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Mi butto a testa bassa nell’addestramento. Mangio, vivo e respiro gli allenamenti, le esercitazioni, la preparazione all’uso delle armi, le lezioni di tattica. Alcuni di noi vengono assegnati a un corso aggiuntivo, il che mi dà la speranza di essere un possibile candidato alla vera guerra.
I soldati lo chiamano semplicemente l’Isolato, ma il tatuaggio che ho sul braccio lo registra come SCS, sigla che sta per Simulazione di Combattimento per Strada. Nelle profondità del 13 hanno costruito un finto isolato di Capitol City. L’istruttore ci divide in squadre di otto e noi cerchiamo di portare a termine missioni diverse – conquistare una posizione, distruggere un obiettivo, perquisire una casa – come se stessimo davvero avanzando attraverso la città.
L’intero scenario è costruito in modo che tutto quello che ti può andare male ci va. Un passo falso innesca una mina anti-uomo, su un tetto sbuca un cecchino, il tuo fucile si inceppa, il pianto di un bambino ti porta in un’imboscata, il comandante della tua squadra, che è solo una voce registrata, viene colpito da un mortaio e tu devi riuscire a capire cosa fare senza ordini. Una parte di te sa che è tutto fasullo e che nessuno ti ucciderà. Se fai scoppiare una mina anti-uomo, senti l’esplosione e devi fingere di cadere a terra morto. Ma per altri versi, sembra tutto piuttosto reale, là dentro, dai soldati nemici vestiti con le uniformi dei Pacificatori, alla confusione di una bomba fumogena. Ci asfissiano persino con il gas. Io e Johanna siamo le uniche che riescono a mettersi le maschere in tempo. Gli altri della nostra squadra rimangono al tappeto per dieci minuti. E il gas teoricamente innocuo che inalo solo per pochi istanti mi causa una tremenda emicrania per il resto della giornata.
Cressida e la sua troupe riprendono Johanna e me al poligono. So che anche Gale e Finnick vengono filmati. Fa parte di una nuova serie di pass-pro che mostra i ribelli mentre si preparano all’invasione di Capitol City. Nel complesso, le cose vanno piuttosto bene.
Poi Peeta comincia a farsi vedere ai nostri allenamenti mattutini. Le manette non ci sono più, ma è costantemente accompagnato da un paio di sorveglianti.
Dopo pranzo, lo vedo mentre si esercita con un gruppo di principianti dall’altra parte del campo. Non so cosa pensino, al Comando. Se un battibecco con Delly può ridurlo a litigare con se stesso, non ha motivo di imparare ad assemblare un fucile.
Quando affronto Plutarch, lui mi assicura che è tutta una sceneggiata a uso delle telecamere. Hanno filmato Annie che si sposava e Johanna che colpiva bersagli, ma l’intero Panem si sta chiedendo che fine abbia fatto Peeta.
Il pubblico deve vedere che combatte per gli insorti e non per Snow. E magari, se potessero avere un paio di riprese di noi due… Non dobbiamo baciarci per forza, solo sembrare felici perché siamo di nuovo insieme…
Me ne vado, interrompendo la conversazione. Questo non succederà.
Nei miei rari momenti liberi, osservo con ansia i preparativi per l’invasione.
Vedo approntare equipaggiamento e viveri, radunare divisioni. Chi ha avuto ordine di partire si distingue dal taglio di capelli cortissimo, segno che andrà in battaglia. Si parla molto dell’offensiva iniziale, che servirà a mettere in sicurezza i tunnel ferroviari da cui Capitol City riceve cibo.
Solo qualche giorno prima della partenza delle prime truppe, inaspettatamente la York dice a me e a Johanna di averci raccomandate per l’esame, e che dobbiamo presentarci subito.
L’esame si suddivide in quattro parti: un percorso di guerra che valuta le condizioni fisiche, una prova scritta di tattica, un test sull’abilità con le armi e una simulazione di combattimento nell’Isolato. Non ho neppure il tempo di innervosirmi per le prime tre e vado bene, ma poi c’è un ritardo all’Isolato. Qualche genere di problema tecnico che stanno cercando di risolvere. Alcuni di noi si scambiano informazioni. Pare tutto vero. Dovremo sbrigarcela da soli. Non c’è modo di prevedere in che situazione ci cacceranno. Sottovoce, un ragazzo dice di aver sentito che la cosa è progettata per individuare i punti deboli di ognuno.
