27
Nell’intontimento che segue, sono cosciente di un unico suono. Snow che ride. Un orribile risolino gorgogliante, accompagnato da uno sbocco di sangue schiumoso quando inizia la tosse. Lo vedo piegarsi in avanti, sputando a più non posso, fino al momento in cui le guardie lo nascondono ai miei occhi.
Mentre le uniformi grigie cominciano a convergere nella mia direzione, penso a ciò che ha in serbo il mio breve futuro come assassina del nuovo presidente di Panem. L’interrogatorio, la probabile tortura, la sicura esecuzione pubblica. E l’ennesimo addio alle poche persone ancora care al mio cuore. La prospettiva di affrontare mia madre, che d’ora in poi sarà del tutto sola al mondo, risolve il problema.
— Buonanotte — sussurro all’arco che ho in mano, e sento che si immobilizza. Alzo il braccio sinistro e piego il collo per strappare via con un morso la pillola che ho nella manica. Ma i miei denti si piantano nella carne. Confusa, tiro indietro la testa di scatto e mi ritrovo a fissare gli occhi di Peeta, che stavolta sostengono il mio sguardo. Il sangue cola dal segno che i denti hanno lasciato sulla sua mano, chiusa sul mio morso della notte.
— Lasciami andare! — gli ringhio contro, cercando di sottrarre il braccio alla sua stretta.
— Non posso — dice. Quando mi allontanano da lui, sento la tasca dalla manica che si lacera, vedo la pillola viola scuro cadere a terra e guardo l’ultimo dono di Cinna che viene calpestato dagli scarponi delle guardie. Mi trasformo in un animale selvatico e scalcio, graffio, mordo, faccio tutto quello che posso per liberarmi da quella rete di mani, intanto che la folla mi si stringe intorno. Le guardie mi sollevano sopra la mischia, e lì continuo a dibattermi mentre mi trasportano di peso oltre la calca. Comincio a urlare cercando Gale. Non riesco a trovarlo in mezzo alla ressa, ma lui saprà cosa voglio. Un bel tiro preciso che ponga fine a tutto questo. Solo che non arriva nessuna freccia, nessuna pallottola. È possibile che non mi veda? No. Sopra di noi, sugli schermi giganti collocati intorno all’Anfiteatro, chiunque può guardare ciò che sta succedendo in ogni dettaglio. Lui vede, sa, ma non fa nulla. Proprio come me quando è stato catturato. Una ben misera scusa, tra due che sono cacciatori e amici. Tra di noi.
Sono sola.
Dentro la villa, mi ammanettano e mi bendano gli occhi. Un po’ mi trascinano e un po’ mi trasportano da un lungo corridoio all’altro, da un ascensore che sale a uno che scende, e infine mi depositano su un pavimento di moquette. Mi tolgono le manette e una porta si chiude con un tonfo dietro di me. Quando sollevo la benda, scopro di essere nella mia vecchia stanza al Centro di Addestramento, quella che occupavo in quegli ultimi giorni preziosi prima degli Hunger Games e dell’Edizione della Memoria. Il letto è stato disfatto sino al materasso, l’armadio è spalancato e mostra l’interno vuoto, ma io riconoscerei questa camera ovunque.
Alzarmi in piedi e sfilarmi la tenuta da Ghiandaia Imitatrice è dura. Sono coperta di lividi e potrei avere un dito o due fratturati, ma è la mia pelle ad aver pagato il prezzo più caro per la lotta con le guardie. Quella robaccia rosa innestata da poco si è stracciata come carta velina e il sangue filtra attraverso le cellule riprodotte in laboratorio. Dottori, però, non se ne vedono, e visto che sono troppo grave perché ci si preoccupi di me, mi trascino sul materasso, aspettandomi di morire dissanguata.
E invece no, purtroppo. Entro sera, il sangue si è coagulato, lasciandomi rigida e indolenzita e appiccicosa ma viva. Zoppico fino alla doccia e programmo la cura più leggera che ricordo, senza sapone o prodotti per i capelli, poi mi accuccio sotto il getto caldo coi gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani.
