23
A chi abbia urlato la donna resta un mistero, perché, dopo aver perlustrato l’appartamento, scopriamo che era sola. Forse il suo grido era destinato a un vicino di casa, o si trattava semplicemente di un moto di paura. In ogni caso, non c’era nessun altro in grado di sentirla.
Questo appartamento sarebbe un posto eccellente in cui rintanarsi per un po’, ma è un lusso che non possiamo permetterci. — Secondo voi, quanto tempo abbiamo prima che capiscano che qualcuno di noi è sopravvissuto? — chiedo.
— Per me potrebbero arrivare da un momento all’altro — risponde Gale. — Sapevano che eravamo diretti alle strade. È probabile che l’esplosione li confonda per qualche minuto, ma dopo cominceranno a cercare il punto da cui siamo usciti.
Vado a una finestra che dà sulla strada e, quando sbircio dalle tende avvolgibili, non mi trovo di fronte le squadre dei Pacificatori, ma una moltitudine di persone che vanno di fretta e badano agli affari loro. Nel corso del nostro viaggio sotterraneo, ci siamo allontanati parecchio dalle zone evacuate e siamo riemersi in un quartiere affollato di Capitol City. Questa ressa è la nostra unica possibilità di fuga. Non ho un Olo, ma ho Cressida. Mi raggiunge alla finestra, conferma di sapere dove siamo e mi dà la bella notizia che ci troviamo a pochi isolati dalla villa del presidente.
Una sola occhiata ai miei compagni mi dice che non è il momento per sferrare a Snow un attacco a sorpresa. Gale perde ancora sangue dalla ferita sul collo che non abbiamo nemmeno disinfettato. Peeta è seduto su un divano di velluto con un cuscino stretto tra i denti, vuoi per lottare contro la pazzia vuoi per soffocare un urlo. Pollux piagnucola appoggiato alla mensola di un elaborato caminetto. Cressida se ne sta in piedi al mio fianco con aria decisa, ma è così pallida che le sue labbra sono esangui. Io mi reggo sull’odio. Quando verranno a mancarmi anche le energie per odiare, non sarò più utile a nessuno.
— Controlliamo gli armadi — dico.
In una stanza da letto, troviamo centinaia di completi, cappotti e scarpe della donna, un arcobaleno di parrucche, e trucchi in quantità sufficiente per tinteggiare una casa. La camera dall’altra parte del corridoio contiene un’analoga scelta di articoli maschili. Forse appartengono a suo marito. O forse a un amante che stamattina ha avuto la fortuna di non essere lì.
Chiamo gli altri perché vengano a vestirsi. Alla vista dei polsi sanguinanti di Peeta, mi frugo in tasca cercando la chiave delle manette, ma lui si allontana da me di scatto.
— No — dice. — Non farlo. Mi aiutano a tenere insieme i pezzi di me stesso.
— Potresti aver bisogno delle mani — osserva Gale.
— Quando sento che sto perdendo colpi, conficco i polsi nelle manette, e il dolore mi aiuta a mettere a fuoco — spiega Peeta. Lascio stare le manette.
Fuori fa freddo, per fortuna, quindi possiamo nascondere gran parte delle nostre uniformi e delle armi sotto cappotti e mantelli dalla linea morbida. Ci appendiamo gli scarponi al collo con i lacci e li copriamo, poi al loro posto ci infiliamo delle scarpe assurde. Il vero problema, naturalmente, sono le nostre facce. Cressida e Pollux rischiano di essere identificati da eventuali conoscenti, l’aspetto di Gale potrebbe risultare familiare per via di pass-pro e notiziari, mentre ogni singolo abitante di Panem conosce me e Peeta. In fretta, ci aiutiamo l’un l’altro a stendere strati di trucco, indossare parrucche e occhiali da sole. Cressida copre il naso e la bocca miei e di Peeta con una sciarpa.
