26

Lasciami andare

A giugno di quell’anno mi sei comparsa davanti con un’espressione piuttosto enigmatica.

«Ti ricordi del nostro patto?» mi hai chiesto.

«Quale patto?»

«Quello che abbiamo fatto tanti anni fa, quando ci siamo ritrovati…»

Dalla nebbia della memoria ha cominciato a comparire qualcosa. Un giorno che eravamo particolarmente euforici tu, d’improvviso, avevi cambiato espressione e, con la voce bassa delle comunicazioni importanti, mi avevi detto: «Prima di andare a vivere insieme dobbiamo sottoscrivere un patto».

«Quello di non belligeranza?»

«No, quello per cui se uno di noi ha improvvisamente bisogno di andare via, l’altro non glielo vieterà e non farà domande. Dobbiamo avere la massima fiducia l’uno nell’altra.»

Nel tuo entusiasmo giovanile avevi preso un foglio, vi avevi scritto il contratto che ci avrebbe preservato da reciproca schiavitù. Per suggellarlo con maggior forza, avevi voluto che, sotto la firma, mettessimo anche le nostre impronte digitali.

«Quel patto?» ti ho chiesto allora.

«Sì.»

Sei rimasta un po’ in silenzio, inseguendo qualche pensiero, poi hai continuato: «Ho bisogno di stare un po’ da sola… mi sento vuota come un pupazzo, fuori ci sono ma dentro non c’è più niente. Devo star sola per tentare di ricostruirmi».

Una forte ansia mi ha preso alla gola.

«Dove andrai?»

«Anche se volessi dirtelo non potrei perché non lo so.»

«Quando tornerai?»

«Quando sarò pronta a tornare.»

Sono rimasto in silenzio con un’espressione piuttosto cupa.

«Non credo che tu voglia continuare a vivere con il mio pupazzo…»

«Certo che no.»

«Rivuoi la tua Edith?»

«Sì.»

«Allora lasciami andare.»

Abbiamo discusso ancora un po’. Ero amareggiato che la mia presenza non servisse proprio a nulla.

«Forse sono io a essere un pupazzo.»

Mi hai abbracciato forte.

«Tu sei il mio porto, Capitano. Senza un porto a cui tornare, sarebbe inutile prendere il largo.»

«Allora vai! Ma sappi che ogni giorno il tuo porto scruterà l’orizzonte in attesa di vederti tornare.»

Ad Amy abbiamo raccontato una bugia, le abbiamo detto che dovevi andare in Cina per qualche mese per uno scambio culturale. Ho fatto finta di accompagnarti al Marco Polo, invece ti ho portato alla stazione di Mestre. Sei scomparsa tra la folla con il tuo zaino colorato sulle spalle, senza voltarti indietro.

Non sapendo dove lasciare Amy, il mese di luglio l’ho portata con me in navigazione. Il suo entusiasmo giovanile era scomparso, e la vita di bordo si è trasformata per lei in una prigione degna della fortezza dello Spielberg. Passava la maggior parte del tempo accovacciata da qualche parte, con le cuffie sulle orecchie; non le interessava più usare il sestante, né imparare a distinguere le costellazioni per orientarsi nel cielo notturno.

Ci siamo fermati tre giorni ad Ashdod. Pensando di fare una cosa bella, ho preso un taxi e l’ho portata a Gerusalemme; gli stretti vicoli della città vecchia erano attraversati da folle di turisti. Faceva molto caldo e l’insofferenza cresceva. «Che schifo, sembra di essere a Venezia» è stato il suo unico commento.

Quando siamo arrivati all’Orto di Getsemani, mi sono girato verso di lei. «Non è commovente immaginare cosa possano avere visto questi ulivi millenari?»

«Gli alberi non hanno occhi» ha risposto sbuffando «non possono vedere proprio niente.»

Da alcuni mesi aveva smesso di chiamarmi ziopapi, di solito mi apostrofava con un «ehi!». Durante quel viaggio in mare era passata a chiamarmi «Capitano» con una sottile nota di disprezzo nella voce.

Una sera, davanti alla lunga scia di schiuma bianca che le eliche lasciavano dietro di noi nell’oscurità della notte, mi ha chiesto: «È vero che c’è tanta gente che va in crociera soltanto per uccidersi? Quando nessuno vede, si butta giù e ciao ciao?».

«Succedeva una volta» le ho risposto «ora non più perché hanno installato un sistema elettronico di controllo.»

Confidando nella sua ignoranza tecnica, ho sperato che credesse alla mia bugia. Comunque, da quel momento, ho chiesto all’equipaggio di tenerla discretamente sotto controllo. Dormivo come i delfini, con un occhio chiuso e uno aperto.