Mi chiamo Katniss Everdeen. Perché non sono morta? Dovrei esserlo. Sarebbe la cosa migliore per tutti, se fossi morta…
Quando esco sul tappetino, l’aria calda mi secca la pelle rovinata. Non ho niente di pulito da mettermi. Nemmeno un asciugamano da avvolgermi intorno al corpo. Quando torno nella stanza, scopro che la mia divisa da Ghiandaia Imitatrice è sparita. Al suo posto, c’è un accappatoio di carta. Dalla misteriosa cucina, mi hanno inviato un pasto e un contenitore di farmaci come dessert. Mangio qualcosa, prendo qualche pillola e mi friziono il balsamo sulla pelle. Adesso devo concentrarmi sul tipo di suicidio che metterò in pratica.
Torno a raggomitolarmi sul materasso macchiato di sangue, senza avere freddo ma sentendomi nuda, con solo la carta a coprire la mia carne dolorante. Non posso gettarmi dalla finestra: il vetro dev’essere spesso almeno trenta centimetri. So fare un ottimo cappio, ma non ho niente a cui impiccarmi. Potrei accumulare le pillole e poi uccidermi con una dose letale, solo che sono sicura di essere controllata ventiquattr’ore su ventiquattro. È probabile che io sia in diretta TV, in questo stesso istante, mentre i commentatori tentano di sviscerare cosa possa avermi spinto a uccidere la Coin. La sorveglianza rende praticamente impossibile qualsiasi tentativo di suicidio. Togliermi la vita è prerogativa di Capitol City. Di nuovo.
Quello che posso fare è arrendermi totalmente. Decido di restarmene sdraiata a letto senza mangiare, senza bere e senza prendere le mie medicine. E sarei anche capace di farlo. Morire e basta. Se non fosse per le crisi di astinenza da morfamina. Che non sono graduali, come nell’ospedale del 13, ma vera e propria scimmia. Dovevo assumerne delle belle dosi, perché, quando vengo colta da quel bisogno disperato di averne, accompagnato da tremiti e dolori lancinanti e freddo insopportabile, la mia risolutezza si frantuma come un guscio d’uovo. In ginocchio, setaccio la moquette con le unghie per ritrovare le preziose pillole che ho gettato via in un momento in cui ero più decisa. Modifico i miei piani, passando dal suicidio a una lenta morte per morfamina. Diventerò un sacco d’ossa con la pelle giallastra e gli occhi enormi. Ho messo in atto il mio programma da un paio di giorni, e sto facendo progressi, quando accade qualcosa di inaspettato.
Comincio a cantare. Alla finestra, sotto la doccia, nel sonno. Ore e ore di ballate, canzoni d’amore, canti di montagna. Tutte le melodie che mio padre mi ha insegnato prima di morire, perché da quel momento in poi nella mia vita c’è stata ben poca musica. La cosa incredibile è la chiarezza con cui me le ricordo. Le arie, le parole. La mia voce, che all’inizio è roca e si spezza sulle note più alte, diventa calda e magnifica. Una voce che farebbe ammutolire le ghiandaie imitatrici e poi le renderebbe così desiderose di unirsi al canto da inciampare l’una nell’altra. Passano i giorni, le settimane. Osservo la neve cadere sul davanzale della mia finestra. E in tutto quel tempo, la mia voce è la sola che sento.