Sento girare le lancette dell’orologio, ma mi fermo solo qualche istante per riempire le tasche di tutti con cibo e materiali di pronto soccorso. — Restate uniti — dico, sulla porta d’ingresso. Dopodiché usciamo direttamente in strada. È cominciata a cadere una neve leggera. Intorno a noi turbinano persone agitate che parlano di ribelli e di fame e di me, con l’accento lezioso di Capitol City. Attraversiamo la strada e superiamo qualche altro appartamento. Proprio mentre giriamo l’angolo, una trentina di Pacificatori ci passano davanti con passo deciso. Ci spostiamo precipitosamente, come fanno i veri cittadini, aspettiamo che la calca riprenda il suo flusso normale, e continuiamo a muoverci. — Cressida — sussurro. — Puoi pensare a un posto qualsiasi?
— Ci sto provando — risponde.
Percorriamo un altro isolato, e partono le sirene. Dalla finestra di un appartamento, vedo trasmettere un servizio televisivo urgente e le nostre foto. Non hanno ancora identificato i morti del nostro gruppo, perché tra le immagini noto Castor e Finnick. Tra poco ogni passante sarà pericoloso quanto un pacificatore. — Cressida?
— C’è un posto. Non è l’ideale. Ma possiamo tentare — dice. La seguiamo per qualche altro isolato e svoltiamo passando dal cancello di quella che pare una residenza privata. Ma è solo una scorciatoia, perché, dopo aver attraversato un giardino ben curato, usciamo da un secondo cancello e sbuchiamo su una stradina secondaria che collega due viali. Ci sono alcuni negozietti angusti, uno che acquista articoli usati e un altro che vende gioielli falsi. In giro, solo un paio di persone che non fanno caso a noi. Cressida comincia a blaterare con voce acuta di biancheria intima di pelliccia e di come sia indispensabile nei mesi freddi. — Aspettate di vedere i prezzi! Credetemi, sono la metà di quello che si paga sui viali!
Ci fermiamo davanti a una sudicia vetrina piena di manichini che indossano biancheria di pelliccia. Il posto non sembra neppure aperto, ma Cressida spinge la porta d’ingresso ed entra, azionando uno scampanellio dissonante. All’interno del negozio stretto e scuro, nel quale si allineano appendiabiti carichi di merce, l’odore di pelli non ancora conciate mi riempie il naso. Gli affari devono andare a rilento: siamo gli unici clienti. Cressida si dirige senza esitazioni verso la figura curva che siede in fondo. La seguo, facendo scorrere le dita sugli indumenti morbidi mentre passiamo.
Dietro il banco, è seduta la donna più strana che abbia mai visto. È un esempio estremo di chirurgia estetica malriuscita, perché nemmeno a Capitol City qualcuno potrebbe trovare attraente quel viso. La pelle è stata tirata al massimo e tatuata a strisce nere e oro. Il naso è stato appiattito al punto da sembrare quasi inesistente. Ho già visto dei baffi da gatto sulla gente di Capitol City, ma mai così lunghi. Il risultato è una grottesca maschera semi-felina che adesso ci guarda con diffidenza, strizzando gli occhi.
Cressida si toglie la parrucca, scoprendo i suoi rampicanti. — Tigris — dice. — Abbiamo bisogno di aiuto.
Tigris. Quel nome mi fa suonare un campanello in testa. Nei primissimi Giochi di cui ho memoria, quella donna, in una versione più giovane e meno inquietante, era una specie di istituzione. Una stilista, credo. Non ricordo per quale distretto. Non per il 12. Poi deve aver fatto un’operazione di troppo e aver oltrepassato il limite del disgusto.
Allora è qui che finiscono gli stilisti quando hanno fatto il loro tempo. In patetici negozietti di intimo dove aspettano la morte. Lontani dai riflettori.
Fisso il suo viso, chiedendomi se i suoi genitori l’abbiano davvero chiamata Tigris, ispirandole quella mutilazione, o se sia stata lei a scegliere lo stile e a cambiarsi il nome per intonarlo alle strisce.
— Plutarch ha detto che potevamo fidarci di te — aggiunge Cressida.
