Colpita a tradimento. È così che mi sento quando Haymitch mi ordina di tornare in ospedale. Scendo di volata le scale che portano al Comando, la mente in subbuglio, e irrompo direttamente in un consiglio di guerra.

— Come sarebbe a dire che non vado a Capitol City? Io devo andare! Sono la Ghiandaia Imitatrice! — dico.

La Coin alza a malapena lo sguardo dal proprio schermo. — E in quanto Ghiandaia Imitatrice, hai raggiunto il tuo obiettivo primario: riunire i distretti contro Capitol City. Niente paura, se tutto va bene ti ci porteremo in aereo quando si arrenderà.

Quando si arrenderà?

— Ma sarà troppo tardi! Mi perderò tutto lo scontro. Io vi servo… sono il miglior tiratore che avete! — urlo. Di solito non me ne vanto, ma se non altro è abbastanza vero. — Gale ci va.

— Gale si è presentato all’addestramento ogni giorno, a meno che non avesse altre mansioni autorizzate da svolgere. Confidiamo che sul campo saprà cavarsela — ribatte la Coin. — Tu a quante sessioni di addestramento hai partecipato?

A nessuna. Ecco a quante. — Be’, a volte ero a caccia. E… mi sono allenata con Beetee, giù agli Armamenti speciali.

— Non è la stessa cosa, Katniss — dice Boggs. — Sappiamo tutti che sei sveglia e coraggiosa e sei un’ottima tiratrice. Ma sul campo ci servono soldati. Non hai idea di cosa voglia dire eseguire gli ordini, e dal punto di vista fisico non sei esattamente al meglio.

— Tutto questo non vi preoccupava, quando sono stata nell’8. O nel 2, se è per questo — replico.

— Non ti avevamo autorizzata al combattimento in nessuno dei due casi, all’inizio — sottolinea Plutarch, lanciandomi uno sguardo che indica che sono sul punto di dire troppo.

No, in effetti la battaglia contro i bombardieri nell’8 e il mio intervento nel 2 sono stati spontanei, avventati, e decisamente non autorizzati.

— E in un caso come nell’altro, hai finito per ferirti — mi ricorda Boggs. All’improvviso, mi vedo con i suoi occhi. Una diciassettenne piccoletta che non riesce neppure a tirare il fiato perché le sue costole non sono ancora completamente guarite. Trasandata. Indisciplinata. Convalescente. Non un soldato, ma qualcuno che ha bisogno di una balia.

— Ma io devo andare — dico.

— Perché? — chiede la Coin.

Non posso mica dire che è per mettere in atto la mia vendetta personale contro Snow. O che l’idea di rimanere qui nel 13 con l’ultimissima versione di Peeta mentre Gale se ne va a combattere mi riesce insopportabile. Ma le ragioni per voler combattere a Capitol City non mi mancano. — Per via del 12. Perché hanno annientato il mio distretto.

La presidente ci pensa su un momento. Mi studia. — Be’, hai tre settimane. Non è molto, ma puoi cominciare l’addestramento. Se la Commissione Incarichi ti riterrà idonea, è possibile che il tuo caso venga riesaminato.

È tutto. Ed è il massimo in cui posso sperare. Immagino sia colpa mia. Ho bellamente ignorato il mio programma ogni giorno, eccetto quando comprendeva qualcosa che mi andava a genio. Non mi sembrava una priorità trottare di qua e di là per un campo con un fucile in mano mentre succedevano tante altre cose. E adesso pago per la mia trascuratezza.

Di ritorno in ospedale, trovo Johanna nella mia stessa situazione e fuori di sé dalla rabbia. Le racconto quello che mi ha detto la Coin. — Magari puoi fare addestramento anche tu.

— Benissimo. Farò addestramento. Ma ho tutte le intenzioni di andare in quella schifosa Capitol City, dovessi uccidere un equipaggio e volare là da sola — dice Johanna.

— Forse sarà meglio non sollevare l’argomento durante le sessioni — ribatto. — Ma è bello sapere che avrò un passaggio.

Johanna sogghigna, e percepisco un leggero ma significativo cambiamento nel nostro rapporto. Non sono sicura che siamo davvero amiche, ma il termine “alleate” potrebbe essere quello giusto. Ottimo. Avrò bisogno di un’alleata.

