Il fetore di corpi non lavati, urina stantia e suppurazione oltrepassa la nube di disinfettante. Le tre figure sono appena riconoscibili per le loro caratteristiche più sensazionali in fatto di moda: i tatuaggi facciali dorati di Venia, i riccioli a cavatappi color carota di Flavius, la pelle verde chiaro di Octavia, una pelle che ora pende troppo mollemente, come se il suo corpo fosse un palloncino che si sta sgonfiando poco a poco.

Vedendomi, Flavius e Octavia si ritirano contro le pareti piastrellate, quasi si aspettassero un’aggressione, benché io non abbia mai fatto loro alcun male. Pensieri poco gentili, questa è stata la mia peggiore offesa nei loro confronti, e anche quelli li tenevo per me, quindi perché indietreggiano?

Il sorvegliante mi sta ordinando di uscire, ma dallo strascicare di piedi che segue deduco che Gale lo ha trattenuto in qualche modo. In cerca di risposte, attraverso il locale e raggiungo Venia, da sempre la più forte dei tre. Mi accovaccio e prendo le sue mani gelide, che stringono le mie come morse.

— Cos’è successo, Venia? — chiedo. — Cosa ci fate qui?

— Ci hanno portati via. Da Capitol City — dice lei con voce roca.

Plutarch entra dietro di me. — Cosa diavolo sta succedendo?

— Chi vi ha portati via? — la sollecito.

— Delle persone — dice in tono vago. — La notte che sei scappata.

— Pensavamo che per te sarebbe stato confortante avere il tuo solito staff — dice Plutarch alle mie spalle. — Lo ha chiesto Cinna.

— Cinna ha chiesto questo? — gli ringhio contro. Se c’è una cosa al mondo di cui sono certa è che Cinna non avrebbe mai approvato che si usasse violenza su questi tre, lui che li dirigeva con gentilezza e pazienza. — Perché li trattano come criminali?

— Onestamente non lo so. — Qualcosa nella sua voce mi induce a credergli, e il pallore sul viso di Fulvia lo conferma. Plutarch si rivolge al sorvegliante, che è appena comparso sulla soglia con Gale appena dietro di lui. — Mi era stato detto solo che erano confinati. Per quale motivo vengono puniti?

— Per avere rubato cibo. Abbiamo dovuto imprigionarli dopo un litigio per il pane — dice il sorvegliante.

Le sopracciglia di Venia si uniscono, come se stesse ancora cercando di capirci qualcosa. — Nessuno ci diceva niente. Avevamo molta fame. E lei ne ha preso solo una fetta.

Octavia comincia a piangere, soffocando i singhiozzi nella tunica stracciata. Penso alla prima volta in cui sono sopravvissuta all’arena, a quando Octavia mi passò di nascosto un panino sotto il tavolo perché non riusciva a sopportare che avessi fame. Mi avvicino carponi alla sua forma tremante. — Octavia? — La tocco e lei si tira indietro. — Octavia? Andrà tutto bene. Vi tirerò fuori da qui, d’accordo?

— Tutto questo mi sembra un’esagerazione — dice Plutarch.

— E per una fetta di pane? — chiede Gale.

— Ci sono state ripetute infrazioni, prima di arrivare a questo. Sono stati avvertiti. Ma hanno rubato comunque altro pane. — Il sorvegliante si interrompe un attimo, come sconcertato dalla nostra stupidità. — Non si può rubare il pane.

Non riesco a indurre Octavia a scoprirsi il viso, però lo solleva un po’. I ceppi ai suoi polsi scivolano di qualche centimetro, mostrando le piaghe vive che stanno sotto. — Vi porto da mia madre. — Mi rivolgo al sorvegliante. — Liberali.

Lui scuote la testa. — Non è permesso.

— Liberali! Adesso! — urlo.

Ciò infrange la sua compostezza. I cittadini ordinari non gli si rivolgono in quel modo. — Non ho nessun ordine di scarcerazione. E voi non avete nessuna autorità per…

— Fallo in base alla mia, di autorità — dice Plutarch. — In ogni caso, noi siamo venuti a prendere questi tre. C’è bisogno di loro alla Difesa Speciale. Me ne assumo la piena responsabilità.