Fantastico, è uno dei tirapiedi di Plutarch. Perciò, se la sua prima mossa non sarà consegnarci a Capitol City, informerà lui, e di conseguenza la Coin, di dove siamo. No, il negozio di Tigris non è l’ideale, ma al momento è tutto ciò che abbiamo. Ammesso che ci aiuti. Scruta alternativamente un vecchio televisore che ha sul banco e noi, come se cercasse di riconoscerci. Per facilitarla, tiro giù la sciarpa, tolgo la parrucca e mi avvicino, in modo che la luce proveniente dallo schermo mi cada sul viso.
Tigris emette un basso brontolio, non dissimile da quello con cui potrebbe salutarmi Ranuncolo. Scende furtiva dallo sgabello e scompare dietro un appendiabiti di fuseaux foderati di pelliccia. Si sente scivolare qualcosa, poi la sua mano riemerge e ci invita a venire avanti. Cressida mi guarda come per chiedere “Sei sicura?” Ma che scelta abbiamo? Tornare per le strade in queste condizioni sarebbe una garanzia di cattura o di morte. Giro intorno alle pellicce e scopro che Tigris ha fatto scorrere un pannello sulla parete. Dietro, sembra esserci la cima di una ripida scala di pietra. Mi fa cenno di entrare.
Tutta la situazione puzza di trappola. Ho un attimo di panico e mi ritrovo a girarmi verso Tigris, cercando i suoi occhi fulvi. Perché lo sta facendo? Non è Cinna, non è una persona disposta a sacrificarsi per gli altri. Questa donna è l’incarnazione della superficialità di Capitol City. È stata una delle star degli Hunger Games finché… finché non lo è stata più. È questo, allora? Amarezza? Odio? Vendetta? A dire il vero, l’idea mi consola. Il desiderio di vendetta può bruciare a lungo e con violenza. Specie se ogni occhiata allo specchio non fa che ravvivarlo.
— Snow ti ha bandita dai Giochi? — chiedo. Lei si limita a restituirmi lo sguardo. Da qualche parte, la sua coda da tigre guizza di disappunto. — Perché io ho intenzione di ucciderlo, sai? — La sua bocca si allarga in quello che prendo per un sorriso. Rassicurata sul fatto che non sia una totale follia, penetro lentamente nello spazio vuoto.
A circa metà della scala, il mio viso si scontra con una catenella che pende. La tiro e illumino il nascondiglio con una tremolante lampada fluorescente. È una piccola cantina senza porte né finestre. Bassa e ampia. Forse solo un’intercapedine tra due locali seminterrati. Un luogo la cui esistenza può passare inosservata, a meno di non avere molto occhio per le dimensioni. È freddo e umido, con cataste di pelli che immagino non vedano la luce del giorno da anni. Se non sarà Tigris a consegnarci, credo che qui non ci troverà nessuno. Quando raggiungo il pavimento in calcestruzzo, i miei compagni sono lungo la scala. Il pannello scivola di nuovo al suo posto. Sento l’appendiabiti della biancheria che viene risistemato sulle sue ruote cigolanti. Il passo felpato di Tigris che torna al suo sgabello. Siamo stati inghiottiti dal suo negozio.
E appena in tempo, perché Gale sembra sul punto di crollare. Prepariamo un letto di pelli, gli togliamo gli strati di armi e lo aiutiamo a sdraiarsi. In fondo alla cantina, a una trentina di centimetri dal pavimento, c’è un rubinetto con sotto uno scarico. Apro il rubinetto e, dopo molto sputacchiare e tanta ruggine, l’acqua comincia a scorrere trasparente. Puliamo la ferita al collo di Gale e mi accorgo che le bende non saranno sufficienti. Gli servirà qualche punto. I materiali di pronto soccorso comprendono ago e filo sterile, ma quello che a noi manca è qualcuno in grado di usarli. Per un attimo penso di arruolare Tigris. Come stilista, deve per forza saperci fare, con gli aghi. Ma in questo caso non rimarrebbe nessuno in negozio, e lei sta già facendo abbastanza. Ammetto di essere forse la persona più qualificata per il lavoro, digrigno i denti, e pratico la sutura con una fila di punti irregolari. Non è bella, ma funziona. La medico e la fascio. Offro a Gale alcuni antidolorifici. — Puoi riposare, adesso. Questo posto è sicuro — gli dico. Si addormenta alla velocità della luce.