Il mattino seguente, quando alle 7.30 ci presentiamo all’addestramento, la realtà mi rifila uno schiaffo in pieno viso. Ci hanno messe in un corso di quattordicenni e quindicenni semiprincipianti, il che mi pare un tantino offensivo, finché non risulta evidente che loro sono molto più in forma di noi. Gale e gli altri che sono già stati scelti per andare a Capitol City si trovano in una fase più avanzata dell’addestramento. Dopo lo stretching (che fa male), ci sono un paio d’ore di esercizi di potenziamento (che fanno male) e una corsa di otto chilometri (che uccide). Anche con l’incentivo degli insulti di Johanna che mi fa tirare avanti, sono costretta a mollare dopo un chilometro e mezzo.

— Si tratta delle costole — spiego all’addestratrice, una pratica donna di mezza età alla quale dovremmo rivolgerci chiamandola soldato York. — Sono ancora ammaccate.

— Be’, ti dirò, soldato Everdeen, quelle ci metteranno almeno un altro mese per guarire da sole — dice.

Scuoto la testa. — Non ce l’ho, un mese.

Mi squadra dalla testa ai piedi. — I medici non ti hanno proposto nessuna cura?

— C’è una cura? — chiedo. — A me hanno detto che si devono aggiustare in modo naturale.

— È quello che dicono loro. Ma potrebbero velocizzare il processo, se io glielo suggerissi. Però ti avverto, non è per niente divertente — mi spiega.

— La prego. Io devo partire per Capitol City — dico.

Il soldato York non fa domande. Scribacchia qualcosa su un blocchetto e mi manda direttamente in ospedale. Esito. Non voglio perdermi altro addestramento. — Sarò di ritorno per la sessione del pomeriggio — prometto. Lei si limita a stringere le labbra.

Ventiquattro punture d’ago nella gabbia toracica dopo, sono spiaccicata nel mio letto d’ospedale e digrigno i denti per trattenermi dall’implorare i dottori di ridarmi la flebo di morfamina. Era accanto al letto, perché potessi prenderne una dose in caso di bisogno. Non l’ho mai usata, negli ultimi tempi, ma la conservavo nell’interesse di Johanna. Oggi mi hanno analizzato il sangue per accertarsi che fosse pulito dall’antidolorifico, perché la mescolanza dei due farmaci, la morfamina e quello che mi ha incendiato le costole, qualunque cosa sia, ha pericolosi effetti collaterali. Mi hanno fatto capire che avrei avuto un paio di giorni difficili, ma io gli ho detto di procedere.

È una brutta notte, nella nostra stanza. Dormire è fuori questione.

Io credo di sentire davvero l’odore del cerchio di carne che brucia intorno al mio torace, e Johanna lotta contro i sintomi dell’astinenza. All’inizio, quando mi scuso per averle tolto la scorta di morfamina, accantona la cosa con un cenno della mano, dicendo che tanto doveva succedere, ma alle tre del mattino sono il bersaglio di ogni genere di colorita bestemmia che il Distretto 7 può offrire.

All’alba, mi trascina fuori dal letto, decisa ad andare all’addestramento.

— Non credo di farcela — confesso.

— Sì che ce la fai. Ce la facciamo tutte e due. Siamo vincitrici, ricordi? Siamo quelle che sopravvivono a qualsiasi cosa gli arrivi addosso — mi ringhia. Ha un brutto colorito verdastro e trema come una foglia. Intanto, mi vesto.

Dobbiamo essere vincitrici sul serio per riuscire a far passare la mattinata. Mi sembra di avere perso Johanna quando ci accorgiamo che fuori piove a dirotto. Il suo viso diventa cinereo e sembra che abbia smesso di respirare.

— È solo acqua. Non ci ucciderà — dico. Lei stringe la mascella ed esce con passo pesante in mezzo al fango. La pioggia ci inzuppa, mentre facciamo lavorare i nostri corpi e poi sgobbiamo correndo lungo il percorso. Mi fermo dopo un chilometro e mezzo e devo resistere alla tentazione di togliermi la camicia per farmi sfrigolare l’acqua fresca sulle costole. Mi sforzo di mandare giù il pranzo da campo fatto di pesce molliccio e stufato di barbabietole. Johanna arriva a metà della sua scodella prima che il cibo mi torni su.

Nel pomeriggio, impariamo ad assemblare i nostri fucili. Io ce la faccio, ma Johanna non riesce a tenere le mani abbastanza ferme per incastrare i pezzi tra di loro. Quando la York ci gira le spalle, la aiuto. Anche se la pioggia continua a scendere, il pomeriggio va meglio, perché siamo al poligono. Finalmente qualcosa in cui sono brava. Passare da un arco a un fucile richiede un po’ di adattamento, ma a fine giornata ho il punteggio migliore del mio corso.

Abbiamo appena varcato le porte dell’ospedale, quando Johanna dichiara: — Questa cosa deve finire. Vivere in ospedale. Tutti ci considerano malate.

