E con questa fanno due richieste di ammazzare Peeta in meno di un’ora.

— Non essere ridicolo — dice la Jackson.

— Ho appena assassinato un membro della vostra squadra! — urla Peeta.

— L’hai spinto per togliertelo di dosso. Non potevi sapere che avrebbe attivato la rete in quel punto preciso — ribatte Finnick, cercando di calmarlo.

— Chi se ne frega! È morto, no? — Le lacrime cominciano a scorrergli lungo il viso. — Non lo sapevo. Non mi sono mai visto così, prima. Katniss ha ragione. Sono io il mostro. Sono io l’ibrido. Sono io quello che Snow ha trasformato in un’arma!

— Non è colpa tua, Peeta — dice Finnick.

— Non potete portarmi con voi. È solo questione di tempo prima che uccida qualcun altro. — Peeta fa girare lo sguardo sui nostri volti tormentati.

— Magari pensate che sia più gentile scaricarmi semplicemente da qualche parte. Lasciare che io corra il rischio. Ma questo equivarrebbe a consegnarmi a Capitol City. Non penserete di farmi un favore rispedendomi da Snow, vero?

Peeta. Di nuovo nelle mani di Snow. Torturato e martoriato fino a quando neppure un frammento del suo io precedente riuscirà più a tornare in superficie.

Per qualche ragione, mi risuona in testa l’ultima strofa dell’“Albero degli impiccati”. Quella in cui l’uomo preferisce vedere morta la sua amata piuttosto che farle affrontare la malvagità che la attende.

Verrai, verrai,

all’albero verrai,

di corda una collana, per stare insieme a me?

Strani eventi qui si son verificati

e nessuno mai verrebbe a curiosare

se a mezzanotte ci incontrassimo

all’albero degli impiccati.

— Ti ucciderò io prima che succeda — dice Gale. — Te lo prometto.

Peeta esita, come se stesse valutando l’affidabilità della sua offerta, poi scuote la testa. — È inutile. E se tu non fossi lì per farlo? Voglio una di quelle pillole avvelenate che avete tutti.

Il morso della notte. Ho una pillola, al campo, nascosta in una speciale fessura sulla manica della mia divisa da Ghiandaia Imitatrice. Ma ne ho un’altra qui, nel taschino dell’uniforme. È interessante sapere che non ne abbiano fornita una anche a Peeta. Forse la Coin pensava che potesse prenderla prima di avere l’occasione di ammazzarmi. Non si capisce se Peeta intenda dire che la farebbe finita adesso, per risparmiare a noi la fatica di ucciderlo, o solo nel caso in cui Capitol City lo catturi un’altra volta. Nelle condizioni in cui si trova, prevedo che accadrebbe prima anziché poi. Certo, renderebbe le cose più facili a tutti, non dovergli sparare. Certo, risolverebbe il problema dei suoi raptus omicidi.

Non so se siano i baccelli, o la paura, o l’aver visto morire Boggs, ma sento l’arena tutto intorno a me. È come se in realtà non ne fossi mai uscita. Sto combattendo di nuovo non solo per la mia sopravvivenza, ma anche per quella di Peeta. Che soddisfazione, che divertimento sarebbe per Snow costringermi a ucciderlo. Obbligarmi ad avere la morte di Peeta sulla coscienza per il tempo che mi resta da vivere.

— Non sei tu il problema — dico. — Abbiamo una missione. E tu ci servi. — Mi rivolgo agli altri. — Pensate che potremmo trovare del cibo qui?

Oltre al kit medico e alle telecamere, non abbiamo nient’altro che le nostre uniformi e le nostre armi.

Una metà di noi rimane a sorvegliare Peeta e a tenere gli occhi aperti in attesa della trasmissione di Snow, mentre gli altri si mettono a cercare qualcosa da mangiare. Messalla si dimostra preziosissimo, perché abitava in un appartamento che era la copia di questo e sa dov’è più probabile che abbiano nascosto dei viveri. Per esempio, sa che dietro un pannello a specchio della camera da letto c’è un ripostiglio, o che è facilissimo smontare la griglia di aerazione dell’ingresso. Così, anche se gli armadietti della cucina sono vuoti, troviamo più di trenta lattine di cibo e parecchie scatole di biscotti.