Il sorvegliante esce per fare una telefonata. Torna con un mazzo di chiavi. I preparatori sono stati costretti a starsene rattrappiti per così tanto tempo che faticano a camminare anche dopo che i ceppi sono stati rimossi. Gale, Plutarch e io dobbiamo aiutarli. Il piede di Flavius si impiglia in una grata metallica che copre un foro circolare praticato nel pavimento, e il mio stomaco si contrae quando penso al motivo per cui una stanza ha bisogno di uno scolo, alle macchie di umana miseria che devono essere state tolte a forza di getti d’acqua da queste piastrelle bianche…

In ospedale trovo mia madre, la sola di cui mi fidi per prendersi cura di loro. Ci mette un po’ a riconoscerli, visto come sono ridotti, ma ha già assunto un’aria costernata. E io so che non è dovuta alla vista di corpi che hanno subito violenze, perché quelli erano il suo pane quotidiano, nel Distretto 12, ma al fatto che si è resa conto che questo genere di cose succede anche nel 13.

Mia madre è stata bene accolta in ospedale, ma viene vista più come un’infermiera che come un medico, malgrado abbia passato la vita a guarire la gente. Comunque, nessuno si intromette quando conduce i tre in un ambulatorio per valutare le loro ferite. Mi piazzo su una panca nel corridoio fuori dall’entrata dell’ospedale, in attesa di sentire il suo responso. Lei sarà in grado di leggere in quei corpi il dolore che è stato loro inflitto.

Gale si siede accanto a me e mi mette un braccio intorno alle spalle. — Li sistemerà. — Faccio un cenno di assenso, chiedendomi se stia pensando alla brutale fustigazione che lui stesso ha subito nel 12.

Plutarch e Fulvia occupano la panca di fronte a noi, ma non fanno commenti sulle condizioni dei miei preparatori. Se non erano a conoscenza dei maltrattamenti, allora come interpretano questa mossa della presidente Coin? Decido di dar loro una mano.

— Immagino che abbiano voluto metterci tutti sull’avviso — dico.

— Come? Cosa intendi? — chiede Fulvia.

— La punizione del mio staff di preparatori è un avvertimento — le spiego. — Non solo per me, ma anche per voi, a proposito di chi comanda davvero e di cosa succede se non si ubbidisce. Se vi illudevate di contare qualcosa, al vostro posto lascerei perdere. A quanto pare, un pedigree di Capitol City non è una gran protezione, qui. Anzi, forse è uno svantaggio.

— Non c’è paragone tra Plutarch, che è stato il cervello della ribellione, e quei tre estetisti — dice Fulvia, glaciale.

Mi stringo nelle spalle. — Se lo dici tu, Fulvia. Ma cosa accadrebbe se vi faceste nemica la Coin? I miei preparatori sono stati rapiti. Loro, almeno, possono sperare di tornare a Capitol City, un giorno. Io e Gale possiamo vivere nei boschi. Ma voi? Dove scappereste voi due?

— Forse siamo un po’ più necessari allo sforzo bellico di quanto tu pensi — dice Plutarch, noncurante.

— Certo che lo siete. Anche i tributi erano necessari ai Giochi. Finché non lo sono stati più — dico. — E poi, noi tributi eravamo sacrificabili, giusto Plutarch?

Questo pone fine alla conversazione. Aspettiamo in silenzio fintanto che mia madre non ci trova. — Si rimetteranno — riferisce. — Non ci sono danni fisici permanenti.

— Bene. Magnifico — dice Plutarch. — Quando potranno essere messi al lavoro?

— Probabilmente domani — risponde lei. — Dovrete aspettarvi un po’ di instabilità emotiva, dopo quello che hanno dovuto passare. Erano decisamente impreparati, data la vita che conducevano a Capitol City.

— Non lo eravamo tutti, forse? — commenta Plutarch.

Vuoi perché lo staff dei preparatori è fuori combattimento, vuoi perché sono troppo nervosa, sta di fatto che Plutarch mi dispensa dalle mansioni di Ghiandaia Imitatrice per il resto della giornata. Io e Gale scendiamo a pranzare e ci vengono serviti stufato di fagioli e cipolle, una spessa fetta di pane e una tazza d’acqua. Dopo la faccenda di Venia, il pane mi si pianta in gola, così faccio scivolare quello che rimane sul vassoio di Gale. Né lui né io parliamo molto durante il pranzo, ma quando le nostre scodelle sono pulite, Gale si solleva la manica, mostrando il suo programma. — Ho l’addestramento, adesso.