Cosa staranno facendo? Qual è l’impedimento, là fuori? Quanto può essere difficile organizzare l’esecuzione di una giovane omicida? Io continuo imperterrita ad annientare me stessa. Il mio corpo è più magro di quanto non sia mai stato, e la lotta tra me e la fame è così violenta che a volte la mia parte animale cede alla tentazione di un po’ di pane imburrato o di carne arrosto. Ciononostante, sto vincendo. Passano alcuni giorni in cui non sto affatto bene e credo di essere finalmente sul punto di lasciare questa vita, ma poi mi rendo conto che le pastiglie di morfamina stanno diminuendo. Cercano di disintossicarmi poco a poco da quella roba. Perché? Sbarazzarsi di fronte alla folla di una Ghiandaia Imitatrice drogata dovrebbe essere più semplice. Poi vengo colta da un pensiero terrificante: e se non avessero intenzione di uccidermi? E se avessero altri piani per me? Tipo rimettermi in sesto, addestrarmi e usarmi in un modo diverso?
Non starò al loro gioco. Se non posso ammazzarmi in questa stanza, quando ne uscirò, coglierò la prima occasione che mi si presenta per finire il lavoro. Possono farmi ingrassare. Possono lustrarmi da capo a piedi, vestirmi elegante e rendermi di nuovo bella. Possono progettare armi da sogno che si animano tra le mie mani, ma non riusciranno a farmi un altro lavaggio del cervello per convincermi della necessità di servirmene. Non provo più alcun obbligo di lealtà nei confronti di quei mostri chiamati esseri umani, detesto essere io stessa una di loro. Credo che Peeta avesse visto giusto riguardo al distruggerci l’un l’altro e permettere che specie migliori prendano il nostro posto. Perché c’è qualcosa di profondamente sbagliato in una creatura che sacrifica la vita dei propri figli per appianare le divergenze. La si può raccontare come si vuole. Snow riteneva che gli Hunger Games fossero un efficace strumento di controllo. La Coin credeva che i paracadute avrebbero accelerato la fine della guerra. Ma, alla fine dei conti, chi se ne avvantaggia? Nessuno. Perché a nessuno giova vivere in un mondo in cui accadono cose del genere, questa è la verità.
Dopo aver trascorso due giorni distesa sul materasso senza fare il minimo tentativo di mangiare, bere e persino prendere una pastiglia di morfamina, la porta della mia stanza si apre. Qualcuno viene a fare il giro del letto ed entra nel mio campo visivo. Haymitch. — Il tuo processo si è concluso — dice. — Forza. Io e te torniamo a casa.
A casa? Ma di che parla? La mia casa non c’è più. E anche se potessi davvero andare in quel luogo immaginario, sono troppo debole per muovermi. Compaiono degli sconosciuti. Mi reidratano e mi alimentano. Mi fanno il bagno e mi vestono. Uno mi solleva come una bambola di pezza e mi porta sul tetto, a bordo di un hovercraft, e mi allaccia la cintura di un sedile. Haymitch e Plutarch sono seduti di fronte a me. Nel giro di qualche istante, siamo in volo.
Non ho mai visto Plutarch tanto allegro. È decisamente raggiante. — Devi avere un milione di domande! — E quando io non reagisco, lui risponde comunque ai miei quesiti inespressi.
Dopo che ho ucciso la Coin, è scoppiato un pandemonio. Quando si è placato, hanno scoperto il cadavere di Snow, ancora attaccato al palo. Sul fatto che sia morto soffocato mentre rideva o sia rimasto schiacciato dalla folla, i pareri sono discordi. A nessuno importa davvero. Sono state indette delle elezioni di emergenza e la Paylor ha ottenuto la carica di presidente. Plutarch è stato nominato ministro delle comunicazioni, ovverosia responsabile delle programmazioni via etere. Il primo grande evento trasmesso in TV è stato il mio processo, nel quale lui è stato anche testimone di rilievo. Per la difesa, naturalmente. Anche se la maggior parte del merito per la mia assoluzione va al dottor Aurelius, che a quanto pare si è guadagnato i suoi pisolini dipingendomi come una pazza irrecuperabile, traumatizzata dal bombardamento. L’unica condizione per il mio rilascio è che continui a farmi curare da lui. Il che dovrà per forza avvenire per telefono, perché il dottor Aurelius non vivrebbe mai in un posto desolato come il 12, e io sarò confinata lì sino a nuovo ordine. La verità è che nessuno sa cosa farsene di me adesso che la guerra è finita, benché Plutarch sia certo che potrebbero facilmente trovarmi un incarico nel caso in cui ne iniziasse un’altra. E qui, Plutarch si fa una bella risata. Il fatto che nessun altro apprezzi mai le sue battute sembra non disturbarlo affatto.