I miei punti deboli? Quella è una porta che non vorrei neppure aprire. Però trovo un angolo tranquillo e allora mi metto a valutare quali possano essere, questi punti deboli.
La lunghezza dell’elenco mi deprime. Mancanza di forza bruta. Il minimo indispensabile di addestramento. E, in un certo senso, la mia posizione di spicco in quanto Ghiandaia Imitatrice non sembra rappresentare un vantaggio, in un contesto in cui cercano di amalgamarci in un gruppo compatto. Potrebbero mettermi alla prova su mille cose diverse.
Johanna viene chiamata tre persone prima di me, e io le faccio un cenno di incoraggiamento con la testa. Avrei voluto essere in cima alla lista perché ormai, a forza di analizzare tutta la faccenda, sono paralizzata.
Quando chiamano il mio nome, non ho idea della strategia che dovrei usare.
Per fortuna, una volta entrata nell’Isolato, mi viene in aiuto una certa dose di addestramento. È una situazione di imboscata. Quasi subito compaiono i Pacificatori, e io devo avanzare sino a un punto d’incontro per riunirmi alla mia squadra che si è sparpagliata. Percorro lentamente la strada, facendo fuori vari Pacificatori mentre procedo.
Due sul tetto alla mia sinistra, un altro su una porta davanti a me. È impegnativo, ma non difficile come mi aspettavo. Continuo ad avere la sensazione che, se le cose sono troppo facili, evidentemente non ho colto il nocciolo della questione. Sono a un paio di edifici di distanza dal mio obiettivo quando l’atmosfera comincia a scaldarsi.
Una mezza dozzina di Pacificatori sbuca da dietro l’angolo a passo di carica. Avranno la meglio su di me, però noto qualcosa. Un bidone di benzina abbandonato per distrazione nel canaletto di scolo.
Eccola. La mia prova: accorgermi che far esplodere quel bidone sarà l’unico modo per portare a termine la mia missione.
Proprio mentre affretto il passo per farlo, il comandante della mia squadra, del tutto inutile fino a questo momento, mi ordina in tono sommesso di buttarmi a terra. Ogni istinto che possiedo mi grida di ignorare la voce, premere il grilletto e far saltare in aria i Pacificatori.
E all’improvviso capisco quale sarà, secondo i militari, il mio maggior punto debole. Dal primo istante nei Giochi, quando mi sono precipitata a prendere quello zaino arancione, fino allo scontro a fuoco nell’8, alla mia corsa irriflessiva attraverso la piazza del 2.
Non sono capace di eseguire gli ordini.
Mi scaravento a terra con tanta violenza e rapidità che continuerò a togliermi ghiaia dal mento per una settimana. Qualcun altro fa esplodere il fusto di benzina. I Pacificatori muoiono. Io raggiungo il mio punto d’incontro.
Quando abbandono l’Isolato dall’uscita più lontana, un soldato si congratula con me, mi stampiglia il numero di squadra 451 sulla mano e mi dice di presentarmi al Comando. Con la testa che quasi mi gira per avercela fatta, corro lungo i corridoi, slittando a ogni angolo, scendendo i gradini a balzi perché l’ascensore è troppo lento. Piombo nella stanza prima che la stranezza della situazione si faccia strada nella mia mente. Io non dovrei trovarmi al Comando. Dovrei essere a farmi rasare i capelli. I tizi intorno al tavolo non sono soldati nuovi di zecca ma quelli che prendono le decisioni.
Boggs sorride e scuote la testa quando mi vede. — Fa’ vedere. — Ormai insicura, tendo la mano stampigliata. — Sei con me. È una unità speciale di tiratori scelti. Unisciti alla tua squadra. — Con un cenno della testa, mi indica il gruppo allineato contro la parete. Gale. Finnick. Altri cinque che non conosco. La mia squadra. Non solo ne ho una, ma ho anche l’occasione di lavorare agli ordini di Boggs. Insieme ai miei amici. Mi costringo a raggiungerli con passo tranquillo e marziale invece di saltellare.
Dobbiamo essere importanti, anche, perché siamo al Comando, e questo non ha niente a che fare con una certa Ghiandaia Imitatrice.