Tiro su la mia, di manica, e metto il braccio accanto al suo. — Anch’io. — Poi ricordo che ormai l’addestramento equivale ad andare a caccia.

L’impazienza di fuggire nei boschi, anche solo per due ore, cancella le mie preoccupazioni. Un’immersione nel verde e nella luce del sole mi aiuterà di certo a mettere ordine nei miei pensieri. Una volta lontani dai corridoi principali, io e Gale facciamo a gara come scolaretti per raggiungere di corsa l’armeria, e quando ci arriviamo, non ho più fiato e mi gira la testa. Segno che non mi sono ristabilita del tutto.

Le guardie ci forniscono le nostre vecchie armi, insieme a coltelli e a un sacco di iuta che dovrebbe servire da bisaccia. Sopporto di farmi fissare il localizzatore alla caviglia e cerco di dare l’impressione di ascoltare, quando mi spiegano come si usa il comunicatore portatile. L’unica cosa che registro mentalmente è che quell’affare ha un orologio e che noi dobbiamo essere di nuovo nel 13 entro l’ora indicata, altrimenti le nostre licenze di caccia verranno revocate. Questa è una regola che credo mi sforzerò di rispettare.

Usciamo nell’ampia area di addestramento recintata, vicino ai boschi. Le guardie aprono i cancelli ben oliati senza fare commenti. Saremmo in difficoltà se dovessimo oltrepassare questa recinzione da soli: è alta circa nove metri, ronza costantemente per la corrente ed è sormontata da spirali di fil di ferro taglienti come rasoi. Avanziamo tra i boschi finché la recinzione non scompare dalla nostra vista. Ci fermiamo in una piccola radura e buttiamo indietro la testa per crogiolarci al sole. Mi metto a piroettare con le braccia allargate, girando lentamente in modo da evitare che tutto cominci a ruotarmi intorno.

L’assenza di pioggia che ho visto nel Distretto 12 ha danneggiato le piante anche qui, lasciando un fogliame friabile che forma un tappeto scricchiolante sotto i nostri piedi. Ci togliamo le scarpe. Le mie non mi vanno bene comunque, perché, in perfetto stile “il risparmio è il migliore guadagno”, il Distretto 13 mi ha dato quelle di qualcuno che non ci entra più. A quanto pare, uno di noi due cammina in modo strano, perché sono ammorbidite nei punti sbagliati.

Andiamo a caccia, come ai vecchi tempi. Silenziosi, non ci servono parole per comunicare, perché qui nei boschi ci muoviamo come due parti di un solo essere. Anticipando l’uno i gesti dell’altra, guardandoci reciprocamente le spalle.

Quanto tempo è passato? Otto mesi? Nove, forse, da quando avevamo questa libertà? Non è proprio lo stesso, considerato quello che è successo, i localizzatori che abbiamo alle caviglie e il fatto che devo fermarmi a riposare così spesso. Ma direi che è la cosa più vicina alla felicità che posso avere al momento.

Gli animali, qui, sono tutt’altro che diffidenti. Quell’attimo in più che impiegano per identificare il nostro nuovo odore è la loro morte. In un’ora e mezza, abbiamo una dozzina di prede assortite – conigli, scoiattoli e tacchini – perciò decidiamo di staccare la spina e trascorrere il tempo che ci rimane vicino a uno stagno che dev’essere alimentato da una sorgente sotterranea, visto che l’acqua è dolce e fresca.

Quando Gale si offre di pulire la selvaggina, non sollevo obiezioni. Mi caccio qualche foglia di menta sulla lingua, chiudo gli occhi e mi appoggio a una roccia, impregnandomi di suoni e lasciando che il sole cocente del pomeriggio mi scotti la pelle, quasi in pace, finché la voce di Gale non viene a disturbarmi. — Katniss, perché ti importa tanto del tuo staff di preparatori?