Tutto quell’accaparramento disgusta i soldati cresciuti nel 13. — Ma non è illegale? — chiede Leeg 1.

— Al contrario, a Capitol City saresti considerato stupido se non lo facessi — risponde Messalla. — Anche prima dell’Edizione della Memoria, la gente stava cominciando a fare incetta delle provviste che scarseggiavano.

— E gli altri facevano senza — conclude Leeg 1.

— Esatto — conferma Messalla. — È così che funziona, qui.

— Meno male, se no saremmo restati — dice Gale. — Ognuno prenda una lattina.

Alcuni membri del gruppo sembrano esitare, ma quello è un sistema buono quanto un altro. E non sono davvero dell’umore giusto per mettermi a dividere tutto in undici parti uguali, calcolando età, peso corporeo e rendimento fisico. Frugo in una pila di scatolette e sono sul punto di scegliere una zuppa di merluzzo, quando Peeta mi tende una lattina. — Tieni.

La prendo, senza sapere cosa aspettarmi. Sull’etichetta c’è scritto STUFATO DI AGNELLO.

Stringo le labbra, ricordando la pioggia che colava dalle rocce, i miei goffi tentativi di flirtare con lui, la fragranza della mia specialità preferita di Capitol City che si diffondeva nell’aria fredda. Allora nella sua testa ci dev’essere ancora una parte di quei ricordi. Come eravamo felici e affamati e vicini, quando quel cesto da picnic arrivò fuori dalla nostra grotta. — Grazie. — Apro il coperchio. — Ci sono persino le prugne secche. — Piego la latta e la uso come cucchiaio improvvisato per raccogliere un pezzetto di stufato e mettermelo in bocca. Adesso questo posto ha pure il sapore dell’arena.

Ci stiamo passando una scatola di sofisticati biscotti col ripieno di crema, quando il televisore riattacca coi suoi bip. Il sigillo di Panem illumina lo schermo e rimane lì per tutta l’esecuzione dell’inno. Poi cominciano a mostrare le immagini dei morti, proprio come facevano con i tributi dell’arena. Iniziano dai quattro volti della nostra troupe televisiva, seguiti da Boggs, Gale, Finnick, Peeta e me. Escluso Boggs, non si prendono il disturbo di menzionare i soldati del 13, o perché non hanno idea di chi siano, o perché sanno che le loro facce non significano niente per il pubblico. E a quel punto compare lui, seduto alla scrivania, con una bandiera drappeggiata alle spalle e la rosa bianca splendente di freschezza appuntata al bavero. Credo si sia fatto fare qualche altro lavoretto, di recente, perché le sue labbra sono più gonfie del solito. E il suo staff di preparatori dovrebbe andarci più leggero con il fard.

Snow si congratula con i Pacificatori per il lavoro magistrale, rende loro onore per aver liberato il paese da quella minaccia chiamata Ghiandaia Imitatrice. Con la mia morte, Snow preannuncia un’inversione di tendenza nell’andamento della guerra, perché ai ribelli scoraggiati non è rimasto nessuno da seguire. E poi cos’ero io, in realtà? Una povera ragazza instabile con un certo talento per arco e frecce. Non una grande pensatrice, non il cervello della rivolta, solo un viso strappato all’anonimato della plebaglia perché aveva attirato l’attenzione del Paese con le sue buffonate ai Giochi. Ma indispensabile, assolutamente indispensabile, perché i ribelli non hanno nessun vero capo tra loro.

Da qualche parte, nel Distretto 13, Beetee preme un pulsante, perché adesso chi ci guarda non è più il presidente Snow ma la presidente Coin. Si presenta a Panem, si identifica come il capo della rivolta, poi recita il mio elogio funebre. Loda la ragazza che è sopravvissuta al Giacimento e agli Hunger Games e in seguito ha trasformato un popolo di schiavi in un esercito di combattenti per la libertà. — Viva o morta, Katniss Everdeen resterà il volto di questa ribellione. Se mai la vostra determinazione dovesse vacillare, pensate alla Ghiandaia Imitatrice, e in lei troverete la forza di cui avete bisogno per liberare Panem dai suoi oppressori.