— Ti stai preparando per una nuova guerra, Plutarch? — chiedo.
— Oh, non adesso. Adesso ci troviamo in quello stupendo periodo in cui tutti concordano che i nostri ultimi orrori non dovranno mai ripetersi — dice lui. — Ma di solito il pensiero collettivo ha vita breve. Siamo creature stupide e incostanti, con la memoria corta e un grandissimo talento per l’autodistruzione. Anche se… chissà, magari questa sarà la volta buona, Katniss.
— In che senso? — chiedo.
— La volta che invece dura. Forse stiamo assistendo dell’evoluzione della razza umana. Pensaci. — E a quel punto mi chiede se mi piacerebbe esibirmi nel nuovo programma musicale che lancerà tra qualche settimana. Andrebbe bene qualcosa di allegro. Manderà la troupe a casa mia.
Facciamo un breve scalo nel Distretto 3 per far scendere Plutarch. Deve incontrare Beetee per aggiornare la tecnologia del sistema radiotelevisivo. Le sue parole di addio per me sono: — Non sparire.
Quando torniamo tra le nuvole, guardo Haymitch. — E tu perché stai tornando nel 12?
— Pare che non riescano a trovare un posto neanche per me, a Capitol City — dice.
All’inizio, non faccio domande. Ma i dubbi cominciano a insinuarsi nella mia testa. Haymitch non ha assassinato nessuno. Potrebbe andare ovunque. Se torna nel 12, è perché gli è stato ordinato. — Devi occuparti di me, non è vero? Come mio mentore? — Lui scrolla le spalle. Poi capisco cosa significa. — Mia madre non verrà.
— No — dice. Estrae una busta dalla tasca della giacca e me la tende. Studio la grafia delicata e perfetta. — Sta dando una mano ad aprire un ospedale nel Distretto 4. Vuole che tu la chiami appena arrivi. — Le mie dita seguono i graziosi svolazzi delle lettere. — Tu sai perché non può tornare. — Sì, lo so. Perché tra mio padre, Prim e le ceneri, il dolore racchiuso in quel luogo è troppo da sopportare. Ma non per me, a quanto sembra. — Vuoi sapere chi altro ci sarà?
— No — dico. — Voglio che sia una sorpresa.
Da bravo mentore, Haymitch mi fa mangiare un panino e poi finge di credere che dormo per il resto del viaggio. Si tiene occupato passando da uno scompartimento all’altro dell’hovercraft, trovando il liquore e mettendoselo in borsa. È notte quando atterriamo sul prato del Villaggio dei Vincitori. Metà delle case, compresa la mia e quella di Haymitch, hanno delle luci alle finestre. Quella di Peeta no. Qualcuno ha acceso un fuoco nella mia cucina. Mi siedo sulla sedia a dondolo lì davanti, stringendo la lettera di mia madre.
— Be’, ci vediamo domani — dice Haymitch.
Mentre il tintinnio della sua borsa piena di bottiglie di liquore si smorza in lontananza, bisbiglio: — Ne dubito.
Sono incapace di spostarmi dalla sedia. Il resto della casa sembra freddo e vuoto e buio. Mi copro il corpo con un vecchio scialle e guardo le fiamme. Immagino di aver dormito, perché, ancor prima di rendermene conto, è mattina, e Sae la Zozza sta sbatacchiando qualcosa davanti alla stufa. Mi prepara delle uova e del pane tostato e si siede lì finché non li ho finiti. Non parliamo granché. La sua nipotina, quella che vive in un mondo tutto suo, prende un gomitolo di lana azzurro vivo dal cestino del lavoro a maglia di mia madre. Sae la Zozza le ordina di rimetterlo a posto, ma io dico che può tenerselo. Non c’è più nessuno in questa casa che sappia lavorare a maglia.