L’ultima notte però, prima di sbarcare, ho fatto un sogno. Altro non era che il ricordo di un libro che avevo letto da bambino nella biblioteca di Cormons e che raccontava del crudele destino di un cucciolo di balena separato dalla protezione materna da un gruppo di orche che avevano poi banchettato con il suo corpo, scarnificandolo a morsi davanti allo sguardo impotente della madre; richiamati dal rosso del sangue altri commensali – delfini, foche, gabbiani e vari uccelli marini – si erano avventati su quel corpo agonizzante strappandone brandelli di carne. Una stampa a colori illustrava le ultime stanche fasi del banchetto sui resti del povero balenottero ed era proprio quell’immagine, rimasta scolpita nella mia mente infantile, a ripresentarsi nei brevi e convulsi frammenti di sonno: la ferocia e l’astuzia del gruppo capace di dilaniare l’innocente, il poco che rimaneva ancora del corpo e le grida di eccitazione dei gabbiani seguite dal silenzio. Osservavo questa scena spettrale con sentimenti confusi. Il mio sguardo era quello della madre? O forse ero stato proprio io ad avere assistito a quello scempio dal ponte di una nave? Soltanto quando ho aperto gli occhi, mi sono reso conto che quella carcassa divorata, e crudelmente esposta al cielo, non era altro che il mio corpo.

Amy dormiva nella cuccetta accanto alla mia.

Sul suo volto era tornata un’espressione di imbronciata grazia. Guardandola, ho pensato: come vorrei essere un mago, come vorrei avere la bacchetta magica per poter tornare indietro nel tempo, come vorrei sentire ancora una volta la sua voce che grida entusiasta: «Ziopapi!».

In agosto l’ho spedita a Linosa, in un campo di tutela delle tartarughe marine.

La chiamavo una volta alla settimana.

«Non occorre che mi controlli» diceva.

«Voglio solo sapere come stai.»

«È una noia. Le uova non si schiudono mai.»

Ma dal tono capivo che era una finzione per farmi sentire in colpa. In realtà, libera in mezzo alla natura e in compagnia dei suoi coetanei, si stava divertendo.

Da te, nel frattempo, non avevo ricevuto che due o tre messaggi. Volevi sapere come stava Amy. Ti rassicuravo. Mi scrivevi che stavi bene e mi mandavi un bacio. Avrei potuto chiamarti, certo. Molte volte ho avuto la tentazione di farlo. In realtà l’avrei fatto soltanto se ci fosse stata un’emergenza, altrimenti sarebbe stato come rompere il nostro patto e, per natura e per educazione, sono una persona che rispetta i patti.

Da Linosa Amy è tornata di umore migliore. Alla fine, mi ha detto, aveva visto schiudersi le uova e quella corsa di piccole tartarughe verso il mare era stata una delle cose più emozionanti della sua vita. Sull’isola aveva disegnato molto e, nel suo album, le tartarughe hanno sostituito gli scheletri.

«Senza il nostro aiuto, le tartarughine non ce l’avrebbero fatta» mi ha confidato, fiera. L’aver partecipato a qualcosa di importante sembrava averla sollevata un po’ dai suoi malumori apocalittici.

«Ma la mamma si è dimenticata di me?» ha chiesto. Era ormai prossima la riapertura delle scuole.

«No» ho risposto «ha chiamato quando tu eri a Linosa.»

«Quando torna?»

«A giorni» le ho detto senza aver la minima idea di quanti sarebbero stati quei giorni.

Sei tornata poco prima che riprendessero le lezioni.

Ho finto un’altra volta di andare al Marco Polo, in realtà sono venuto alla stazione di Santa Lucia. Eri più magra di quando eri partita e qualcosa di diverso brillava nel tuo sguardo.

«E allora?» ti ho chiesto sul vaporetto che ci riportava al Lido.

«Penso che qualche pezzo sia andato a posto. E voi?»

«In qualche modo, siamo sopravvissuti.»

Hai abbracciato forte Amy. Lei, protestando goffamente, ha cercato di divincolarsi. «Hai imparato almeno a fare gli involtini primavera?» ti ha chiesto.

«Certo» hai risposto «ma alla mia maniera, completamente bruciacchiati.»

Abbiamo ripreso il tran-tran della nostra vita, anche se la leggera serenità di una volta non si è più ricomposta. L’amarezza è un suolo lunare, un mondo fatto di cenere e privo di atmosfera, ognuno di noi era un desolato satellite; poi dalla Luna, piano piano, ci siamo trasferiti su altri pianeti, su Marte, con la sua minuscola atmosfera, su Venere più generosa di aria.

La morte di Marco aveva provocato in ognuno di noi una sorta di asfissia interiore. Non c’era più ossigeno e, senza ossigeno, nessuna forma di vita è possibile. Solo i sassi non respirano. Ma, come dopo la più terribile delle eruzioni, quando la lava brucia, divora e ingloba ogni cosa, trasformando la terra intorno in un luogo di desolazione assoluta, con il passare del tempo, a partire da un seme portato dal vento, su quel terreno la vita riprende così anche noi a piccoli passi riconquistavamo la nostra quotidianità.

È arrivato Natale.

Dato che nel tuo misterioso girovagare eri stata anche a Greccio, oltre che l’albero, per la prima volta da quando eravamo insieme, hai voluto fare anche il presepe. Siamo andati a Cormons a recuperare il mio di quando ero bambino. Di malavoglia, Amy ha dipinto il cielo stellato mentre io le suggerivo le possibili costellazioni di quella notte.