Per me non è un problema. Posso trasferirmi nell’unità abitativa dei miei, ma a Johanna non ne hanno mai assegnata una. Quando cerca di farsi dimettere, non accettano che vada a vivere da sola, anche se dice che verrà in ospedale ogni giorno per parlare con lo strizzacervelli. Probabilmente hanno fatto due più due riguardo alla morfamina, e questo deve avere confermato la loro opinione sulla sua instabilità. — Non sarà sola. Dividerò io la stanza con lei — annuncio. Qualcuno è contrario, ma Haymitch prende le nostre parti e, all’ora di andare a letto, abbiamo la nostra unità, di fronte a quella di Prim e di mia madre, che acconsente a tenerci d’occhio.

Io faccio la doccia, mentre Johanna, dopo essersi ripulita in qualche modo con un panno umido, esegue una rapida perlustrazione del luogo. Quando apre il cassetto che contiene i miei pochi averi, lo richiude alla svelta e dice: — Scusa.

Penso che nel cassetto di Johanna non c’è niente, a parte i vestiti forniti dal 13, che non ha una sola cosa che possa dire sua. — È tutto a posto. Puoi guardare la mia roba se vuoi.

Johanna apre il mio medaglione e studia le foto di Gale, Prim e mia madre. Scioglie il paracadute argentato e tira fuori la spillatrice, infilandosela nel mignolo. — Solo vederla mi fa venire sete. — Poi trova la perla che mi ha regalato Peeta. — È…?

— Sì — dico. — È riuscita ad arrivare fin qui, non si sa come. — Non voglio parlare di Peeta. Una delle cose migliori dell’addestramento è che mi impedisce di pensare a lui.

— Haymitch dice che sta meglio — osserva.

— Forse. Ma è cambiato — replico.

— Anche tu sei cambiata. Anch’io. E Finnick e Haymitch e Beetee. Vuoi che mi metta a parlare di Annie Cresta? L’arena ci ha sconvolti un bel po’ tutti quanti, non credi? O ti senti ancora la ragazza che si è offerta volontaria al posto di sua sorella? — mi chiede.

— No — rispondo.

— Questa è l’unica cosa su cui il mio strizzacervelli potrebbe avere ragione. Non c’è modo di tornare indietro. Perciò tanto vale che andiamo avanti. — Ripone con cura i miei ricordi nel cassetto e sale sul letto di fronte a me proprio mentre le luci si spengono. — Non hai paura che stanotte io ti uccida?

— Come se non fossi capace di fermarti — rispondo. Poi ridiamo, perché il fisico di entrambe è così provato che sarà già un miracolo se il giorno seguente riusciremo ad alzarci. Ma lo facciamo. Ogni mattina.

E alla fine della settimana, le mie costole sembrano quasi nuove, e Johanna è in grado di assemblare il suo fucile senza aiuti.

Mentre stacchiamo a giornata conclusa, il soldato York rivolge a tutte e due un cenno della testa in segno di approvazione. — Ottimo lavoro, soldati.

Quando non siamo più a portata di orecchio, Johanna borbotta: — È stato più facile vincere i Giochi. — Ma l’espressione del suo viso dice che è contenta.

In effetti siamo quasi allegre quando arriviamo al refettorio, dove Gale sta aspettando per mangiare insieme a me. Anche ricevere una ricca porzione di stufato di manzo non fa male al mio umore. — I primi carichi di cibo sono arrivati stamattina — mi spiega Sae la Zozza. — È manzo vero, questo, del Distretto 10. Mica uno dei vostri cani selvatici.

— Non ricordo che tu me li abbia mai rifiutati — ribatte Gale.

Ci uniamo a un gruppo che comprende Delly, Annie e Finnick. È impressionante vedere quanto il matrimonio abbia cambiato Finnick. Le sue incarnazioni precedenti – il decadente oggetto del desiderio di Capitol City che avevo conosciuto prima dell’Edizione della Memoria, l’alleato enigmatico all’arena, il giovane uomo a pezzi che cercava di aiutarmi a non crollare – sono state sostituite da qualcuno che sprigiona vita. Le vere attrattive di Finnick, fatte di un umorismo schivo e di un carattere accomodante, si rivelano per la prima volta. Non lascia mai la mano di Annie. Né quando camminano né quando mangiano. Dubito che abbia in programma di farlo mai. Lei è persa in una specie di stuporosa felicità. Ci sono ancora momenti in cui si capisce che qualcosa le si intrufola nel cervello e in cui un altro mondo le impedisce di vedere il nostro. Ma qualche parola di Finnick la riporta indietro.