— Non avevo idea di essere tanto importante per la Coin — dico a Gale, che ride, mentre gli altri mi lanciano sguardi interrogativi.

Appare una foto, pesantemente truccata, che mi ritrae bellissima e fiera su uno sfondo di fiamme guizzanti. Niente parole. Niente slogan. Il mio viso è l’unica cosa di cui hanno bisogno, ormai.

Beetee restituisce le redini del programma a uno Snow molto controllato. Ho la sensazione che il presidente ritenesse impenetrabile il canale di emergenza e che, stanotte, questa intromissione costerà la vita di qualcuno. — Domani mattina, quando estrarremo il cadavere di Katniss Everdeen dalle ceneri, vedremo con precisione chi è la Ghiandaia Imitatrice. Una ragazza morta che non è riuscita a salvare nessuno, nemmeno se stessa. — Sigillo, inno e fine.

— Solo che non la troverete — dice Finnick allo schermo vuoto, esprimendo ad alta voce ciò che forse stiamo pensando tutti. La tregua sarà breve. Una volta che avranno scavato in quelle ceneri, salterà fuori che mancano undici corpi e capiranno che siamo fuggiti.

— Almeno abbiamo un vantaggio su di loro — dico. E di colpo mi sento stanchissima. Tutto quello che voglio è sdraiarmi sul lussuoso divano verde lì accanto e addormentarmi. Avvilupparmi nella trapunta di pelliccia di coniglio e piume d’oca. E invece tiro fuori l’Olo e insisto perché la Jackson mi spieghi nel dettaglio i comandi essenziali – che in realtà consistono nell’inserire le coordinate dell’intersezione più vicina sulla griglia della carta – così sarò almeno in grado di far funzionare quel coso. Quando l’Olo proietta i dintorni, sento il cuore che sprofonda ancora di più. Dobbiamo esserci avvicinati a qualche obiettivo sensibile, perché il numero dei baccelli è nettamente aumentato. Come facciamo ad avanzare fra tutte quelle luci intermittenti senza essere scoperti? Non possiamo. E se è così, siamo intrappolati come uccelli in una rete. Decido che è meglio non assumere atteggiamenti di superiorità, quando sto con loro, specie se i miei occhi continuano a spostarsi su quel divano. Così chiedo: — Qualche idea?

— Perché non cominciamo con l’escludere alcune possibilità? — suggerisce Finnick. — La strada non è una possibilità.

— Neanche i tetti vanno bene — aggiunge Leeg 1.

— Abbiamo ancora la possibilità di ritirarci, di tornare da dove siamo venuti — dice Homes. — Ma significherebbe abbandonare la missione.

Mi rimorde la coscienza, visto che sono stata io a inventarmela, la missione. — Non è stato previsto che andassimo tutti. Voi avete solo avuto la disgrazia di essere con me.

— Be’, ormai siamo con te — commenta la Jackson. — Dunque. Non possiamo restare qui. Non possiamo spostarci verso l’alto. Non possiamo spostarci di lato. Credo che questo ci lasci con un’unica scelta.

— Sottoterra — conclude Gale.

Sottoterra. Cosa che detesto. Come le miniere e le gallerie del 13. Sottoterra, dove ho il terrore di morire, il che è sciocco perché, anche se morissi in superficie, la prima cosa che farebbero sarebbe seppellirmi comunque sottoterra.

L’Olo è in grado di mostrarci tanto i baccelli sotterranei quanto quelli a livello strada. Vedo che, scendendo, le linee nette e precise del piano stradale si intrecciano con un tortuoso caos di tunnel, però i baccelli sembrano meno numerosi.

Due porte più in là, un tubo verticale collega il nostro condominio ai tunnel. Per raggiungere l’appartamento in cui si trova quel tubo, dovremo infilarci in un condotto di aerazione che corre per tutta la lunghezza dell’edificio. Possiamo accedere al condotto dal fondo di una cabina armadio al piano di sopra.