Apro gli occhi per capire se scherza, ma lui fissa concentrato il coniglio che sta scuoiando. — Perché non dovrebbe?

— Mmm, vediamo. Forse perché hanno passato l’ultimo anno a farti bella per andare al macello? — suggerisce.

— È più complicato di così. Io li conosco. Non sono cattivi o crudeli. Non sono neppure tanto svegli. Far male a loro è come far male a dei bambini. Non capiscono… cioè, non sanno… — Mi ritrovo ingarbugliata nelle mie stesse parole.

— Non sanno cosa, Katniss? — dice lui. — Che i tributi – perché sono loro i veri bambini in gioco, qui, non il tuo terzetto di fenomeni da baraccone – sono costretti a combattere fino alla morte? Che entravi in quell’arena per divertire il pubblico? Era un grande segreto, questo, a Capitol City?

— No. Ma loro non vedono la cosa nel modo in cui la vediamo noi — dico. — Li tirano su con quella roba e…

— Li stai davvero difendendo? — Scuoia il coniglio con un solo, rapido movimento.

Quel commento mi brucia, perché in effetti è proprio quello che sto facendo, ed è ridicolo. Mi sforzo di assumere una posizione logica. — Immagino che difenderei chiunque fosse trattato in quel modo perché ha rubato una fetta di pane. Forse mi ricorda troppo quello che è successo a te per un tacchino!

Però ha ragione. Tanta preoccupazione per i miei preparatori sembra proprio strana. Dovrei odiarli e desiderare di vederli impiccati. Ma sono così sciocchi, ed erano legati a Cinna, e lui era dalla mia parte, no?

— Non sto cercando di litigare — dice Gale. — Ma non credo che la Coin volesse mandarti un qualche avvertimento punendoli per avere infranto le regole di qui. Probabilmente, ha pensato che l’avresti visto come un favore. — Ficca il coniglio nel sacco e si alza. — Faremmo meglio a muoverci, se vogliamo farcela a tornare indietro in tempo.

Ignoro la sua offerta di aiuto e mi rimetto in piedi barcollando. — Bene. — Nessuno dei due parla lungo la strada del ritorno, ma una volta passato il cancello penso un’altra cosa. — Durante l’Edizione della Memoria, Octavia e Flavius hanno dovuto allontanarsi perché non riuscivano a smettere di piangere per me che tornavo là dentro. E Venia ce l’ha fatta appena a salutarmi.

— Cercherò di tenerlo a mente mentre… ti rifanno — dice Gale.

— Bravo — commento.

Consegniamo la carne a Sae la Zozza, in cucina. Il Distretto 13 le piace abbastanza, anche se pensa che i cuochi manchino un po’ di immaginazione. Una che proponeva un gustoso stufato di cane selvatico e rabarbaro è destinata a sentirsi le mani legate, qui.

Esausta per la caccia e la mancanza di sonno, torno alla mia unità. La trovo completamente svuotata e solo adesso mi ricordo che siamo state trasferite per via di Ranuncolo. Mi dirigo all’ultimo piano e trovo l’unità E. È identica all’unità 307, a parte la finestra, larga sessanta centimetri e alta venti, che è posizionata al centro, nella parte alta della parete esterna. La finestra si chiude con una pesante piastra metallica che però adesso è tenuta aperta da un puntello, e un certo gatto non si vede da nessuna parte. Mi allungo sul letto e un raggio di sole pomeridiano gioca sul mio viso. Ancor prima che me ne accorga, mia sorella mi sta svegliando per le Ore 18.00 Riflessione.

Prim mi dice che stanno annunciando la riunione dall’ora di pranzo. Tutti i cittadini, eccetto quelli che occorrono per le funzioni indispensabili, sono tenuti a partecipare. Seguiamo le indicazioni per la Sala Comune, un enorme locale che contiene agevolmente le migliaia di persone che si presentano. Si capisce che è stato costruito per un’assemblea più numerosa, e forse ne ha ospitata una simile prima dell’epidemia di varicella. Prim mi indica senza parlare le diffuse conseguenze che ha avuto quel disastro: i segni della varicella sulla pelle della gente, i bambini un po’ deformi. — Hanno sofferto molto, qui — dice.