Mentre Cressida e Pollux allestiscono giacigli di pelliccia per tutti, io mi occupo dei polsi di Peeta. Sciacquo il sangue con delicatezza, applico un antisettico e li fascio sotto le manette. — Devi tenerli puliti, altrimenti l’infezione potrebbe diffondersi e…
— So cos’è l’avvelenamento del sangue, Katniss — dice Peeta. — Anche se mia madre non è una guaritrice.
Vengo sbalzata indietro nel tempo a un’altra ferita, ad altre fasciature. — Mi hai detto la stessa cosa nei primi Hunger Games. Vero o falso?
— Vero — risponde. — E tu hai rischiato la vita per procurarti la medicina che mi ha salvato?
— Vero. — Scrollo le spalle. — Lo dovevo a te, se ero ancora viva per farlo.
— A me? — Il mio commento lo ha confuso. Ci dev’essere qualche ricordo luccicante che lotta per conquistare la sua attenzione, perché il corpo gli si irrigidisce e i polsi appena bendati fanno forza contro le manette di metallo. Poi tutta l’energia lo abbandona. — Sono così stanco, Katniss.
— Dormi — dico. Si rifiuta di farlo finché non gli rimetto a posto le manette, incatenandolo ai sostegni della scala. Non può stare comodo, sdraiato lì con le braccia sopra la testa. Ma nel giro di qualche minuto si assopisce anche lui.
Cressida e Pollux hanno preparato i letti, riordinato cibo e medicinali, e adesso chiedono come penso di organizzare i turni di guardia. Guardo il pallore di Gale, le manette di Peeta. Pollux non dorme da giorni, e io e Cressida abbiamo dormicchiato per qualche ora soltanto. Se un drappello di Pacificatori dovesse entrare da quella porta, saremmo intrappolati come ratti. Siamo in completa balia di una decrepita donna-tigre con quello che posso solo sperare sia un desiderio divorante di vedere Snow morto.
— Sinceramente non credo che fare dei turni di guardia serva a qualcosa. Cerchiamo piuttosto di dormire un po’ — dico. Loro annuiscono, intontiti, e ci rintaniamo tutti tra le nostre pelli. Il mio fuoco interiore si è spento con un guizzo, e con lui la mia forza. Mi arrendo alla morbida pelliccia che sa di muffa e al nulla.
Ricordo soltanto un sogno. Una cosa lunga e spossante, dove sto tentando di arrivare al Distretto 12. La casa che sto cercando è intatta, le persone sono vive. Effie Trinket, vistosa con una parrucca e un completo su misura di un rosa vivace, viaggia con me. Mi sforzo di piantarla in asso a più riprese, ma inspiegabilmente lei ricompare ogni volta al mio fianco, sostenendo che, come mia accompagnatrice, è sua precisa responsabilità farmi rispettare il programma. Solo che il programma cambia di continuo, vanificato dalla mancanza di un timbro da parte di un funzionario o ritardato dalla rottura di uno dei tacchi alti di Effie. Restiamo accampate per giorni sulla panchina di una stazione grigia nel Distretto 7, aspettando un treno che non arriva mai. Quando mi sveglio, per qualche ragione mi sento più prosciugata da questo sogno che dalle mie solite incursioni notturne nel sangue e nel terrore.