Plutarch osserva con attenzione un largo pannello piatto al centro del tavolo. Sta spiegando qualcosa a proposito della natura di ciò che incontreremo a Capitol City. Penso che sia un disastro, come relazione, anche in punta di piedi non riesco a vedere cosa c’è sul pannello, finché lui non preme un tasto. Nell’aria appare l’immagine olografica di un isolato di Capitol City.
— Questa, per esempio, è l’area che circonda una delle caserme dei Pacificatori. Non è un obiettivo insignificante, ma neppure il più cruciale, eppure guardate. — Plutarch inserisce una specie di codice su una tastiera, e alcune luci cominciano a lampeggiare. Sono di vari colori e si illuminano a intervalli diversi. — Ogni luce corrisponde a ciò che chiamiamo “baccello” e rappresenta un ostacolo differente, la cui natura può andare da una bomba a un branco di ibridi. State pur certi che, qualunque cosa contenga, il baccello è progettato per intrappolarvi o per uccidervi. Alcuni sono stati installati già all’epoca dei Giorni Bui, altri li hanno realizzati nel corso degli anni. Per essere sincero, io stesso ne ho creato un discreto numero. Questo programma, trafugato da uno dei nostri quando abbandonammo Capitol City, costituisce la nostra più recente fonte di informazioni. Loro non sanno che l’abbiamo. Tuttavia, è possibile che negli ultimi mesi abbiano attivato nuovi baccelli. Ecco cosa vi troverete davanti.
Non mi accorgo che i miei piedi si stanno muovendo verso il tavolo finché non mi ritrovo a pochi centimetri dall’ologramma. Vi introduco una mano, piegandola a coppa intorno a una luce verde che si accende e si spegne velocissima.
Qualcuno mi raggiunge, il corpo in tensione. Finnick, naturalmente. Perché solo un vincitore è in grado di vedere ciò che io ho notato all’istante. L’arena. Contornata di baccelli controllati da Strateghi. Le dita di Finnick accarezzano un bagliore rosso e costante che si trova sopra una porta. — Signore e signori…
La sua voce è tranquilla, ma la mia risuona attraverso la stanza: — … che i Settantaseiesimi Hunger Games abbiano inizio!
Rido. In fretta. Prima che qualcuno abbia il tempo di registrare le parole che ho appena pronunciato. Prima che si inarchino sopracciglia, si sollevino obiezioni, si faccia due più due e si concluda che dovrei essere tenuta il più lontano possibile da Capitol City. Perché una vincitrice arrabbiata che pensa con la sua testa e si porta dietro una cicatrice psicologica troppo spessa da penetrare è forse l’ultima persona che vorresti nella tua squadra.
— Non so nemmeno perché ti sei disturbato a far seguire le sessioni di addestramento a Finnick e a me, Plutarch — dico.
— Già, noi due siamo già i soldati più preparati che hai — aggiunge Finnick in tono sfacciato.
— Non crediate che io non lo sappia — ribatte lui con un cenno impaziente della mano. — E adesso tornate in riga, soldati Odair ed Everdeen. Ho una relazione da finire.
Ci ritiriamo ai nostri posti, ignorando gli sguardi interrogativi lanciati verso di noi.
Assumo un atteggiamento di estrema concentrazione, mentre Plutarch va avanti, annuendo qua e là, cambiando posizione per avere una visuale migliore, ripetendomi varie volte di resistere fino al momento in cui potrò andare nei boschi e mettermi a urlare. O imprecare. O piangere. O magari tutte e tre le cose insieme.
Se questo era un test, io e Finnick l’abbiamo superato entrambi. Quando Plutarch conclude e la riunione è aggiornata, passo un brutto momento nell’apprendere che c’è un ordine speciale per me. Ma si tratta solo del taglio di capelli militare, che riesco a evitare, perché vogliono che la Ghiandaia Imitatrice somigli il più possibile alla ragazza dell’arena quando, come tutti speriamo, Capitol City si arrenderà. Per le telecamere, si sa. Scrollo le spalle per far capire che la lunghezza dei miei capelli mi lascia del tutto indifferente. Mi congedano senza ulteriori commenti.
Nel corridoio, io e Finnick ci avviciniamo piano piano, come attratti dalla forza di gravità. — Cosa dirò a Annie? — chiede lui, sottovoce.
— Niente — rispondo. — E niente è ciò che dirò io a mia madre e mia sorella. — È già abbastanza pesante che siamo noi a sapere di essere inviati un’altra volta in un’arena zeppa di attrezzi mortali. Inutile informarne anche le persone che amiamo.