Delly, che conosco da quando ero piccola ma cui non ho mai fatto molto caso, è cresciuta nella mia stima. Le hanno raccontato quello che mi disse Peeta la sera dopo il matrimonio, ma lei non è una pettegola. Secondo Haymitch, è il mio miglior difensore quando Peeta dà in escandescenze e si mette a insultarmi. Prende sempre le mie parti, attribuisce la colpa delle sue percezioni negative alle torture di Capitol City. Esercita su Peeta più influenza di chiunque altro, perché lui la conosce davvero.

In ogni caso, anche se Delly sparge zucchero a piene mani sui miei lati positivi, apprezzo quello che fa. A essere sincera, un po’ di zucchero non mi dispiace.

Sto morendo di fame e lo stufato è talmente delizioso – manzo, patate, rape e cipolle immersi in un sugo denso – che devo costringermi a rallentare. Da una parte all’altra del refettorio si percepisce l’effetto ristoratore che può dare un buon pasto. Il modo in cui rende le persone più gentili, più allegre, più ottimiste, ricordando loro che continuare a vivere non è un errore. Un buon pasto è meglio di qualunque medicina. Così cerco di farmelo durare e di unirmi alla conversazione. Inzuppo il pane nel sugo e lo sbocconcello mentre ascolto Finnick raccontare la buffa storiella di una tartaruga di mare che aveva preso il largo con il suo cappello. Rido prima di accorgermi che lui è lì, proprio dall’altra parte del tavolo, dietro il posto vuoto accanto a Johanna. E mi osserva. Di punto in bianco, il pane con il sugo mi va di traverso e mi si ferma in gola.

— Peeta! — esclama Delly. — È bello vederti… in giro.

Due robusti sorveglianti sono in piedi alle sue spalle. Lui tiene il vassoio in modo goffo, in equilibrio sulla punta delle dita perché i suoi polsi sono ammanettati l’uno all’altro con una corta catena.

— E quei braccialetti stravaganti? — chiede Johanna.

— Non sono ancora del tutto affidabile — dice Peeta. — Non posso neppure sedermi qui senza il vostro permesso. — Indica i sorveglianti con la testa.

— Ma certo che puoi sederti qui. Siamo vecchi amici — dice Johanna, dando un colpetto sullo spazio accanto a lei. I sorveglianti annuiscono e Peeta prende posto. — Le nostre celle erano una accanto all’altra, a Capitol City. Io conosco benissimo le sue urla e lui le mie.

Annie, che si trova dall’altro lato di Johanna, fa quella cosa di coprirsi le orecchie per distaccarsi dalla realtà. Finnick lancia a Johanna uno sguardo di rimprovero e mette il braccio intorno a Annie.

— Che c’è? Il mio strizzacervelli dice che non dovrei censurare i miei pensieri. Fa parte della terapia — replica Johanna.

L’animazione ha abbandonato la nostra piccola festa. Finnick mormora qualcosa a Annie finché lei non toglie pian piano le mani dalle orecchie. A quel punto, c’è un lungo silenzio, mentre tutti fanno finta di mangiare.

— Annie — dice Delly con vivacità, — lo sapevi che è stato Peeta a decorare la vostra torta nuziale? Quando eravamo a casa, la sua famiglia gestiva la panetteria e lui faceva tutte le glassature.

Annie guarda circospetta dall’altra parte di Johanna. — Grazie, Peeta. Era bellissima.

— È stato un piacere, Annie — dice Peeta, e sento nella sua voce quell’antica nota di gentilezza che credevo scomparsa per sempre. Non che sia diretta a me. Però c’è ancora.

— Se vogliamo trovare il tempo per quella passeggiata, sarà meglio che andiamo — dice Finnick, rivolto a Annie. Sistema entrambi i vassoi in modo da poterli portare con una mano mentre si tiene stretta la moglie con l’altra. — È stato bello vederti, Peeta.

— Sii carino con lei, Finnick. O sarò tentato di portartela via. — Potrebbe essere una battuta, se il tono non fosse così gelido. Tutto ciò che esprime è sbagliato. L’aperta diffidenza nei confronti di Finnick, l’insinuazione che Peeta abbia messo gli occhi su Annie, che lei potrebbe abbandonare Finnick. Che io non esista neppure.

— Ehi, Peeta — dice Finnick con leggerezza. — Non farmi rimpiangere di averti rimesso in moto il cuore. — Conduce via Annie dopo avermi lanciato un’occhiata preoccupata.

Quando se ne sono andati, Delly gli dice, in tono di rimprovero: — Lui ti ha salvato la vita, Peeta. Più di una volta.