Cressida, l’unica già in piedi, mi dice che è tardo pomeriggio. Mangio una lattina di stufato di manzo e lo annaffio con molta acqua. Poi mi appoggio alla parete della cantina, ripercorrendo gli eventi dell’ultima giornata. Procedendo da una morte all’altra. Contandole sulle dita. Uno, due: Mitchell e Boggs perduti nell’isolato. Tre: Messalla liquefatto dal baccello. Quattro, cinque: Leeg 1 e la Jackson che si sacrificano al Tritacarne. Sei, sette, otto: Castor, Homes e Finnick che vengono decapitati dalle lucertole mutanti al profumo di rose. Otto compagni morti in ventiquattr’ore. So che è successo, eppure non mi sembra reale. Castor è sicuramente addormentato sotto quella pila di pellicce, tra un attimo Finnick scenderà i gradini saltellando e Boggs mi spiegherà il suo piano di fuga.
Crederli morti significa ammettere che li ho uccisi. D’accordo, magari non Mitchell e Boggs, che sono morti per adempiere a un vero incarico. Ma gli altri hanno perso la vita per difendermi nel corso di una missione che ho inventato io. Il mio complotto per uccidere Snow sembra così sciocco, adesso. Estremamente sciocco, mentre me ne sto seduta in questa cantina a tremare, a tenere il conto delle nostre perdite, a giocherellare coi fiocchi degli alti stivali argentati che ho rubato dalla casa della donna. Ah, già… dimenticavo. Ho ucciso anche lei. Ormai faccio fuori anche i cittadini disarmati.
Credo sia giunta l’ora di arrendermi.
Quando finalmente gli altri si svegliano, confesso. Di aver mentito sulla missione, di avere messo tutti in pericolo per inseguire la mia vendetta. Quando finisco di parlare, c’è un lungo momento di silenzio. Poi Gale dice: — Katniss, lo sapevamo tutti che mentivi sulla Coin e sul fatto che ti avesse mandato ad assassinare Snow.
— Tu magari lo sapevi. Ma i soldati del 13 no — replico.
— Pensi davvero che la Jackson credesse che avevi ricevuto ordini dalla Coin? — chiede Cressida. — Certo che no. Ma si fidava di Boggs, ed era evidente che lui voleva che andassi avanti.
— Non ho mai detto a Boggs cosa progettavo di fare — ribatto.
— L’hai detto a tutti, al Comando! — esclama Gale. — Era una delle condizioni per essere la Ghiandaia Imitatrice. “Sarò io a uccidere Snow”.
Le due cose non sembrano collegate. L’aver trattato con la Coin per il privilegio di giustiziare Snow a guerra finita e questa fuga non autorizzata attraverso Capitol City. — Ma non così — protesto. — È stato un disastro totale.
— Credo che la riterrebbero una missione molto ben riuscita, invece — dice Gale. — Ci siamo infiltrati in campo nemico, dimostrando che le difese di Capitol City possono essere violate. Siamo riusciti a far passare un filmato della nostra azione su tutti i notiziari di Capitol City. Abbiamo gettato l’intera città nel caos, nel tentativo di trovarci.
— Credimi, Plutarch ne sarà entusiasta — aggiunge Cressida.
— Questo perché a Plutarch non interessa chi muore — dico. — Non finché i suoi Giochi sono un successo.
Cressida e Gale non la smettono più di parlare per cercare di convincermi. Pollux annuisce ai loro discorsi in segno di conferma. Solo Peeta non esprime un’opinione.
— Cosa ne pensi, Peeta? — chiedo alla fine.
— Penso… che tu non ne abbia ancora idea, dell’effetto che puoi fare. — Fa scivolare le manette lungo il sostegno e si mette in posizione seduta. — I compagni che abbiamo perduto non erano stupidi. Sapevano quello che facevano. Ti hanno seguita perché credevano che saresti davvero riuscita a uccidere Snow.
Non so perché la sua voce mi tocchi come nessun’altra. Ma se ha ragione, e credo sia così, ho un debito nei confronti degli altri che può essere ripagato in un solo modo. Prendo la cartina dalla tasca della mia uniforme e la spiego sul pavimento con nuova determinazione. — Dove siamo, Cressida?