— Se vede quell’ologramma… — comincia a dire.
— Non lo vedrà. È un’informazione riservata. Deve esserlo — replico. — E comunque non è come una vera edizione dei Giochi. Sopravvivranno in tanti. Stiamo solo reagendo in maniera eccessiva, perché… be’, lo sai perché. Però vuoi ancora andare, vero?
— Certo. Voglio distruggere Snow quanto lo vuoi tu — dice.
— Non sarà come per gli altri — commento in tono fermo, cercando di convincere anche me stessa. Poi mi appare chiara la vera bellezza della situazione. — Stavolta, anche Snow sarà un giocatore.
Prima che possiamo continuare, si presenta Haymitch. Non era alla riunione, non sta pensando all’arena, ma a qualcos’altro. — Johanna è di nuovo in ospedale.
Credevo che Johanna stesse bene e avesse superato l’esame ma che non sarebbe stata assegnata a un’unità di tiratori scelti, tutto qui.
È bravissima a lanciare una scure, ma con un fucile è più o meno nella media. — Si è forse fatta male? Cos’è successo?
— È stato quando era nell’Isolato. Cercano di scoprire i potenziali punti deboli di ogni soldato. Perciò hanno inondato la strada — dice Haymitch.
Questo non mi aiuta. Johanna sa nuotare. O almeno mi sembra di ricordare che si arrangiasse, all’Edizione della Memoria. Non nuota come Finnick, naturalmente, ma nessuno di noi è come Finnick. — E quindi?
— È così che la torturavano, a Capitol City. La immergevano nell’acqua e poi usavano l’elettroshock — spiega Haymitch. — Nell’Isolato ha avuto una specie di flashback. Si è fatta prendere dal panico, non sapeva dov’era. L’hanno rimessa sotto sedativi. — Io e Finnick stiamo lì e basta, come se avessimo perso la capacità di reagire. Penso che Johanna non fa mai la doccia. Che quel giorno si è costretta a uscire sotto la pioggia come se fosse acido, ma avevo attribuito il suo tormento all’astinenza da morfamina.
— Voi due dovreste andare da lei. Siete la cosa più vicina a degli amici, per lei — dice.
Questo peggiora tutta la faccenda.
Non so proprio cosa ci sia tra Johanna e Finnick. Ma io la conosco appena. Non ha famiglia. Non ha amici. Neanche un ricordo del Distretto 7 da mettere accanto ai vestiti d’ordinanza nel suo anonimo cassetto. Proprio niente.
— Sarà meglio che vada a dirlo a Plutarch. Non ne sarà felice — continua Haymitch. — Vuole che le telecamere seguano dentro Capitol City il maggior numero possibile di vincitori. Pensa che assicuri più audience.
— Tu e Beetee andate? — chiedo.
— Il maggior numero possibile di vincitori giovani e attraenti — si corregge Haymitch. — Perciò, no. Noi rimarremo qui.
Finnick scende direttamente a trovare Johanna, ma io indugio fuori qualche istante, finché Boggs non esce. È il mio comandante, adesso, quindi immagino che ci si debba rivolgere a lui per chiedere favori speciali.
Quando gli spiego cosa voglio, scrive un permesso che mi autorizza ad andare nei boschi durante la Riflessione, a patto che io rimanga entro il raggio visivo delle guardie.
Corro alla mia unità, pensando di usare il paracadute, ma è troppo intriso di ricordi orribili. Allora vado dall’altra parte del corridoio e prendo una delle garze di cotone bianco che ho portato dal 12. Quadrate. Resistenti. Proprio quel che ci vuole.
Nei boschi, trovo un pino e stacco manciate di aghi fragranti dai rami. Dopo averli ordinatamente ammucchiati al centro della garza, riunisco i lati, li attorciglio e li lego ben stretti con un lungo rampicante, facendone un fagotto delle dimensioni di una mela.
Sulla porta della stanza d’ospedale, osservo Johanna per un attimo e mi accorgo che gran parte dei suoi modi bruschi dipende dall’atteggiamento esageratamente aggressivo che assume. Privata di questo, come adesso, resta solo un’esile giovane donna i cui occhi sbarrati lottano per non chiudersi contro il potere dei farmaci, terrorizzati da ciò che il sonno porterà con sé. Mi avvicino a lei e le porgo il fagotto.
