10
L’urlo mi parte dalla parte bassa della schiena e risale a forza attraverso il corpo, solo per restarmi bloccato in gola. Sono una senza-voce, muta, e il dolore mi sta soffocando. Anche se riuscissi ad allentare i muscoli del collo, a lasciare il suono libero di correre nell’aria, se ne accorgerebbe qualcuno? La stanza è in tumulto. Riecheggiano domande e richieste, mentre tutti cercano di decifrare le parole di Peeta. “E tu… nel 13… sarai morta prima che faccia mattina!” Ma nessuno chiede del messaggero, il cui sangue sullo schermo è stato sostituito da scariche elettrostatiche.
Una voce chiede l’attenzione degli altri. — Chiudete il becco! — Gli occhi di tutti si fissano su Haymitch. — Non è ‘sto grande mistero! Il ragazzo ci sta dicendo che stiamo per essere attaccati. Qui, nel 13.
— Come fa ad avere questa informazione?
— Perché dovremmo credergli?
— Come lo sai?
Haymitch emette un brontolio di frustrazione. — Lo stanno pestando a sangue, mentre parliamo. Di cos’altro avete bisogno? Katniss, dammi una mano con questi!
Devo darmi una scrollata per far uscire le parole. — Haymitch ha ragione. Non so dove Peeta abbia preso questa informazione. O se sia vera. Ma lui crede che lo sia. E loro… — Non riesco a dire ad alta voce quello che Snow gli sta facendo.
— Voi non lo conoscete — dice Haymitch alla Coin. — Noi sì. Faccia preparare la sua gente.
La presidente non sembra inquieta, solo un po’ perplessa, per la piega che hanno preso gli eventi. Medita sulle parole, tamburellando leggermente con un dito il bordo del quadro comandi davanti a lei. Quando parla, si rivolge a Haymitch in tono calmo. — Siamo preparati per una situazione di questo genere, naturalmente. Benché, dopo decenni di esperienza, riteniamo che ulteriori attacchi nei confronti del 13 sarebbero controproducenti per la causa di Capitol City. I missili nucleari rilascerebbero radiazioni nell’atmosfera, con conseguenze imprevedibili per l’ambiente. Anche un bombardamento ordinario potrebbe causare gravi danni al nostro complesso militare, complesso che le forze governative preferirebbero riprendersi, come ben sappiamo. Inoltre, com’è ovvio, la loro azione provocherebbe un contrattacco. Data la nostra attuale alleanza con i ribelli, però, è plausibile che tutto questo venga considerato un rischio accettabile.
— Lei crede? — dice Haymitch. Il suo commento è un tantino troppo candido, ma nel 13 le sottigliezze dell’ironia vanno spesso sprecate.
— Sì. In ogni caso, siamo più che pronti per un’esercitazione di sicurezza di Livello 5 — dice la Coin. — Procediamo con la chiusura. — Comincia a battere rapidamente sulla tastiera, fornendo le necessarie autorizzazioni alla propria decisione. Nel momento in cui solleva la testa, ha inizio la procedura.
Ci sono state due esercitazioni di basso livello, da quando sono arrivata nel 13. Non ricordo granché della prima. Ero all’ospedale, in terapia intensiva, e credo che i pazienti ne fossero esentati, perché trasferirci per un’esercitazione pratica risultava più complicato che utile. Ero vagamente consapevole di una voce registrata che ordinava alla gente di radunarsi nelle zone gialle. Nella seconda, un’esercitazione di livello 2 prevista per le emergenze di minore entità (ad esempio una breve quarantena in cui i cittadini venivano sottoposti a un test per il contagio nel corso di un’epidemia di influenza), dovevamo tornare tutti nei nostri alloggi. Io ero rimasta nascosta dietro una tubatura della lavanderia, non avevo minimamente considerato i bip pulsanti che venivano dall’impianto audio e mi ero messa a osservare un ragno che tesseva la sua ragnatela. Queste due esperienze non mi hanno preparata alle terrificanti sirene spacca-timpani che adesso, senza discorsi di accompagnamento, si diffondono nel 13. Nessuno potrebbe ignorare quel suono, che sembrerebbe progettato per gettare l’intera popolazione in uno stato di panico totale. Ma questo è il Distretto 13, e cose del genere non succedono.