— Per lei. — Accenna a me con un rapido movimento della testa. — Per l’insurrezione, non per me. Io non gli devo niente.

Non dovrei abboccare, ma lo faccio. — Forse no. Però Mags è morta e tu sei ancora qui. Questo dovrebbe contare qualcosa.

— Già, tante cose dovrebbero contare qualcosa, ma a quanto pare non contano affatto, Katniss. Ho alcuni ricordi che non riesco a capire, e non credo che Capitol City ci abbia messo mano. Molte notti sul treno, per esempio — dice.

Ancora insinuazioni. Che sul treno ci sia stato qualcosa di più. Che quanto in realtà c’è stato (in quelle notti, se non sono impazzita, è solo perché lui mi teneva tra le braccia) non abbia più importanza. Tutta una menzogna, nient’altro che un modo per fargli del male.

Peeta fa un piccolo gesto con il cucchiaio, collegando Gale e me. — Allora voi due siete ufficialmente una coppia, adesso, o la tirano ancora in lungo con la storia degli innamorati sventurati?

— La tirano ancora in lungo — dice Johanna.

Una serie di spasmi fa sì che le mani di Peeta si chiudano a pugno per poi allargarsi in uno strano modo. Tutto qui quello che riesce a fare per tenerle lontane dal mio collo? Accanto a me, sento tendersi i muscoli di Gale, temo una lite. Ma Gale dice solo: — Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto con i miei occhi.

— Cosa? — chiede Peeta.

— Te — risponde Gale.

— Dovrai essere un tantino più preciso — dice Peeta. — Io cosa?

— Intende dire che ti hanno sostituito con la versione malvagia di te stesso — spiega Johanna.

Gale finisce il suo latte. — Ci sei? — mi chiede. Mi alzo e attraversiamo il refettorio per deporre i nostri vassoi. Alla porta, un uomo anziano mi ferma perché stringo ancora in mano un avanzo di pane col sugo. Qualcosa nella mia espressione, o forse il fatto che non ho minimamente tentato di nasconderlo, lo induce a non essere troppo severo con me. Mi permette di ficcare il pane in bocca e passare oltre. Io e Gale siamo quasi arrivati alla mia unità, quando lui torna a parlare. — Non me l’aspettavo.

— Te l’avevo detto che mi odiava — dico.

— È il modo in cui ti odia. Mi è tanto… familiare. Una volta mi sentivo così — confessa. — Quando ti guardavo in TV mentre lo baciavi. Solo che io sapevo di essere ingiusto. Lui non lo capisce.

Raggiungiamo la mia porta. — Forse mi vede semplicemente per come sono in realtà. Devo dormire un po’.

Gale mi prende per un braccio prima che io possa scomparire. — Allora è questo che pensi, adesso? — Scrollo le spalle. — Katniss, in qualità di tuo più vecchio amico, credimi quando dico che lui non ti vede per come sei in realtà. — Mi bacia sulla guancia e se ne va.

Siedo sul mio letto, tentando di cacciarmi in testa le nozioni dei libri di Tattica Militare mentre il ricordo delle notti sul treno insieme a Peeta mi distrae.

Dopo circa venti minuti, Johanna entra e si getta di traverso in fondo al mio letto. — Ti sei persa la parte migliore. Delly si è arrabbiata moltissimo con Peeta per come ti ha trattata. È diventata praticamente stridula. Sembrava che qualcuno accoltellasse ripetutamente un topo con una forchetta. Tutto il refettorio ne era affascinato.

— Peeta cos’ha fatto? — chiedo.

— Si è messo a litigare con se stesso come se fosse due persone diverse. I sorveglianti hanno dovuto portarlo via. Il lato bello è che nessuno sembra essersi accorto che ho finito il suo stufato. — Johanna si strofina la pancia con la mano. Guardo lo strato di sporcizia sotto le sue unghie. Mi chiedo se la gente del Distretto 7 faccia mai il bagno.

Trascorriamo un paio d’ore interrogandoci a vicenda sui termini militari. Vado a trovare mia madre e Prim per un po’. Quando torno nella mia unità, dopo aver fatto la doccia ed essere rimasta a fissare il buio, alla fine chiedo: — Johanna, davvero lo sentivi urlare?

— Faceva parte del gioco — dice. — Come le ghiandaie chiacchierone nell’arena. Solo che era vero. E non smetteva dopo un’ora. Tic, tac.

Tic, tac — le rispondo in un sussurro.

Rose. Lupi mutanti. Tributi. Delfini glassati. Amici. Ghiandaie imitatrici. Stilisti. Io.

Nei miei sogni, tutto urla, stanotte.