreno; Incenso – per sapere se era Iddio; Mirra – per sapere se era eterno. E il Bambino con che cosa li aveva ricambiati?

Con una semplice scatoletta di legno.

Si erano così rimessi in viaggio custodendola come cosa preziosa. A metà strada, però, non avevano resistito alla curiosità e l’avevano aperta.

Che delusione!

Dentro non c’era altro che un’inutile pietra.

Era quello il modo di ricambiare i loro doni, la fatica estenuante del loro viaggio? In preda al furore, l’avevano presa e scagliata in un pozzo poco lontano ma, appena aveva toccato il fondo, era successo qualcosa di straordinario. Una colonna di fuoco dal cielo si era precipitata proprio nel pozzo, ma il fuoco, invece di spegnersi a contatto con l’acqua, era divampato ancora più forte. Non si era spento quel giorno, né il giorno dopo, né quello ancora dopo.

Forse sta ancora ardendo.

Quel fuoco era nascosto nella pietra per illuminare la pochezza dei loro cuori. Avevano veduto, e non avevano davvero creduto.

La pietra era il segno della fedeltà che era stata loro richiesta.

Quella pietra conteneva il fuoco che nulla estingue.

Per la sua umile apparenza l’avevano disprezzata e lanciata nel pozzo. Avevano avuto la possibilità di diventare davvero ricchi ed erano rimasti estremamente poveri.

Avrei voluto consolarli, ma loro, strascicando gli zoccoli delle cavalcature, erano già scomparsi dalla stanza.

Intanto, nel camino, i ceppi si sono trasformati in brace, non posso andare a dormire prima che siano del tutto spenti. Le fiamme sono svelte e le braci molto lente. Sembrano dirmi: «Hai fretta? Sei stanco? Aspetta! Non abbiamo ancora finito di ardere».

Mentre le osservo diventare grigie, penso che un giorno lontano anch’io ho rischiato di comportarmi come i Re Magi. Avevo ricevuto un dono – quello di averti incontrato – e l’avevo scambiato per un sasso, un fastidio, un inciampo da cui liberarmi il prima possibile. Avevo la mia vita regolare e progetti per il futuro che non erano molto diversi da quelli di un treno lanciato su un binario collaudato.

Che il binario contenesse in sé la possibilità di un deragliamento non mi aveva sfiorato neppure l’anticamera della mente.