Boggs guida Finnick e me fuori dal Comando, lungo il corridoio fino a una porta e su un’ampia scala. Torrenti di persone stanno convergendo lì a formare un fiume che scorre solo verso il basso. Nessuno urla o tenta di passare avanti a spintoni. Persino i bambini non oppongono resistenza. Rampa dopo rampa, scendiamo senza parlare, perché non una parola riuscirebbe a sovrastare quel suono. Cerco mia madre e Prim, ma mi è impossibile vedere qualcuno che non si trovi nelle mie immediate vicinanze. Però stasera lavorano tutte e due in ospedale, quindi non possono certo perdersi l’esercitazione.
Mi si tappano le orecchie e provo un senso di pesantezza agli occhi. Ci troviamo in profondità da miniera di carbone. L’unico vantaggio è che più ci inoltriamo nel cuore della terra e meno stridenti sono le sirene. È come se fossero concepite per allontanarci fisicamente dalla superficie.
Gruppi di persone cominciano a uscire dalla fila per varcare porte contrassegnate, eppure Boggs mi dice di scendere ancora, finché finalmente le scale non terminano sulla soglia di un’enorme caverna. Faccio per entrare, ma Boggs mi ferma, mi indica che devo passare il mio programma davanti a uno scanner, così da risultare presente all’appello. Senza dubbio le informazioni verranno inviate a un computer da qualche parte per assicurarsi che nessuno si sia perso per strada.
Non è chiaro se il luogo sia naturale o artificiale. Certe zone delle pareti sono di pietra, mentre calcestruzzo e travi d’acciaio ne rinforzano solidamente altre. Letti a castello sono scavati direttamente nelle pareti di roccia. C’è una cucina, ci sono dei bagni e una postazione di pronto soccorso. Questo posto è stato progettato per un soggiorno prolungato.
Cartelli bianchi che riportano lettere o numeri sono collocati a intervalli tutto intorno alla caverna. Mentre Boggs spiega a Finnick e a me che dobbiamo far riferimento all’area corrispondente agli alloggi che ci erano stati assegnati (la E come unità E, nel mio caso) capita lì Plutarch. — Ah, eccovi qui — dice. Gli ultimi eventi hanno influito poco sul suo umore. Ha ancora il colorito acceso e felice per il successo di Beetee nell’Attacco via Etere. Lui vede la foresta, non gli alberi, l’insieme, non i dettagli. Non la punizione di Peeta o l’imminente attacco al 13. — Katniss, questo è ovviamente un brutto momento per te, considerando l’inconveniente di Peeta, ma devi essere consapevole del fatto che gli altri continueranno a osservarti.
— Cosa? — chiedo. Non riesco a credere che davvero abbia appena declassato a “inconveniente” la terribile situazione di Peeta.
— Qui nel rifugio, le persone reagiranno per come reagirai tu. Se sei calma e forte, anche altri cercheranno di esserlo. Se ti fai prendere dal panico, il terrore potrebbe diffondersi in un lampo — spiega Plutarch. Mi limito a fissarlo. — Il fuoco sta divampando, per così dire — continua, come se fossi dura di comprendonio.
— Potrei far finta di essere davanti alle telecamere, che ne dici, Plutarch? — ribatto.
— Sì! Perfetto. Si è sempre molto più forti, con un pubblico — dice. — Guarda il coraggio che ha appena dimostrato Peeta!
Fatico a non mollargli una sberla.
— Devo tornare dalla Coin prima della chiusura. Tu continua così! — aggiunge, e se ne va.