Il negozio di Tigris si trova a circa cinque isolati dall’Anfiteatro cittadino e dalla villa di Snow. Possiamo coprire facilmente a piedi quella distanza attraversando una zona in cui i baccelli sono disattivati per la sicurezza dei residenti. Abbiamo travestimenti che, un po’ ritoccati con le pellicce del magazzino di Tigris, potrebbero farci arrivare là sani e salvi. E poi cosa? La casa sarà di certo sotto stretto controllo, protetta da telecamere di videosorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro e attorniata da baccelli che si attivano semplicemente premendo un interruttore.
— Quello che ci serve è farlo uscire allo scoperto — mi dice Gale. — A quel punto, uno di noi potrà abbatterlo.
— Fa ancora qualche apparizione pubblica? — chiede Peeta.
— Non credo — risponde Cressida. — In occasione degli ultimi discorsi che ho visto, almeno, era sempre dentro la sua residenza. Anche da prima che i ribelli arrivassero qui. Immagino sia diventato più cauto, dopo che Finnick ha divulgato i suoi crimini in TV.
Giusto. Ormai non sono più solo le Tigris di Capitol City a odiare Snow, ma una miriade di persone, collegate l’una all’altra, che sanno ciò che ha fatto ai loro amici e familiari. Ci vorrebbe qualcosa ai limiti del miracoloso, per attirarlo fuori. Qualcosa come…
— Scommetto che per me uscirebbe — dico. — Se venissi catturata. Vorrebbe farlo sapere a più gente possibile. Vorrebbe che fossi giustiziata sui gradini di fronte a casa sua. — Lascio che l’idea faccia presa. — E allora Gale potrebbe sparargli stando in mezzo al pubblico.
— No. — Peeta scuote la testa. — Ci sono troppe conclusioni alternative, in questo piano. Snow potrebbe decidere di trattenerti e torturarti per estorcerti informazioni. O di farti giustiziare pubblicamente, ma senza essere presente. O di ucciderti dentro casa ed esporre il tuo corpo fuori.
— Gale? — chiedo.
— Mi sembra che sia troppo presto per arrivare a una soluzione tanto estrema — risponde lui. — Se tutto il resto non dovesse funzionare, magari. Continuiamo a pensare.
Nel silenzio che segue, sentiamo il rumore leggero dei passi di Tigris sopra le nostre teste. Dev’essere ora di chiusura. Sta girando una chiave, forse blocca le persiane. Qualche minuto dopo, il pannello in cima alle scale scivola e si apre.
— Venite su — dice una voce roca. — Vi do qualcosa da mangiare. — È la prima volta che parla da quando siamo arrivati. Non so se le venga naturale o sia il frutto di anni di pratica, ma c’è qualcosa nel suo modo di parlare che ricorda le fusa di un gatto.
Mentre saliamo la scala, Cressida chiede: — Hai contattato Plutarch, Tigris?
— Non si può. — Tigris scrolla le spalle. — Immaginerà che siete in una casa sicura. Non preoccupatevi.
Preoccuparmi? Mi sento enormemente sollevata alla notizia che dal 13 non mi verranno impartiti ordini che sarei costretta a ignorare. O che non dovrò imbastire una difesa plausibile per le decisioni che ho preso negli ultimi due giorni.
Nel negozio, il banco è apparecchiato con alcuni grossi pezzi di pane stantio, una fetta di formaggio ammuffito e un vasetto di senape. Ciò mi ricorda che in questi giorni non tutti gli abitanti di Capitol City hanno la pancia piena. Mi sento in dovere di dire a Tigris che ci rimangono delle scorte di cibo, ma lei respinge le mie obiezioni con un gesto della mano. — Io non mangio quasi niente — dice. — E comunque, solo carne cruda. — Questo mi sembra un po’ troppo tipico, ma non faccio domande. Mi limito a grattare via la muffa dal formaggio e a ripartire il cibo tra gli altri.