Dopo colazione, Sae la Zozza lava i piatti e se ne va, ma torna all’ora di cena per farmi mangiare ancora. Non so se agisca solo da buona vicina o se sia sul libro paga del governo, ma continua a presentarsi due volte al giorno. Lei cucina, io mangio. Cerco di immaginare la mia prossima mossa. Non c’è più niente che mi impedisca di togliermi la vita, ormai. Ma è come se aspettassi qualcosa.
Di tanto in tanto, il telefono squilla, e continua a squillare per un bel po’, ma io non rispondo. Haymitch non passa mai a trovarmi. Forse ha cambiato idea e se ne è andato, anche se sospetto che sia semplicemente ubriaco. Non viene nessuno, a parte Sae la Zozza e sua nipote. Dopo mesi di reclusione solitaria, sembrano una folla.
— Si sente la primavera nell’aria, oggi. Dovresti uscire — dice. — Andare a caccia.
Non ho mai messo piede fuori di casa. E nemmeno fuori dalla cucina, tranne che per raggiungere il piccolo bagno a qualche passo di distanza. Porto gli stessi vestiti che avevo quando lasciai Capitol City. Me ne sto semplicemente seduta accanto al fuoco. A fissare le lettere ancora chiuse che si accumulano sulla mensola del caminetto. — Non ho un arco.
— Cerca nell’ingresso — ribatte.
Una volta uscita Sae la Zozza, valuto la possibilità di un viaggio sino all’ingresso. E la escludo. Ma parecchie ore dopo, ci vado lo stesso, aggirandomi silenziosa e senza scarpe per non risvegliare i fantasmi. Entro nello studio dove presi il tè con il presidente Snow e trovo uno scatolone che contiene la giacca da caccia di mio padre, il nostro libro delle piante, la foto del matrimonio dei miei genitori, la spillatrice che mi inviò Haymitch e il medaglione che Peeta mi regalò nell’arena dell’orologio. I due archi e la faretra di frecce che Gale salvò la notte delle bombe incendiarie giacciono sulla scrivania. Indosso la giacca da caccia senza toccare il resto. Mi addormento sul divano dell’elegante salotto. Segue un terribile incubo nel quale sono sdraiata in una fossa profonda e tutti i morti che conosco per nome sfilano uno a uno lì davanti per gettarmi sopra una palata di cenere. È un sogno piuttosto lungo, tenuto conto del numero delle persone, e più mi ricoprono, più fatico a respirare. Cerco di gridare per implorarli di smettere, ma la cenere mi riempie il naso e la bocca e non riesco a produrre alcun suono. E intanto la pala continua a raschiare, ancora e ancora…
Mi sveglio con un sobbalzo. La pallida luce del mattino filtra dai bordi delle persiane. Il grattare della pala prosegue. Ancora mezzo sprofondata nell’incubo, corro nell’ingresso, esco dalla porta principale e giro sul fianco della casa, perché adesso sono abbastanza sicura di poter urlare contro i morti. Quando lo vedo, mi blocco di colpo. Il suo viso è arrossato per avere zappato il terriccio sotto la finestra. In una carriola, ci sono cinque arbusti stenti.
— Sei tornato — dico.
— Fino a ieri il dottor Aurelius non mi ha permesso di lasciare Capitol City — spiega Peeta. — Tra l’altro, mi ha detto di dirti che non può continuare a fare solo finta di curarti. Devi rispondere al telefono.
Ha un bell’aspetto. Come me, è magro e coperto di cicatrici da ustioni, ma i suoi occhi hanno perso quell’espressione confusa e tormentata. Però si acciglia leggermente mentre mi osserva. Faccio uno sforzo poco convinto per scostarmi i capelli dagli occhi e mi accorgo di avere in testa una massa aggrovigliata. Mi metto sulla difensiva. — Cosa stai facendo?