Attraverso la caverna sino alla grande lettera E affissa alla parete. Il nostro spazio è costituito da un quadrato di pavimento di pietra che misura tre metri e mezzo per lato ed è delimitato da righe verniciate.
Intagliati nella parete, ci sono due letti a castello – una di noi dormirà sul pavimento – e uno spazio cubico a livello del suolo dove mettere la nostra roba. Su un foglio di carta bianca, rivestito di plastica trasparente, sta scritto REGOLE DEL RIFUGIO. Guardo fissamente le macchioline nere sulla pagina. Per un po’, si confondono con quelle recenti gocce di sangue che sembra io non riesca a cancellare dalla mia vista. Poco a poco, le parole si mettono a fuoco. Il primo paragrafo si intitola ALL'ARRIVO:
ASSICURATEVI CHE TUTTI
I MEMBRI DELLA VOSTRA UNITÀ
SIANO PRESENTI ALL'APPELLO
Mia madre e Prim non sono ancora arrivate, ma io sono stata tra i primi a raggiungere il rifugio. È probabile che entrambe stiano dando una mano a trasferire i pazienti dell’ospedale.
ANDATE ALLA POSTAZIONE
APPROVVIGIONAMENTO
E PROCURATEVI UNO ZAINO
PER CIASCUN MEMBRO
DELLA VOSTRA UNITÀ.
PREPARATE L'ALLOGGIO.
RESITUITE GLI ZAINI.
Esploro la caverna finché non individuo la Postazione Approvvigionamento, una stanza profonda che si distingue dalle altre per un bancone. La gente aspetta lì davanti, ma non c’è ancora un gran movimento. Mi avvicino, fornisco la lettera della nostra unità e chiedo tre zaini. Un uomo controlla un foglio, estrae dagli scaffali gli zaini indicati e, facendoli dondolare, li butta sul bancone. Dopo essermene messa uno sulle spalle e avere afferrato gli altri due, mi giro e scopro che un gruppo di persone si sta formando rapidamente dietro di me. — Permesso — dico mentre passo in mezzo a loro portando i miei rifornimenti. È solo questione di tempi? O Plutarch ha ragione e questa gente modella il suo comportamento sul mio?
Una volta tornata al nostro posto, apro uno degli zaini e trovo un materasso sottile, lenzuola e coperte, due cambi di abiti grigi, uno spazzolino da denti, un pettine e una torcia elettrica. Esaminando il contenuto degli altri zaini, mi salta all’occhio un’unica differenza: in quelli ci sono completi sia grigi sia bianchi. Questi ultimi serviranno a mia madre e a Prim nel caso abbiano mansioni mediche da svolgere. Dopo avere fatto i letti, riposto gli abiti e restituito gli zaini, non ho niente da fare tranne seguire l’ultima regola.
ATTENDETE ULTERIORI ISTRUZIONI
Mi siedo a gambe incrociate sul pavimento ad aspettare. Un flusso costante di persone comincia a riempire lo spazio della caverna, occupando alloggi e radunando rifornimenti. Non ci vorrà molto perché sia al completo. Mi chiedo se nella notte mia madre e Prim rimarranno ovunque siano stati portati i pazienti. Ma non credo, no. Erano in lista qui. Sto cominciando a preoccuparmi, quando compare mia madre. Studio il mare di estranei dietro di lei. — Dov’è Prim? — chiedo.
— Non è qui? — ribatte lei. — Doveva venire giù direttamente dall’ospedale. È uscita dieci minuti prima di me. Dove può essere andata?
Per un istante stringo forte le palpebre, seguo le sue orme come se dessi la caccia a un animale. Vedo Prim reagire alle sirene, precipitarsi ad aiutare i pazienti, annuire quando le fanno segno di scendere al rifugio, e, a quel punto, esito con lei sulle scale. Combattuta per un attimo. Ma perché?