— D’accordo, allora. Facciamo in modo che nessuno capisca che siamo stati qui — dico. Cancelliamo ogni segno della nostra permanenza. Spediamo le lattine vuote giù per lo scivolo dei rifiuti, mettiamo da parte quelle piene per dopo, rigiriamo i cuscini del divano macchiati di sangue, spazziamo le mattonelle per eliminare le tracce di gel. Non c’è modo di aggiustare la serratura della porta d’ingresso, ma tiriamo un altro chiavistello così che almeno la porta non si apra al primo tocco.

Alla fine, resta da affrontare solo Peeta. Che si pianta sul divano blu, rifiutando di muoversi. — Io non vengo. Rivelerò la vostra posizione o ucciderò qualcun altro.

— Gli uomini di Snow ti troveranno — dice Finnick.

— Allora lasciatemi una pillola. La prenderò solo se devo — ribatte Peeta.

— Non è una scelta tua. Cammina! — dice la Jackson.

— Oppure cosa fate? Mi sparate? — chiede Peeta.

— Ti mettiamo fuori combattimento e ti trasciniamo con noi — risponde Homes. — Il che ci rallenterà e ci esporrà al pericolo.

— Smettetela di fare i generosi! Non me ne frega niente se muoio! — Si rivolge a me, ormai implorante. — Katniss, ti prego. Non capisci che voglio uscirne?

Il guaio è che lo capisco, eccome. Per quale ragione non riesco semplicemente a lasciarlo andare? Ad allungargli una pillola, a premere il grilletto? È perché tengo troppo a lui o perché mi importa troppo che Snow possa averla vinta? Ho forse trasformato Peeta in una pedina dei miei Giochi personali? È spregevole, ma potrebbe anche essere degno di me. Se è così, la cosa più compassionevole da fare sarebbe uccidere Peeta, qui e ora. Comunque sia, non sono motivata dalla compassione. — Stiamo sprecando tempo. Vieni di tua volontà o dobbiamo stenderti?

Peeta nasconde il viso tra le mani per alcuni istanti, poi si alza per unirsi a noi.

— Gli liberiamo le mani? — chiede Leeg 1.

— No! — le ringhia contro Peeta, avvicinandosi le manette al corpo.

— No — gli faccio eco. — Però voglio la chiave. — La Jackson me la consegna senza parlare. La faccio scivolare nella tasca dei pantaloni, e lì urta la perla con un rumore secco.

Quando Homes forza il piccolo sportello metallico che porta al condotto di aerazione, incontriamo un’altra difficoltà. Le corazze da coleottero non riusciranno mai a incunearsi in quello stretto passaggio. Castor e Pollux le tolgono e staccano le telecamere di riserva. Hanno le dimensioni di una scatola da scarpe ed è probabile che funzionino comunque. A Messalla non viene in mente un posto migliore per nascondere quelle voluminose corazze, perciò finiamo per buttarle nell’armadio. Lasciare una pista così facile da seguire mi irrita, ma cos’altro potremmo fare?

Anche procedendo in fila indiana con gli zaini e l’equipaggiamento contro il fianco, il passaggio è stretto lo stesso.

Superiamo il primo appartamento e ci introduciamo nel secondo. Qui, in una delle camere da letto, al posto del bagno c’è una porta contrassegnata dalla scritta Locale di Servizio. Dietro quella porta si trova la stanza da cui si accede al tubo.

Tornato per un attimo al suo mondo di fronzoli, Messalla si acciglia davanti all’ampio coperchio rotondo. — Ecco perché nessuno vuole mai la casa al centro. Operai che vanno e vengono a qualsiasi ora e niente secondo bagno. Però l’affitto è molto meno caro. — Poi si accorge dell’espressione divertita di Finnick e aggiunge: — Non farci caso.

Il coperchio del tubo è facile da sbloccare. Una larga scala con pioli rivestiti di gomma consente una rapida e facile discesa nelle viscere della città. Ci riuniamo ai piedi della scala, in attesa che i nostri occhi si abituino alle fioche strisce di luce, inalando un misto di sostanze chimiche, ruggine e liquami.

Pollux, smorto e sudato, tende una mano e si attacca al polso di Castor. Come se potesse cadere senza qualcuno che lo sorregga.