Dopo questa mattina, non ho proprio voglia di sentirmi dispiaciuta per il 13. — Non più di quanto abbiamo sofferto noi nel 12 — ribatto. Vedo mia madre guidare in sala un gruppo di pazienti in grado di camminare che indossano ancora le camicie da notte e le vestaglie dell’ospedale. Finnick è tra loro, inebetito ma in buona forma. Fra le mani tiene un pezzo di corda lungo meno di trenta centimetri, troppo corto perché persino lui riesca a farci un laccio utilizzabile. Le sue dita si muovono con rapidità, stringendo e sbrogliando meccanicamente svariati nodi, mentre si guarda intorno. È probabile che faccia parte della sua terapia. Attraverso la sala per raggiungerlo e dico: — Ciao, Finnick. — Non sembra accorgersene, perciò lo tocco con il gomito per ottenere la sua attenzione. — Finnick! Come stai?

— Katniss — dice afferrandomi la mano. Credo si senta sollevato nel vedere un viso conosciuto. — Perché ci stiamo riunendo qui?

— Ho detto alla Coin che sarò la Ghiandaia Imitatrice. Ma le ho fatto promettere di concedere l’immunità agli altri tributi nel caso vincano i ribelli — gli racconto. — In pubblico, in modo che ci siano testimoni in abbondanza.

— Oh. Bene. Perché è proprio questo che mi preoccupa, riguardo a Annie. Che dica senza saperlo qualcosa che possa essere interpretato come tradimento — spiega Finnick.

Annie. Ops. L’avevo completamente dimenticata. — Niente paura, me ne sono occupata io. — Stringo la mano di Finnick e vado dritta verso il podio in fondo alla sala. La Coin, che sta scorrendo in fretta la sua dichiarazione, inarca le sopracciglia nel vedermi. — Ho bisogno che aggiunga Annie Cresta all’elenco degli amnistiati — le dico.

La presidente si acciglia leggermente. — Chi è?

— Una persona che interessa a Finnick Odair. È… — Cosa? In realtà, non so come definirla. — È amica di Finnick. Viene dal Distretto 4. Un’altra vincitrice. È stata arrestata e portata a Capitol City quando l’arena è esplosa.

— Ah, la ragazza mezza matta. Non è necessario — dice. — Non è nostra consuetudine punire qualcuno di tanto fragile.

Penso alla scena che ho visto questa mattina. A Octavia rannicchiata contro la parete. A quanto sia diversa l’interpretazione che io e la Coin diamo della fragilità. Però dico soltanto: — No? Allora non dovrebbe essere un problema aggiungere Annie.

— Bene — dice la presidente, inserendo a matita il nome di Annie. — Vuoi stare quassù con me per l’annuncio? — Scuoto la testa. — Pensavo di no, infatti. Farai meglio a nasconderti in fretta tra il pubblico. Sto per cominciare. — Mi faccio largo per tornare da Finnick.

Le parole sono un’altra cosa che non si spreca, nel Distretto 13. La Coin richiama l’attenzione dei presenti e li informa che ho acconsentito a essere la Ghiandaia Imitatrice a condizione che agli altri vincitori – Peeta, Johanna, Enobaria e Annie – venga concessa una totale amnistia per qualunque danno arrechino alla causa dei ribelli. Nel brontolio degli spettatori, sento la disapprovazione. Credo che nessuno nutrisse dubbi sulla mia volontà di essere la Ghiandaia Imitatrice. Fissarne il prezzo, e un prezzo che risparmia possibili nemici, li fa arrabbiare. Resto indifferente alle occhiate ostili lanciate nella mia direzione.

La presidente concede qualche istante di agitazione, poi continua nella sua maniera sbrigativa. Solo adesso le parole che le escono dalla bocca mi giungono nuove. — In cambio di questa richiesta senza precedenti, il soldato Everdeen ha promesso di votarsi interamente alla nostra causa. Ne consegue che qualsiasi deroga alla sua missione, nelle intenzioni o nei fatti, verrà considerata una violazione di questo accordo. L’immunità sarebbe annullata e il destino dei quattro vincitori, così come del suo, deciso dalle leggi del Distretto 13. Grazie.

In altre parole, una mossa sbagliata e siamo tutti morti.