I miei occhi si aprono di colpo. — Il gatto! È tornata indietro per lui!
— Oh, no — dice mia madre. Sappiamo tutte e due che ho ragione. Ci facciamo largo a spintoni nella marea di persone in arrivo, cercando di uscire dal rifugio. Davanti a me, riesco a vedere che si preparano a chiudere le spesse porte metalliche. Che fanno ruotare lentamente verso l’interno gli ingranaggi di metallo posti su entrambi i lati. Per qualche ragione, so che, una volta sigillati, niente al mondo convincerà i soldati a riaprirli. Forse non ne avranno nemmeno il potere. Spingo la gente da parte a casaccio mentre grido loro di aspettare. Lo spazio tra le porte si riduce a un metro, a trenta centimetri. Resta solo qualche centimetro, quando incastro la mano nella fessura.
— Aprite! Fatemi uscire! — urlo.
La costernazione si dipinge sui volti dei soldati mentre invertono un po’ il movimento degli ingranaggi. Non abbastanza per lasciarmi passare, ma quel tanto che serve a evitare di schiacciarmi le dita.
Approfitto allora dell’occasione per incuneare la spalla nell’apertura. — Prim! — grido verso le scale. Mia madre supplica le guardie mentre io cerco di sgusciare fuori. — Prim!
Poi la sento. Il lieve rumore di passi sui gradini. — Stiamo arrivando! — sento che urla mia sorella.
— Non chiudete la porta! — Questo è Gale.
— Stanno arrivando! — dico alle guardie, e loro fanno scorrere le porte di circa trenta centimetri. Ma io non oso muovermi, ho paura che ci chiudano fuori tutti quanti, finché non compare Prim, le guance arrossate per la corsa, con in braccio Ranuncolo. La spingo dentro e Gale la segue, torcendo da una parte le braccia piene di bagagli per farli entrare nel rifugio. Le porte vengono chiuse con un forte, definitivo rumore metallico.
— Cosa credevi di fare? — Do a Prim una scrollata rabbiosa e poi l’abbraccio, schiacciando Ranuncolo tra me e lei.
Prim ha la spiegazione già pronta. — Non potevo abbandonarlo, Katniss. Non due volte. Avresti dovuto vedere come andava su e giù per la stanza, gemendo. Lui sarebbe tornato indietro a proteggerci.
— Va bene. Va bene. — Faccio qualche respiro per calmarmi, indietreggio e tiro su Ranuncolo per la collottola. — Avrei dovuto annegarti quando ne avevo la possibilità. — Appiattisce le orecchie e solleva una zampa. Soffio io prima che possa farlo lui, il che sembra infastidirlo un po’, visto che soffiare è un’espressione di disprezzo che considera solo sua. Per rappresaglia, emette un miagolio da micino indifeso che porta subito mia sorella a intervenire in sua difesa.
— Oh, Katniss, non prenderlo in giro — dice, circondandolo di nuovo con le braccia. — È già abbastanza scombussolato.
L’idea di aver ferito i leggiadri sentimenti gatteschi di quella bestiaccia malefica non fa che ispirarmi altro sarcasmo. Ma Prim è veramente angosciata per lui. Ragion per cui scelgo di pensare a un paio di guanti foderati con la pelliccia di Ranuncolo, un’immagine che mi ha aiutato ad avere a che fare con lui nel corso degli anni. — D’accordo, scusa. Noi siamo sotto la grande E che sta sulla parete. Sarà meglio che lo facciamo sistemare prima che si perda. — Prim se ne va in fretta, e io mi ritrovo faccia a faccia con Gale. Tiene tra le braccia lo scatolone di scorte mediche proveniente dalla cucina del Distretto 12, luogo della nostra ultima conversazione, del nostro ultimo bacio, litigio o quello che è stato. La mia bisaccia gli pende dalla spalla.
— Se Peeta ha ragione, questa roba non serviva a niente — dice.