— Sono stato nei boschi, stamattina, e ho sradicato questi. Per lei — dice. — Pensavo che potremmo piantarli lungo il lato della casa.
Guardo gli arbusti, le zolle di terra che pendono dalle loro radici, e trattengo il respiro, mentre il mio cervello registra il termine “rosa”. Sto per mettermi a strillare parole crudeli contro Peeta, quando mi rendo conto del nome completo della pianta. Non semplicemente rosa, ma “prima rosa”, primrose, la “primula”. Lo stesso nome di mia sorella. Annuisco a Peeta in segno di assenso e mi affretto a tornare dentro casa, chiudendo la porta a chiave dietro di me. Ma il male è dentro, non fuori. Tremante per la debolezza e l’ansia, corro su per le scale. Il mio piede urta l’ultimo gradino e cado sul pavimento. Mi costringo a rialzarmi ed entro nella mia stanza. Il profumo è lievissimo ma avvelena ancora l’aria. È lì. La rosa bianca tra i fiori secchi, nel vaso. È fragile e raggrinzita, ma conserva l’innaturale perfezione coltivata nella serra di Snow. Afferro il vaso, scendo incespicando fino in cucina e getto il suo contenuto tra le braci. Quando i fiori cominciano a bruciare, una vampata bluastra avvolge la rosa e la divora. Il fuoco batte le rose, ancora una volta. Tanto per non sbagliare, frantumo anche il vaso sul pavimento.
Tornata di sopra, spalanco le finestre della stanza da letto per pulirla da ciò che resta del fetore di Snow. Che però persiste, sui miei vestiti e nei miei pori. Mi spoglio, e scaglie di pelle grandi come carte da gioco restano attaccate agli indumenti. Evitando lo specchio, entro nella doccia e mi strofino via le rose dai capelli, dal corpo, dalla bocca. Con la pelle che pizzica e si è fatta rosa acceso, trovo qualcosa di pulito da mettermi. Mi ci vuole mezz’ora per districare i capelli. Sae la Zozza apre la porta d’ingresso. Mentre lei prepara la colazione, io butto nel fuoco i vestiti che mi sono tolta. Dietro suo consiglio, mi taglio le unghie con un coltello.
Da sopra il piatto di uova, le chiedo: — Dov’è andato Gale?
— Distretto 2. Ha un gran bel lavoro, là. Ogni tanto lo vedo in TV — risponde.
Scavo dentro di me, cercando rabbia, odio, nostalgia. Trovo soltanto sollievo.
— Oggi vado a caccia — dico.
— Be’, in effetti un po’ di selvaggina fresca non mi dispiacerebbe — commenta.
Mi armo di arco e frecce e vado fuori, con l’intenzione di uscire dal 12 attraverso il Prato. Vicino alla piazza, ci sono gruppi di persone che indossano mascherina e guanti e hanno carri trainati da cavalli. Esaminano minuziosamente ciò che quest’inverno giaceva sotto la neve. Raccolgono resti. Un carretto è fermo davanti alla casa del sindaco. Riconosco Thom, l’ex compagno di squadra di Gale, che si è fermato un momento per asciugarsi il sudore dal viso con uno straccio. Ricordo di averlo visto nel 13, ma dev’essere tornato. Il suo saluto mi dà il coraggio di chiedere: — Hanno trovato qualcuno, là dentro?
— Tutta la famiglia. E le due persone che lavoravano per loro — mi dice Thom.
Madge. Tranquilla e gentile e coraggiosa. La ragazza che mi regalò la spilla da cui ho preso il nome. È un boccone amaro. Mi chiedo se stanotte si unirà ai personaggi che popolano i miei incubi. Gettandomi palate di cenere in bocca. — Credevo che magari, visto che lui era il sindaco…
— Non penso che essere sindaco del 12 lo abbia favorito — dice Thom.