— Mio fratello ha lavorato quaggiù dopo essere diventato un senza-voce — dice Castor. Ovvio, a chi altri potrebbero far curare la manutenzione di questi condotti umidi e maleodoranti e disseminati di baccelli? — Ci abbiamo messo cinque anni per riuscire comprare la sua risalita in superficie. E lui non aveva visto il sole nemmeno una volta.

In condizioni migliori, in una giornata con meno orrori e più riposo, qualcuno saprebbe cosa dire. E invece ce ne restiamo tutti lì un bel po’, impalati, cercando di formulare una risposta.

Alla fine, rivolto a Pollux, Peeta dice: — Be’, allora mi sa che sei appena diventato la nostra risorsa più preziosa. — Castor ride e Pollux riesce a fare un sorriso.

Siamo già a metà del primo tunnel quando capisco che cosa ha reso tanto particolare quello scambio di battute. Peeta sembra quello di una volta, il ragazzo sempre in grado di pensare alla cosa giusta da dire quando nessun altro ci riesce. Ironico, rassicurante, spiritoso, ma mai a spese di qualcuno. Mi giro a guardarlo mentre si trascina faticosamente, scortato da Gale e dalla Jackson, con gli occhi fissi a terra, le spalle curve. Avvilito. Ma per un attimo, è stato davvero qui.

Peeta ha detto bene. A conti fatti, Pollux vale dieci Olo. La semplice rete di ampie gallerie che troviamo coincide alla perfezione col grosso delle strade in superficie e si trova proprio sotto i viali e le vie laterali più importanti. La chiamano il Transito, dato che viene usata da piccoli camion per consegnare merci in giro per la città.

Durante il giorno, i suoi tanti baccelli sono disattivati, ma di notte è un campo minato. Ciononostante, centinaia di passaggi aggiuntivi, condotti di servizio, binari ferroviari e tubature di scolo formano un labirinto che si estende su più livelli. Pollux è a conoscenza di particolari che condurrebbero a morte certa chiunque li ignori, per esempio quali biforcazioni richiedono l’uso di maschere antigas o presentano cavi elettrificati o sono popolate da ratti grandi come castori. Ci mette in guardia sul fiotto d’acqua che dilaga nelle fogne a intervalli regolari, prevede l’ora in cui le squadre di senza-voce si daranno il cambio, ci guida dentro tubature umide e buie per evitare il passaggio quasi silenzioso dei treni merci. E, cosa più importante, sa dove sono le telecamere. Ce ne sono molte, in questo posto tetro e avvolto dalla foschia, ma non nel Transito. Però ci teniamo ben lontani dalla loro portata.

Sotto la guida di Pollux, procediamo a una discreta velocità… a una notevole velocità, se la confrontiamo col viaggio in superficie. Dopo circa sei ore, la fatica ha la meglio. Sono le tre del mattino, quindi immagino che ci resti ancora qualche ora prima che scoprano che i nostri cadaveri non ci sono, o che frughino tra le macerie dell’intero condominio scoprendo che abbiamo cercato di fuggire per i condotti, e abbia inizio la caccia.

Quando propongo di riposare, nessuno si oppone. Pollux trova uno stanzino caldo nel quale ronzano macchinari zeppi di leve e quadranti. Alza le dita per indicare che dovremo andarcene entro quattro ore. La Jackson programma i turni di guardia e, visto che non sono compresa nel primo, mi infilo nello stretto spazio tra Gale e Leeg 1, addormentandomi all’istante.

Mi sembra che siano passati solo alcuni minuti quando la Jackson mi scuote per svegliarmi e dirmi che è il mio turno. Sono le sei in punto e tra un’ora dovremo essere in marcia. La Jackson mi dice di mangiare una lattina di cibo e tenere d’occhio Pollux, che ha insistito per montare di guardia tutta la notte. — Quaggiù non riesce a dormire. — Mi induco faticosamente a uno stato di relativa vigilanza, mangio stufato di patate e fagioli in scatola e mi siedo contro la parete di fronte alla porta. Pollux sembra sveglissimo. Probabilmente ha continuato a rivivere quei cinque anni di prigionia per l’intera nottata. Tiro fuori l’Olo e riesco a inserire le coordinate della nostra posizione per esaminare i tunnel. Come previsto, più avanziamo verso il centro di Capitol City e più i baccelli rilevati aumentano di numero. Per un po’, io e Pollux armeggiamo con i tasti dell’Olo per vedere quali trappole aspettarci e dove. Quando comincia a girarmi la testa, gli porgo il marchingegno e mi appoggio alla parete. Abbasso lo sguardo sul gruppo addormentato di soldati, troupe e amici, e mi chiedo quanti di noi rivedranno mai il sole.

