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L’ultimo viaggio
Ormai mi sveglio sempre alle prime luci dell’alba, pur non avendo nulla di urgente da fare. Spesso indugio tra le coperte inseguendo i miei pensieri. Ieri sera ho visto in televisione un programma che mostrava come, con un computer, si può ricostruire il modo in cui con il passare degli anni cambia il volto delle persone. Lo utilizza la polizia per riuscire a rintracciare i latitanti scomparsi da tempo ma è diventato anche un gioco di società, soprattutto tra le persone più giovani che ridono – o inorridiscono – vedendo il loro aspetto futuro.
È davvero solo il naso, l’arco delle sopracciglia, la pelle delle guance che inizia a cascare o c’è forse anche un di più che nessun computer riuscirà mai a identificare? Nel corso della mia vita ho visto persone rimanere più o meno immutate nel tempo e altre che all’improvviso subivano un crollo, e quel crollo non era dovuto tanto alla carenza di collagene quanto piuttosto era il segno di un degrado dell’animo fino ad allora tenuto nascosto.
Forse, ho pensato stamattina, guardando il tuo lato del letto vuoto, ognuno nella vita si guadagna una faccia, perché la faccia, la parte più rivelatrice del corpo, è il bloc-notes su cui viene appuntato quello che abbiamo fatto.
Negli ultimi tempi, scherzando, ti tiravi le guance verso gli zigomi con le dita: «Non credi che ci vorrebbe un bel lifting?» poi commentavi: «È incredibile, pensavo che non sarebbe mai successo».
«Che cosa?»
«Che un giorno saremmo invecchiati.»
«Taci tu, che sei ancora una ragazza» ti rispondevo. «Pensa a me che ho già quasi un piede nella fossa.»
Come sarà ora il volto di Amy?
Le morbide rotondità dell’adolescenza l’avranno sicuramente abbandonata, ma per fare posto a cosa?
Ogni tanto mi sorprendevo a pensare – anche se non te lo dicevo – che le fosse successo qualcosa. Un’overdose, un incidente, che magari giacesse da tempo in una tomba senza nome in qualche parte del mondo ma era un pensiero per fortuna di breve durata. Una parte del mio cuore, quella che era stata in così profonda relazione con lei, mi diceva che era ancora viva. Per rassicurarmi ripetevo la frase «No news, good news».
Aveva continuato a drogarsi e si era trasformata ormai nell’ombra della ragazza che era o invece, grazie alla sua forza d’animo e all’incontro con qualcuno, era riuscita a smettere e ora conduceva una vita normale, lontana da noi?
Forse aveva incontrato suo padre e viveva felicemente inserita nella nuova famiglia, conservando solo un pallido ricordo di quelli che erano stati i nostri anni al Lido.
Già da un paio di mesi avevo il suo numero di cellulare e un indirizzo, ma non riuscivo a decidermi su come comportarmi. Ero sicuro che se avessi fatto una prima mossa sbagliata l’avrei persa un’altra volta: a un contatto telefonico avrebbe reagito sicuramente con stizza, avrebbe cambiato numero o smesso di rispondere.
La cosa migliore, ho pensato stamattina ancora a letto, sarebbe quella di raggiungerla senza alcun preavviso, andare lì e, con astuta delicatezza, tentare di stabilire un qualche contatto.
Alle otto mi sono alzato e, dopo aver bevuto un caffè, mi sono messo al computer. Il primo posto libero era dopo tre giorni, con partenza da Fiumicino; l’ho prenotato e il tono della giornata è cambiato. Mi sono guardato allo specchio. Mi avrebbe riconosciuto? Mi avrebbe accettato? Sono davvero così invecchiato?
Nel pomeriggio sono andato dal barbiere in paese. Tornato a casa, ho aperto l’armadio alla ricerca di una valigia dalle giuste dimensioni. Quanto tempo sarei rimasto fuori? Non ne avevo la minima idea. Tre giorni? Una settimana? Due?
Prima di partire devo controllare le celle reali, mi sono detto, e in quel preciso momento la pila di borse, zaini, valigie che avevi maldestramente affastellato nell’armadio mi è precipitata addosso facendomi perdere l’equilibrio.
Dal cumulo ho estratto una borsa morbida che mi pareva adatta al viaggio, potevo portarla in cabina, saltando la noia del recupero bagagli. Sollevandola, ho sentito qualcosa cadere con un leggero fruscio.
Una busta color avorio.
Per Andrea, nel giorno del nostro matrimonio.
Spesso ho pensato che sarebbe bello se ogni tanto nella vita comparissero davanti ai nostri occhi delle didascalie, come nei film muti. Oppure che a un certo punto, in sottofondo, partisse una musica vagamente inquietante come succede nei thriller quando sta per accadere qualcosa di tremendo. Invece non è così. I giorni tragici iniziano nello stesso identico modo di tutti quelli che tragici non sono. Sei inserito in una routine, la tua routine, e vai avanti tranquillo finché la vita improvvisamente scarta e ti scaraventa in un luogo e in un tempo che neppure immaginavi esistesse. È l’ultima volta che sentirai quella voce, l’ultima volta che vedrai quel volto ma tu non lo sai e tutto continua nella normale banalità dei giorni.
Dovevo andare a Livorno ed ero già in ritardo, stavo girando per la casa con una scarpa in mano, cercandoti.
«Edith! Mi dai una mano? Non trovo l’altra!»
Mi sono affacciato in giardino ma non c’era traccia di te.
«Potresti almeno avvisarmi quando sparisci!» ho urlato.
Rassegnato a mettermi un diverso paio di scarpe, sono andato in sala a prendere dei documenti che dovevo portare con me.
Eri seduta al tuo solito tavolino, il braccio destro allungato sul ripiano, la testa posata sopra, come un bambino che dorme all’asilo.