Peeta. Sangue come gocce di pioggia sulla finestra. Come fango bagnato sugli stivali.
— Grazie per… tutto. — Prendo le nostre cose. — Cosa ci facevi di sopra, nelle nostre camere?
— Ricontrollavo soltanto — risponde. — Noi siamo alla 47, se hai bisogno di me.
Quasi tutti si sono ritirati nei loro spazi appena si sono chiuse le porte, così mi tocca compiere la traversata sino alla nostra nuova casa sotto gli occhi di almeno cinquecento persone. Cerco di sembrare calmissima per compensare il mio frenetico e rumoroso passaggio tra la folla. Come se qualcuno potesse cascarci. E addio al buon esempio. Oh, ma che importa? Tanto pensano tutti che io sia un po’ svitata. Un uomo che credo di aver fatto cadere a terra richiama la mia attenzione e si strofina un gomito con aria risentita. Per poco non soffio anche a lui.
Prim ha installato Ranuncolo sul letto più basso e lo ha avvolto in una coperta in modo da farne spuntare solo il muso. È così che gli piace stare quando ci sono i tuoni, l’unica cosa che lo spaventa davvero. Mia madre introduce con cura il suo scatolone nel cubo. Io mi accovaccio, la schiena sostenuta dalla parete, per vedere quello che Gale è riuscito recuperare con la mia bisaccia. Il libro delle piante, la giacca da caccia, la foto del matrimonio dei miei genitori e gli oggetti personali contenuti nel mio cassetto. La mia spilla con la ghiandaia imitatrice, ormai, sta insieme agli abiti di Cinna, ma qui ci sono il medaglione d’oro e il paracadute argentato con appesa la spillatrice. E la perla di Peeta. Annodo la perla a un angolo del paracadute e la seppellisco nel profondo della bisaccia, come se fosse la vita stessa di Peeta e nessuno potesse portarla via, finché la custodisco io.
Il debole suono delle sirene si interrompe bruscamente. La voce della Coin esce dall’impianto audio, ringraziandoci tutti per l’esemplare evacuazione dei piani superiori. Sottolinea che non si tratta di un’esercitazione, perché Peeta Mellark, il vincitore del Distretto 12, è apparso in TV e ha fatto riferimento a un possibile attacco contro il 13. Stanotte.
In quel momento, la prima bomba colpisce. C’è una iniziale sensazione di impatto, seguita da un’esplosione che mi riecheggia nelle parti intime, nelle pareti degli intestini, nel midollo delle ossa, nelle radici dei denti. Moriremo tutti, penso. I miei occhi puntano verso l’alto, aspettandosi di vedere gigantesche incrinature correre attraverso il soffitto, enormi pezzi di roccia che piovono su di noi, ma il rifugio si limita a vibrare leggermente. Le luci si spengono e provo il disorientamento dell’oscurità totale. Suoni umani e inarticolati – strilli istintivi, respirazioni irregolari, piagnucolii infantili, il frammento melodioso di una folle risata – danzano tutto intorno nell’aria carica di elettricità. Poi si sente il ronzio di un generatore e un fioco bagliore tremolante viene a sostituire la cruda illuminazione che è abituale nel Distretto 13 e che somiglia di più a quello che avevamo nelle nostre case del 12, dove le candele e il fuoco si consumavano fino all’ultimo nelle notti d’inverno.
Nel crepuscolo, allungo una mano verso Prim, le afferro una gamba e mi tiro vicino a lei. Ha ancora la voce ferma mentre cantilena, rivolta a Ranuncolo: — È tutto a posto, piccolino, è tutto a posto. Staremo bene, quaggiù.
Mia madre ci circonda con le braccia. Mi concedo di sentirmi giovane per un istante e appoggio la testa sulla sua spalla. — È stato ben diverso dalle bombe nel Distretto 8 — dico.