Mentre mangiamo, guardiamo i servizi degli ultimi notiziari di Capitol City. Il governo limita a noi cinque il numero dei ribelli sopravvissuti. Sono state offerte taglie enormi per qualsiasi informazione possa portare alla nostra cattura. Mettono in risalto la nostra pericolosità. Mostrano la nostra squadra durante la sparatoria coi Pacificatori, ma non gli ibridi che strappano teste. Rendono un melodrammatico omaggio alla donna che giace dove l’abbiamo lasciata, con la mia freccia ancora nel cuore. Qualcuno le ha rifatto il trucco, a beneficio delle telecamere.
Gli insorti lasciano che le trasmissioni di Capitol City vadano avanti senza interromperle. — I ribelli hanno fatto qualche dichiarazione, oggi? — chiedo a Tigris. Lei scuote la testa. — Dubito che la Coin sappia cosa fare con me, adesso che per lei sono di nuovo viva.
Tigris emette una risatina di gola. — Nessuno sa cosa fare con te, ragazzina. — Poi mi fa prendere un paio di fuseaux di pelliccia, anche se non posso pagarglieli. È il genere di regalo che devi accettare per forza. E comunque fa freddo, in quella cantina.
Di sotto, dopo la cena, continuiamo a scervellarci per ideare un piano. Non ne esce niente di valido, ma siamo d’accordo sul fatto che non possiamo più uscire tutti e cinque insieme e che dovremo cercare di infiltrarci nella residenza del presidente prima che io gli faccia da esca. Accetto questo secondo punto per evitare ulteriori discussioni. Se deciderò di consegnarmi, non mi servirà il permesso o la partecipazione di nessuno.
Cambiamo le bende a Gale, torniamo ad ammanettare Peeta al suo sostegno e ci mettiamo a dormire. Qualche ora dopo, sono di nuovo sveglia e mi accorgo che qualcuno sta chiacchierando tranquillamente. Peeta e Gale. Non posso trattenermi dall’origliare.
— Grazie per l’acqua — dice Peeta.
— Figurati — replica Gale. — Tanto mi sveglio dieci volte a notte.
— Per assicurarti che Katniss sia ancora qui? — chiede Peeta.
— Qualcosa del genere — ammette Gale.
C’è un lungo intervallo prima che Peeta torni a parlare. — Era buffo, quello che ha detto Tigris. Che nessuno sa cosa fare con lei.
— Be’, tu e io non l’abbiamo mai saputo — dice Gale.
Ridono entrambi. È stranissimo sentirli parlare così. Quasi da amici. Cosa che non sono mai stati. Anche se non sono esattamente nemici.
— Lei ti ama, sai? — dice Peeta. — In pratica me l’ha detto, dopo che ti avevano frustato.
— Non crederci — ribatte Gale. — Il modo in cui ti baciava durante l’Edizione della Memoria… be’, non ha mai baciato me così.
— Faceva semplicemente parte dello spettacolo — gli spiega Peeta, benché la sua voce abbia un tono di dubbio.
— No, sei riuscito a farle cambiare idea. Hai rinunciato a tutto per lei. Forse è il solo modo per convincerla che la ami. — C’è un lungo silenzio. — Avrei dovuto offrirmi volontario al posto tuo nei primi Hunger Games. Avrei dovuto proteggerla allora.
— Non potevi — dice Peeta. — Non te l’avrebbe mai perdonata. Tu dovevi prenderti cura di sua madre e di sua sorella. Lei tiene più a loro che alla sua stessa vita.
— Be’, non sarà un problema ancora per molto. Secondo me è improbabile che alla fine di questa guerra saremo vivi tutti e tre. E nel caso, immagino che saranno affari di Katniss. Chi scegliere, dico. — Gale sbadiglia. — Dovremmo dormire un po’.
— Sì. — Sento le manette di Peeta che scorrono lungo il sostegno mentre si sistema. — Mi chiedo come farà a decidere.
— Oh, io lo so già. — Riesco appena a cogliere le ultime parole di Gale attraverso lo strato di pelliccia. — Tra noi due, Katniss sceglierà quello che ritiene indispensabile alla sua sopravvivenza.