— Cos’è? — dice con voce roca. Punte di capelli umidi formano piccoli aculei sulla sua fronte.
— L’ho fatto per te. Qualcosa da mettere nel tuo cassetto. — Glielo depongo tra le mani. — Senti l’odore.
Si porta il fagotto al naso e lo annusa, esitante. — Sa di casa. — Le lacrime le riempiono gli occhi.
— Era quello che speravo, dato che vieni dal 7 e tutto il resto — dico. Ricordi quando ci siamo incontrate? Tu eri un albero. Be’, per poco.
Di colpo, stringe il mio polso in una morsa d’acciaio. — Tu devi ucciderlo, Katniss.
— Puoi starne certa. — Resisto alla tentazione di liberare il braccio con uno strattone.
— Giuralo. Su qualcosa a cui tieni — sibila lei.
— Lo giuro. Sulla mia vita. — Ma lei non mi lascia il braccio.
— Sulla vita della tua famiglia — insiste.
— Sulla vita della mia famiglia — ripeto. Immagino non ritenga sufficiente la preoccupazione per la mia personale sopravvivenza. Lei molla la presa e io mi strofino il polso. — E comunque, perché credi che ci vada, secondo te?
Questo la fa sorridere un po’. — Avevo solo bisogno di sentirlo. — Si preme il fagotto di aghi di pino sul naso e chiude gli occhi.
I giorni rimasti trascorrono in un turbine di attività. Tutte le mattine, dopo un breve allenamento, la mia squadra si addestra a tempo pieno al poligono. Io mi esercito soprattutto con il fucile, ma un’ora al giorno è dedicata alle specialità di ognuno, così riesco a usare il mio arco da Ghiandaia Imitatrice e Gale quello super-accessoriato che gli hanno dato.
Il tridente che Beetee ha progettato per Finnick ha un sacco di particolarità, ma la più notevole è che lui può lanciarlo, premere un tasto sul bracciale metallico che ha al polso, e farselo tornare in mano senza dover andare a raccoglierlo.
A volte spariamo contro dei manichini di Pacificatori per prendere confidenza con i punti deboli del loro equipaggiamento protettivo: la crepa nell’armatura, per così dire. Se colpisci la carne, sei ricompensato da un getto di sangue finto. I nostri manichini sono intrisi di rosso.
È rassicurante vedere quanto sia elevato il livello di precisione del nostro gruppo. Oltre a Finnick e a Gale, la squadra comprende cinque soldati del 13. Jackson, una donna di mezza età che è il secondo di Boggs, sembra un po’ lenta, ma è in grado di colpire cose che noialtri non vediamo nemmeno con un mirino telescopico. È ipermetrope, dice.
Ci sono due sorelle sui vent’anni di nome Leeg che in uniforme si somigliano moltissimo, e infatti le chiamiamo Leeg 1 e Leeg 2, per chiarezza. Non riesco a distinguerle, finché non mi accorgo che Leeg 1 ha delle curiose macchioline gialle negli occhi. Due tizi più vecchi, Mitchell e Homes, non parlano granché, ma con un colpo sono capaci di spolverarti gli scarponi a cinquanta metri di distanza.
Vedo altre squadre che sono quasi altrettanto forti, ma il nostro livello non mi è ben chiaro fino alla mattina in cui Plutarch ci raggiunge.
— Membri della squadra 4-5-1, siete stati selezionati per una missione speciale — inizia. Mi mordo l’interno del labbro, illudendomi che si tratti di assassinare Snow. — Abbiamo molti tiratori scelti, ma poche troupe televisive. Pertanto, abbiamo selezionato con cura voialtri otto perché formiate ciò che chiameremo la nostra Squadra di Stelle. Sarete voi i volti rappresentativi dell’invasione che mostreremo sullo schermo.
Delusione, indignazione e infine rabbia corrono attraverso il gruppo. — In pratica, stai dicendo che noi non combatteremo davvero — dice Gale in tono duro.
— Voi combatterete, ma non sarete sempre in prima linea. Ammesso che sia possibile individuare una prima linea, in questo genere di guerra — precisa Plutarch.
— Nessuno di noi vuole una cosa del genere. — L’osservazione di Finnick è seguita da un generale brontolio di approvazione, ma io me ne sto zitta. — Noi in battaglia ci dobbiamo andare.