Quando l’occhio mi cade su Peeta, che ha la testa posata proprio accanto ai miei piedi, vedo che è sveglio. Vorrei saper leggere quello che succede nella sua mente, vorrei poterci entrare e districare quell’intrico di bugie. Invece mi accontento di qualcosa che è più alla mia portata.

— Hai mangiato? — chiedo. Una lieve scrollata di capo mi segnala che non l’ha fatto. Apro una lattina di zuppa di pollo e riso e gliela tendo, tenendomi il coperchio nel caso tentasse di tagliarcisi i polsi o roba del genere. Si mette seduto e inclina la lattina, trangugiando rumorosamente la zuppa senza preoccuparsi di masticarla. Il fondo metallico riflette le luci dei macchinari, e ricordo un particolare che mi solletica le meningi sin da ieri. — Peeta, quando hai parlato di quel che era successo a Darius e Lavinia, e Boggs ha confermato che era vero, tu hai detto che lo pensavi. Perché in quel ricordo non c’era niente di luccicante. Cosa volevi dire?

— Oh. Non so bene come spiegarlo — mi dice. — All’inizio era tutto confuso e basta. Adesso riesco a distinguere determinate cose. Credo ci sia uno schema che sta venendo a galla. I ricordi che hanno alterato col veleno degli aghi inseguitori hanno una strana caratteristica. È come se fossero troppo intensi o le immagini tremolassero. Ti ricordi com’era, quando siamo stati punti?

— Gli alberi andavano in pezzi. C’erano gigantesche farfalle multicolori. Io sono caduta in una buca di bolle arancioni. — Ci rifletto un attimo. — Bolle arancioni e luccicanti.

— Giusto. Ma non c’era niente di simile nel mio ricordo di Darius e Lavinia. Non credo che mi avessero ancora dato il veleno — dice.

— Be’, è una bella cosa, no? — chiedo. — Se riesci a fare una distinzione, allora puoi capire quello che è vero.

— Sì. E se mi facessi crescere le ali, potrei volare. Solo che alle persone non crescono le ali — dice lui. — Vero o falso?

— Vero — rispondo. — Ma alle persone non servono le ali per sopravvivere.

— Alle ghiandaie imitatrici sì. — Finisce la zuppa e mi restituisce la lattina.

Nella luce fluorescente, i cerchi che ha sotto gli occhi sembrano lividi. — C’è ancora tempo. Dovresti dormire. — Torna a sdraiarsi, remissivo, ma rimane a fissare l’ago di uno dei quadranti che scatta di continuo da una parte all’altra. Lentamente, come farei con un animale ferito, tendo la mano e gli scosto una ciocca ondulata dalla fronte. Lui rabbrividisce al contatto, ma non si ritrae. E così continuo a lisciargli delicatamente i capelli all’indietro. È la prima volta che lo tocco di mia volontà dall’ultima arena.

— Stai ancora cercando di proteggermi. Vero o falso? — bisbiglia.

— Vero — rispondo. Ma il concetto mi sembra richieda un’ulteriore spiegazione. — Perché è questo che facciamo, io e te. Ci proteggiamo a vicenda. — Dopo circa un minuto, cade poco a poco nel sonno.

Poco prima delle sette, io e Pollux cominciamo a muoverci in mezzo agli altri, scuotendoli. Ci sono i soliti sbadigli e sospiri che accompagnano il risveglio. Ma le mie orecchie colgono qualcos’altro. Una specie di sibilo. Forse è solo vapore che esce da una tubatura, o il lontano spostamento d’aria prodotto da uno dei treni…

Zittisco il gruppo per decifrarlo meglio. Sì, c’è un sibilo, ma non è un suono prolungato. Somiglia di più a un susseguirsi di molteplici espirazioni che formano parole. Un’unica parola. Un nome. Ripetuto all’infinito.

Katniss.