Annuisco e continuo per la mia strada, ben attenta a non guardare nel fondo del carro. Da un capo all’altro della città e del Giacimento, la scena si ripete. La mietitura dei morti. Mentre mi avvicino alle rovine della mia vecchia casa, la strada comincia a brulicare di carri. Il Prato non c’è più, o quantomeno è cambiato radicalmente. Vi hanno scavato una buca profonda che adesso stanno rivestendo di ossa, una fossa comune per la mia gente. Faccio il giro della buca e penetro nei boschi dal mio solito posto. Ha ben poca importanza, però la recinzione non è più elettrificata ed è stata puntellata con dei lunghi rami per tenere fuori i predatori. Ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Penso di andare al lago, ma sono così debole che riesco appena ad arrivare al punto in cui io e Gale ci incontravamo. Mi siedo sulla roccia dove Cressida ci filmò, ma è troppo grande senza il suo corpo accanto a me. A più riprese, chiudo gli occhi e conto fino a dieci, credendo che quando li riaprirò, lui si sarà materializzato senza rumore, come spesso faceva. Devo ricordare a me stessa che Gale è nel 2, ha un gran bel lavoro, e probabilmente sta baciando un altro paio di labbra.
È il tipo di giornata preferito dalla vecchia Katniss. L’inizio della primavera. I boschi che si svegliano dopo il lungo inverno. Ma la ventata di energia che è iniziata con le primule svanisce. Quando riesco a tornare alla recinzione, la nausea e le vertigini sono tali che Thom deve darmi un passaggio a casa con il carro dei morti. E aiutarmi a raggiungere il divano del salotto, dove resto a guardare i granelli di polvere che volteggiano nei fiochi raggi di luce pomeridiana.
Giro la testa di scatto quando sento soffiare, ma mi ci vuole un po’ per credere che sia proprio lui. Com’è riuscito ad arrivare fin qui? Osservo i segni degli artigli di un qualche animale selvatico, la zampa posteriore leggermente sollevata da terra, le ossa sporgenti del muso. È venuto a piedi, allora, si è fatto tutta la strada dal 13. Forse lo hanno sbattuto fuori, o forse non è riuscito a rimanere là senza di lei, così è venuto a cercarla.
— Hai fatto un viaggio inutile. Lei non è qui — gli dico. Ranuncolo soffia ancora. — Non è qui. Puoi soffiare quanto ti pare. Non troverai Prim. — Si rianima, sentendo quel nome. Alza le orecchie appiattite. Si mette a miagolare, speranzoso. — Vattene! — Schiva il cuscino che gli lancio contro. — Va’ via! Qui non c’è più niente per te! — Comincio a tremare, furibonda verso di lui. — Lei non tornerà! Non tornerà mai più qui! — Afferro un altro cuscino e mi alzo in piedi per avere una mira migliore. Senza alcun preavviso, le lacrime cominciano a scorrermi lungo le guance. — È morta. — Stringo forte le braccia intorno alla vita per attenuare il dolore. Mi lascio cadere sui talloni, cullando il cuscino e piangendo. — È morta, stupido gatto. È morta. — Un nuovo suono, che in parte è urlo e in parte è canto, mi esce da dentro per dare voce alla mia disperazione. Anche Ranuncolo si mette a gemere. Qualunque cosa io faccia, lui non se ne andrà. Mi gira intorno, appena fuori tiro, mentre ondate su ondate di singhiozzi straziano il mio corpo. Poi perdo i sensi. Ma lui deve aver capito. Deve essersi reso conto che l’impensabile è accaduto e che sopravvivere richiederà azioni in precedenza inconcepibili. Perché ore dopo, quando rinvengo nel mio letto, lui è lì, alla luce della luna. Rannicchiato al mio fianco, con gli occhi gialli ben vigili, che mi protegge dalla notte.