— Voi dovete essere più utili possibile allo sforzo bellico — ribatte Plutarch. — Ed è stato deciso che sarete più produttivi in televisione. Pensate solo all’effetto che ha avuto Katniss facendosi vedere con la tenuta da Ghiandaia Imitatrice. Ha invertito il trend dell’intera ribellione. Vi siete accorti che è l’unica a non lamentarsi? È perché lei capisce l’influenza che esercita lo schermo.
In realtà Katniss non si lamenta perché non ha alcuna intenzione di rimanere con la Squadra di Stelle, ma comprende la necessità di arrivare a Capitol City prima di mettere in pratica qualsiasi progetto. Tuttavia, anche mostrarmi troppo arrendevole potrebbe far sorgere dei sospetti.
— Però non sarà tutta una finta, vero? — chiedo. — Sarebbe uno spreco di talento.
— Non ti preoccupare — mi dice Plutarch. — Avrete bersagli in abbondanza da colpire. Ma vedete di non saltare in aria. Ho già abbastanza cose da fare senza dovervi anche sostituire. E adesso andate a Capitol City e mettete in scena un bello spettacolo.
La mattina della partenza, saluto i miei familiari. Non ho detto loro quanto i sistemi difensivi di Capitol City rispecchino le armi dell’arena, ma il fatto che io vada in guerra è già abbastanza atroce per conto suo. Mia madre mi stringe forte e a lungo. Sento che ha la guancia bagnata di lacrime, cosa che era riuscita a nascondere quando mi avevano destinata ai Giochi. — Non stare in ansia. Sarò più che al sicuro. Non sono neppure un vero soldato, solo una delle marionette televisive di Plutarch — la rassicuro.
Prim mi accompagna fino alle porte dell’ospedale. — Come ti senti?
— Meglio, sapendo che siete in un posto in cui Snow non può raggiungervi — dico.
— La prossima volta che ci vedremo, ce ne saremo liberate per sempre — dice Prim in tono fermo. Poi mi getta le braccia al collo. — Sta’ attenta.
Esamino l’idea di un ultimo saluto a Peeta e concludo che sarebbe dannoso per entrambi. Ma faccio scivolare la perla nella tasca della mia uniforme. Un ricordo del ragazzo del pane.
Un hovercraft ci porta, tra tutti i luoghi possibili, nel Distretto 12, dove è stata allestita un’area di transito provvisoria, lontano dalla zona di fuoco. Niente treni di lusso, stavolta, ma un vagone merci pieno fino all’orlo di soldati in divisa grigio scuro che dormono con la testa sullo zaino. Dopo un paio di giorni di viaggio, scendiamo dentro una delle gallerie che attraversano la montagna e conducono a Capitol City, e da lì ci facciamo a piedi il resto del tragitto di sei ore, avendo cura di camminare solo sulla linea di vernice verde brillante che ci serve da lasciapassare per gli aerei sopra di noi.
Sbuchiamo nel campo dei ribelli, che si estende per dieci isolati fuori dalla stazione ferroviaria dove io e Peeta avevamo fatto le nostre precedenti apparizioni. Brulica già di soldati. Alla squadra 451 viene assegnato uno spazio dove piantare le sue tende. La zona è sicura da più di una settimana. Gli insorti hanno respinto i Pacificatori, perdendo centinaia di uomini. Le forze governative si sono ritirate e riorganizzate più lontano, all’interno della città. Tra noi e loro, ci sono le strade minate, vuote e invitanti. Dovremo ripulirle dai baccelli una per una prima di poter avanzare.
Mitchell si informa sui bombardamenti aerei – ci sentiamo molto vulnerabili, accampati così all’aperto – ma Boggs dice che non è un problema.
Quasi tutti i velivoli di Capitol City sono andati distrutti nel Distretto 2 o durante l’invasione. Se ne è rimasto qualcuno, se lo tengono stretto, magari per permettere a Snow e alla sua cerchia di fuggire all’ultimo minuto verso un rifugio presidenziale nascosto da qualche parte. I nostri, di apparecchi, sono costretti a terra, dopo che i missili antiaerei di Capitol City hanno decimato le prime ondate. Questa guerra si combatterà nelle strade, si spera con danni superficiali alle infrastrutture e un numero minimo di vittime.
I ribelli vogliono Capitol City proprio come Capitol City voleva il 13.