Stupidamente ho esclamato: «Ma come? Dormi a quest’ora?».
Dietro di te la finestra era spalancata, entrava una brezza leggera e con la stessa gentile indifferenza sfiorava i fogli e i tuoi capelli. Mi sono avvicinato.
Eri fredda ma nella giugulare si percepiva un battito di vita.
Ho subito chiamato i soccorsi. Aspettando il loro arrivo, continuavo a girare per casa come un dannato, il tempo dell’attesa mi pareva infinito, controllavo le tue pulsazioni e poi gridavo: «Delinquenti! Quanto ci mettete?».
In realtà l’arrivo dell’elicottero è stato abbastanza tempestivo. Ti ho accompagnata fino a che non hanno sistemato la barella al suo interno. Ho visto l’elicottero sollevarsi e sparire in cielo. Un conoscente si è offerto di portarmi a Livorno con il suo motoscafo.
In taxi non facevo altro che ripetere: «Ti prego, lasciamela ancora! Anche se non cammina, anche se non parla, ti prego, non portarmela via! Che io possa accarezzarla, che io possa vederla. O se così non fosse, prendi anche me, fa che mi schianti su questa strada prima di arrivare a destinazione!».
Quando sono arrivato all’ospedale eri ancora viva e ti stavano operando. Avevi avuto un’emorragia cerebrale, esattamente come tua madre.
Dopo sei ore i medici sono usciti e hanno detto: «L’operazione è riuscita, ora non rimane che attendere». Avrei voluto baciare le mani di quegli sconosciuti, in un impeto di gratitudine.
Non ho più lasciato l’ospedale.
Stavo lì con la barba lunga, abbandonato a me stesso ma con una piccola fiammella che ardeva nel cuore.
Dopo due giorni, mi hanno fatto accedere alla rianimazione. Stretto dalle fasce che ti avvolgevano la testa, il tuo viso sembrava minuscolo. Avevi le labbra screpolate e due occhiaie scure che invadevano le guance.
Mi hai riconosciuto, mi hai sorriso.
Lentamente hai sollevato la mano destra indicando la sinistra.
«Ti dà fastidio qualche cosa?» ti ho chiesto dato che avevi la flebo.
A fatica, hai alzato l’anulare sinistro.
Allora ho capito.
Sono uscito dalla rianimazione gridando: «Ci sarà un cavolo di prete in questo posto! Ci sarà pure un prete!».
Un’infermiera ha composto un numero e poi mi ha dato il suo cellulare, dicendomi: «Eccolo, glielo passo».
«Voglio celebrare un matrimonio, subito, il più presto possibile!»
Il sacerdote mi ha detto che sarebbe arrivato nel giro di tre ore.
Allora sono corso fuori dall’ospedale. A ogni angolo, a ogni bivio chiedevo: «Una gioielleria! Dov’è una gioielleria?».
Alla fine l’ho trovata.
Per te ho preso due anelli. Avevo paura di sbagliare la misura.
Quando è arrivato il prete, un ragazzo giovane dalla faccia buona, gli ho spiegato la situazione. Avremmo dovuto sposarci da lì a due settimane, gli ho detto. La chiesa era già prenotata, così come il ristorante. Le bomboniere erano pronte nell’armadio.
«Capisce ora?»
Non mi ha fatto domande, si è infilato i paramenti e ha iniziato a celebrare il matrimonio davanti al tuo letto. La caposala e un infermiere hanno fatto da testimoni. A volte tenevi gli occhi aperti, altre volte li chiudevi, ma sembravi ascoltare e capire ogni parola.
Quando il sacerdote ha detto: «Vuoi tu, Edith, prendere in sposo il qui presente Andrea…» ha dovuto avvicinare l’orecchio alla tua bocca per sentire la risposta.
«Sì» hai sussurrato.
«Sei disposta ad amarlo e onorarlo per tutto il resto della tua vita?»
Un altro sì.
Con estrema delicatezza ho infilato allora la fede al tuo dito. Tu hai preso la mia in mano, facendo il gesto di offrirmela.
Alla fine della cerimonia, quando il prete ha pronunciato la formula: «Vi dichiaro marito e moglie» i testimoni hanno fatto un piccolo applauso. Togliendomi la mascherina, mi sono chinato su di te per darti un bacio.
Il giorno dopo i medici mi hanno detto che i parametri erano peggiorati. Dopo lo slancio iniziale, il tuo corpo non sembrava aver più la forza di reagire.
La mattina seguente, il giovane prete è tornato per darti l’unzione degli infermi.
Nel pomeriggio ti sei addormentata per sempre.
La vita ti ha lasciato con un sorriso sulle labbra.
In quel letto, improvvisamente, sembravi un uccellino sperduto. E la tua mano, a un tratto fredda, inerte, non era molto diversa dalle zampe dei passerotti caduti dal nido che da bambino avevo sempre cercato di salvare, invano.
L’infermiera ti ha staccato da tutti i macchinari.
Quando sono arrivati gli inservienti per portarti alla morgue ti ho baciata per l’ultima volta. Tutto, intorno, era luminoso in modo talmente artificiale da risultare offensivo per lo sguardo.
Nello squallore della routine mortuaria, l’unica cosa che sembrava davvero splendere era il piccolo cerchietto d’oro che portavi al dito.
Quattro giorni dopo, nella chiesa dell’isola, abbiamo celebrato i tuoi funerali. Hanno partecipato tutte le persone che avevamo invitato al matrimonio. Anche il vestito che ti ho messo per l’ultimo viaggio era quello che avevi scelto per quel giorno: un tailleur color pastello comprato insieme a Firenze. Mi sono presentato in chiesa con lo stesso completo scuro che avrei indossato all’altare, garofano all’occhiello compreso.