— Probabilmente un missile antirifugio — dice Prim. — Li abbiamo studiati nei corsi di orientamento per i nuovi cittadini. Sono progettati per penetrare in profondità nel suolo prima di esplodere, dato che non ha più senso bombardare il 13 in superficie.
— Sono nucleari? — chiedo, sentendo un brivido che mi attraversa.
— Non necessariamente — risponde Prim. — Alcuni hanno semplicemente un sacco di esplosivo dentro. Ma… questo potrebbe essere dell’uno come dell’altro tipo, immagino.
La parziale oscurità rende difficile vedere le pesanti porte di metallo in fondo al rifugio. Saranno una protezione contro un attacco nucleare? E anche se fossero efficaci al cento per cento nel bloccare le radiazioni, il che è davvero improbabile, saremo mai in grado di uscire da questo posto? Il pensiero di trascorrere in questa tomba di pietra quanto mi resta da vivere mi lascia inorridita. Vorrei correre come una pazza alla porta e pretendere che mi lascino andare, qualunque cosa ci sia in superficie. Ma non mi permetterebbero mai di uscire, e potrei anche dare inizio a un fuggi fuggi generale.
— Ci troviamo molto in profondità. Sono certa che siamo al sicuro — dichiara debolmente mia madre. Sta pensando a mio padre, dissolto nel nulla dentro le miniere? — Però c’è mancato poco. Grazie al cielo, Peeta aveva i mezzi per avvertirci.
I mezzi. Un termine generico che in qualche modo comprende tutto quello che gli serviva per dare l’allarme. La conoscenza, l’opportunità, il coraggio. E qualcos’altro che non riesco a definire. Sembrava che Peeta stesse ingaggiando una specie di battaglia nella sua testa, che lottasse per fare uscire il messaggio. Perché? La facilità con cui si serve delle parole è il suo più grande talento. Che le sue difficoltà fossero una conseguenza delle torture subite? Qualcosa di più? Come la pazzia?
La voce della Coin, forse un tantino più cupa di prima, riempie il rifugio, col volume che tremola insieme alle luci. — A quanto pare le informazioni di Peeta Mellark erano affidabili e noi abbiamo un grosso debito di riconoscenza nei suoi confronti. I sensori indicano che il primo missile non era nucleare, ma molto potente. Ci aspettiamo che ne seguiranno altri. Per tutta la durata dell’attacco, i cittadini dovranno restare nelle aree assegnate sino a nuovo ordine.
Un soldato avverte mia madre che c’è bisogno di lei alla postazione di pronto soccorso. Lasciarci non le va un granché, anche se sarà lontana solo una trentina di metri.
— Staremo bene, davvero — le dico. — Non penserai che esista qualcosa in grado di aggirare lui? — Indico Ranuncolo, che soffia con così poco entusiasmo nella mia direzione da costringerci tutte a ridere un po’. Persino io sono dispiaciuta per lui. Quando mia madre se ne va, suggerisco: — Perché tu e Ranuncolo non vi mettete a letto, Prim?
— So che è sciocco ma… ho paura che il letto a castello possa crollarci addosso durante l’attacco — dice.
Se crolleranno i letti a castello, vorrà dire che l’intero rifugio ha ceduto e ci ha seppelliti, ma poi decido che questo genere di logica non ci sarà affatto di aiuto. Così sgombro il cubo-armadio e vi preparo un letto per Ranuncolo. Poi tiro lì davanti un materasso per me e mia sorella.
Ci autorizzano a utilizzare il bagno a piccoli gruppi per lavarci i denti, ma la doccia giornaliera è stata annullata. Mi raggomitolo sul materasso insieme a Prim, mettendo un doppio strato di coperte, poiché la caverna sprigiona un freddo umido. Ranuncolo, sempre infelice nonostante le continue attenzioni di Prim, si rannicchia dentro il cubo e mi esala in faccia il suo respiro di gatto.