Dopo tre giorni, c’è il rischio che buona parte della squadra 451 diserti per la noia. Cressida e la sua troupe ci riprendono mentre spariamo. Ci dicono che facciamo parte della squadra di disinformazione. Se gli insorti sparassero solo ai baccelli di Plutarch, quelli di Capitol City ci metterebbero due minuti a capire che abbiamo l’ologramma. E così, per sviarli, passiamo un sacco di tempo a fracassare cose senza importanza. Ci limitiamo perlopiù a ingrossare i mucchi di vetri multicolori che facciamo volar fuori dagli edifici dalle tinte pastello. Immagino che alternino questi filmati con quelli sulla distruzione di obiettivi più importanti. Di tanto in tanto, pare che siano richiesti i servigi di un vero tiratore scelto. Otto mani si alzano, ma io, Gale e Finnick non veniamo mai scelti.
— È colpa tua, sei così telegenico — dico a Gale. Se gli sguardi potessero uccidere…
Temo che non sappiano cosa farsene di noi tre, soprattutto di me. Ho portato la tenuta da Ghiandaia Imitatrice, ma sono stata ripresa solo con l’uniforme. A volte uso il fucile, a volte mi chiedono di tirare con l’arco. È come se non volessero lasciar perdere del tutto la Ghiandaia Imitatrice, ma nel contempo avessero intenzione di ridurre il mio ruolo a quello di un normale soldato di fanteria. E dal momento che la cosa non mi interessa, immaginare i dibattiti in corso nel 13 mi diverte più di quanto non mi turbi.
Anche se in apparenza sono scontenta per la nostra mancanza di reale partecipazione, sono occupatissima con i miei programmi personali.
Ciascuno di noi ha una cartina di Capitol City. L’abitato forma un quadrato quasi perfetto. Delle linee dividono la cartina in quadrati più piccoli, con lettere in cima e numeri a lato che compongono una griglia. La consumo a forza di studiare ogni incrocio e via laterale, ma è un palliativo. I comandanti di qui logorano l’ologramma di Plutarch, invece. Hanno tutti un aggeggio portatile chiamato Olo che genera immagini come quelle che ho visto al Comando. Possono ingrandire qualsiasi area della griglia e vedere quali baccelli li aspettano. L’Olo è un dispositivo indipendente, una specie di cartina più sofisticata, che non può inviare né ricevere segnali, comunque è decisamente meglio della mia versione cartacea.
Un Olo viene attivato dalla voce di un certo comandante quando questo dà il proprio nome. Una volta in funzione, l’Olo risponde anche ad altre voci della squadra, in modo che, ad esempio, se Boggs venisse ucciso o gravemente ferito, qualcun altro potrebbe subentrare al suo posto. Se un membro qualunque del gruppo ripete “tic tac” per tre volte, l’Olo esplode, facendo saltare in aria ogni cosa entro un raggio di cinque metri. Questo per motivi di sicurezza in caso di cattura. È chiaro che tutti noi lo faremmo senza esitare.
Quindi ciò che devo fare è rubare l’Olo già attivato di Boggs e filarmela prima che lui se ne accorga. Credo che sarebbe più facile rubargli i denti.
La quarta mattina, il soldato Leeg 2 colpisce un baccello classificato in modo sbagliato, che infatti non rilascia lo sciame di moscerini mutanti per il quale i ribelli si sono preparati, ma sprigiona un’esplosione a raggiera di dardi metallici. Uno trova la sua testa. Leeg 2 muore prima che i medici riescano a raggiungerla. Plutarch promette un rapido rimpiazzo.
La sera seguente, arriva il nuovo membro della nostra squadra. Niente manette. Nessun sorvegliante. Esce senza fretta dalla stazione ferroviaria con il fucile che dondola appeso alla cinghia sulla sua spalla. Siamo stupiti, confusi, ostili, ma il numero 451 è stampigliato con inchiostro ancora fresco sul dorso della mano di Peeta. Boggs gli toglie l’arma e va a fare una telefonata.
— Non servirà — ci dice Peeta. — La presidente in persona ha stabilito la mia destinazione. Ha deciso che i pass-pro andavano un po’… scaldati.
Sì, forse i pass-pro vanno scaldati. Ma se la Coin ha mandato qui Peeta, allora ha deciso anche qualcos’altro: che per lei sono più utile da morta che da viva.