La mattina, rimane stoicamente seduto mentre gli pulisco le ferite, ma estrargli la spina dalla zampa lo fa esplodere in una serie di quei famosi miagolii da gattino svenevole. Finiamo per piangere di nuovo tutti e due, solo che stavolta ci consoliamo a vicenda. È per questo che apro la lettera, quella che Haymitch mi ha consegnato da parte di mia madre, chiamo quel numero di telefono, e verso qualche lacrima anche con lei. Peeta, con una pagnotta ancora calda in mano, si presenta insieme a Sae la Zozza. Lei ci prepara la colazione e io passo tutta la mia pancetta a Ranuncolo.
Poco a poco, tra molte giornate buttate via, torno alla vita. Cerco di seguire il consiglio del dottor Aurelius, limitandomi a fare le cose in maniera meccanica, e mi sorprendo quando una di quelle cose, alla fine, acquista di nuovo un significato. Gli parlo della mia idea di scrivere un libro, e una grossa scatola piena di fogli di carta arriva da Capitol City con il treno successivo.
Ho preso spunto dal libro delle piante che appartiene alla nostra famiglia, nel quale abbiamo annotato ciò che non si può affidare soltanto alla memoria. In cima alla pagina ci sarà l’immagine della persona, una foto, se riusciamo a trovarla. In caso contrario, uno schizzo o un dipinto di Peeta. Poi, nella mia migliore grafia, riporterò tutti quei particolari che sarebbe un delitto dimenticare. Lady che lecca la guancia di Prim. La risata di mio padre. Il padre di Peeta coi biscotti. Il colore degli occhi di Finnick. Quello che Cinna era in grado di fare con uno scampolo di seta. Boggs che riprogramma l’Olo. Rue in equilibrio sulle punte dei piedi, le braccia un po’ allargate, come un uccello sul punto di prendere il volo. Non ci fermiamo più. Suggelliamo le pagine con lacrime salate e promesse di continuare a vivere proprio per dare un valore alla loro morte. Alla fine, Haymitch si unisce a noi, partecipando con ventitré anni di tributi ai quali è stato costretto a fare da mentore. Col tempo, le aggiunte si riducono. Un vecchio ricordo che ritorna. Una primula tardiva conservata tra le pagine. Curiosi brandelli di felicità, come la foto del figlio appena nato di Finnick e Annie.
Impariamo un’altra volta a tenerci occupati. Peeta fa il pane. Io vado a caccia. Haymitch beve finché non finisce il liquore, dopodiché alleva oche sino all’arrivo del treno successivo. Per fortuna, le oche sanno badare a se stesse piuttosto bene. Non siamo soli. Qualche centinaio di persone ha fatto ritorno qui, perché, qualunque cosa sia successa, questa è casa nostra. Con le miniere chiuse, si ara la terra mescolandola alle ceneri e si coltivano piante commestibili. Macchinari provenienti da Capitol City scavano per gettare le fondamenta di una nuova fabbrica dove produrremo farmaci. Benché nessuno lo semini, il Prato torna di nuovo verde.
Io e Peeta ricominciamo a crescere insieme. Ci sono ancora momenti in cui lui afferra lo schienale di una sedia e aspetta finché i flashback non sono finiti. Io mi risveglio urlando da incubi di ibridi e bambini perduti. Ma le sue braccia sono lì a darmi conforto. E in seguito le sue labbra. La notte in cui provo di nuovo quella sensazione, la fame che mi aveva assalito sulla spiaggia, so che tutto questo sarebbe accaduto comunque. Che quello di cui ho bisogno per sopravvivere non è il fuoco di Gale, acceso di odio e di rabbia. Ho abbastanza fuoco di mio. Quello di cui ho bisogno è il dente di leone che fiorisce a primavera. Il giallo brillante che significa rinascita anziché distruzione. La promessa di una vita che continua, per quanto gravi siano le perdite che abbiamo subito. Di una vita che può essere ancora bella. E solo Peeta è in grado di darmi questo.
Così, quando sussurra: — Tu mi ami. Vero o falso? — io gli rispondo — Vero.