Malgrado la sgradevole situazione, sono felice di avere del tempo per stare con mia sorella. Lo stato di estrema preoccupazione in cui mi trovo da quando sono arrivata qui – anzi no, già dai primi Giochi, in effetti – non mi ha permesso di pensare granché a Prim. Non mi sono occupata di lei come avrei dovuto, come facevo una volta. Dopotutto, è stato Gale a controllare la nostra unità, non io. E questa è una cosa cui devo rimediare.
Mi accorgo di non essermi mai neppure presa il disturbo di chiederle come stia affrontando il trauma di essere finita qui. — Allora, ti piace il 13, Prim? — butto lì.
— Adesso? — chiede. Ridiamo tutte e due. — A volte mi manca molto casa nostra. Ma poi mi ricordo che non è rimasto più niente di cui sentire la mancanza. Qui mi sento più al sicuro. Non dobbiamo preoccuparci per te. Be’, non allo stesso modo. — Si interrompe, poi un timido sorriso le attraversa le labbra. — Credo che abbiano intenzione di prepararmi perché diventi un medico.
È la prima volta che lo sento. — Be’, certo che ne hanno intenzione. Sarebbero sciocchi a non farlo.
— Mi hanno osservato quando do una mano in ospedale. Sto già seguendo i corsi di medicina. Sono solo cose da principianti. Ne so parecchie, con quello che facevo a casa. Ma ho molto da imparare — mi spiega.
— È fantastico — commento. Prim medico. Non avrebbe nemmeno potuto sognarselo, nel 12. Qualcosa di piccolo e tenue, come un fiammifero acceso, illumina l’oscurità che ho dentro. Questo è il genere di futuro che una ribellione potrebbe portare.
— E tu, Katniss? Come te la cavi? — Le punte delle sue dita si muovono in brevi, delicate carezze tra gli occhi di Ranuncolo. — E non dire che stai bene.
Vero. Un opposto qualsiasi di “bene”: è così che mi sento. Quindi comincio a raccontarle di Peeta, di come ho visto in TV l’aggravarsi progressivo delle sue condizioni, del fatto che credo lo stiano uccidendo in questo preciso istante. Ranuncolo deve contare solo su se stesso per un po’, perché adesso Prim rivolge a me le sue attenzioni. Mi tira più vicina, mi scosta i capelli infilandomeli dietro le orecchie con le dita. Ho smesso di parlare, perché in effetti non resta nient’altro da dire, e provo una specie di dolore lacerante nel punto in cui si trova il mio cuore. Forse mi sta venendo un infarto, ma non mi sembra che valga la pena parlarne.
— Katniss, io non credo che il presidente Snow ucciderà Peeta — dice Prim. È naturale che lo dica: è quello che secondo lei mi tranquillizzerà. Ma le parole che pronuncia subito dopo sono una vera sorpresa. — Se lo fa, non gli rimarrà più nessuno che interessi a te. Non avrà più niente per farti del male.
Il ragionamento di Prim mi ricorda di colpo un’altra ragazza, una che aveva visto tutto il male che Capitol City poteva fare. Johanna Mason, il tributo del Distretto 7, nell’ultima arena. Cercai di impedirle di entrare nella giungla dove le ghiandaie chiacchierone imitavano le voci dei nostri cari mentre venivano torturati, ma lei mi ignorò, dicendo: “Non possono farmi niente. Non sono come voi. Non mi è rimasto nessuno a cui volere bene.”
E allora so che Prim ha ragione, che Snow non può permettersi di sprecare la vita di Peeta, soprattutto adesso, finché la Ghiandaia Imitatrice crea tanto scompiglio. Ha già ucciso Cinna. Distrutto il luogo in cui sono nata. Non può arrivare alla mia famiglia o a Gale, e neppure a Haymitch. Peeta è tutto ciò che gli resta.
— Quindi cosa credi che gli faranno? — chiedo.
Prim sembra avere quasi cent’anni quando parla.
— Qualunque cosa serva a spezzare te.