“Sempre.”

Nel crepuscolo di morfamina, Peeta bisbiglia questa parola e io vado a cercarlo. È un universo trasparente, dalle sfumature violette, senza margini netti, e con tanti posti per nascondersi. Mi faccio largo attraverso banchi di nuvole, seguo sentieri appena visibili, percepisco profumo di cannella e aneto. C’è un momento in cui sento la sua mano sulla guancia e cerco di afferrarla, ma si dissolve come foschia tra le mie dita.

Quando infine comincio a svegliarmi nell’asettica camera dell’ospedale del 13, ricordo. Ero sotto l’effetto dello sciroppo sedativo. Mi ero fatta male a un tallone dopo aver strisciato su un ramo proteso sopra la recinzione elettrificata ed essermi lasciata cadere di nuovo all’interno del 12. Peeta mi aveva messa a letto e, mentre mi appisolavo, gli chiedevo di restare con me. Lui aveva bisbigliato qualcosa che non ero riuscita ad afferrare. Ma una parte del mio cervello aveva trattenuto quell’unica parola sussurrata in risposta e la lasciava riaffiorare adesso nei miei sogni per prendersi gioco di me. “Sempre.”

La morfamina intorpidisce ogni emozione estrema, perciò, invece di provare una fitta di tristezza, sento soltanto un vuoto. Uno spazio di boscaglia rinsecchita là dove un tempo sbocciavano fiori. Purtroppo non mi è rimasta abbastanza medicina nelle vene per ignorare il dolore al lato sinistro del corpo. È lì che la pallottola mi ha colpito. Le mie mani brancolano sulla spessa fasciatura che mi riveste le costole e mi chiedo cosa sto facendo ancora lì.

Non è stato lui, l’uomo inginocchiato davanti a me sulla piazza, l’ustionato che veniva dall’Osso. Lui non ha premuto il grilletto. È stato qualcuno di molto più lontano in mezzo alla folla. Non ho provato una sensazione tipo carne perforata, quanto piuttosto quella di essere stata colpita da una mazza. Dopo l’istante dell’impatto, tutto è confusione punteggiata di spari. Tento di mettermi seduta, ma la sola cosa che riesco a fare è gemere.

La tenda bianca che separa il mio letto da quello dell’altro paziente viene scostata di scatto, e Johanna Mason abbassa lo sguardo su di me. In un primo tempo, mi sento minacciata, perché nell’arena Johanna mi aggredì. Devo ricordare a me stessa che fu per salvarmi la vita. Faceva parte del complotto dei ribelli. Questo però non significa che lei non mi disprezzi. E se il modo in cui mi trattava fosse stato solo una messinscena a beneficio di Capitol City?

— Sono viva — dico, con una voce che pare arrugginita.

— Sai che scoperta, idiota. — Johanna si avvicina e si lascia cadere pesantemente sul mio letto, provocandomi fitte di dolore lancinante in tutto il torace. Quando sogghigna di fronte al mio disagio, capisco che non siamo qui per una cordiale scena di riappacificazione. — Ancora un po’ dolorante? — Con mano esperta, mi stacca rapidamente la flebo di morfamina dal braccio e la inserisce nell’attacco fissato con lo scotch all’incavo del suo. — Hanno cominciato a ridurmi le dosi qualche giorno fa. Temono che mi trasformi in uno di quei drogati del 6. Ho dovuto farmi fare un prestito da te quando non mi vedevano. Pensavo non ti sarebbe dispiaciuto.

Dispiacermi? Come potrebbe dispiacermi se dopo l’Edizione della Memoria fu praticamente torturata a morte da Snow? Non ho alcun diritto di dispiacermi, e lei lo sa.

Johanna sospira quando la morfamina le entra in circolo. — Forse ci avevano visto giusto, nel 6. Sballa e dipingiti il corpo di fiori. Non è poi una brutta vita. E comunque sembravano più felici loro di noi.

Nelle settimane da che ho lasciato il 13, ha rimesso su un po’ di peso. Sulla testa rasata le è spuntata una peluria morbida che contribuisce a nascondere qualche cicatrice. Ma se mi ruba la morfamina vuol dire che è in difficoltà.

— Hanno uno strizzacervelli che viene ogni giorno. Per aiutarmi a guarire, in teoria. Come se un tizio che ha passato la vita in questa conigliera fosse in grado di rimettermi in sesto. Un cretino totale. Mi ricorda almeno venti volte a seduta che sono assolutamente al sicuro. — Riesco a fare un sorriso. È davvero una cosa stupida da dire, soprattutto a un vincitore. Come se qualcuno, in qualche posto, avesse mai sperimentato una condizione del genere. — E tu, Ghiandaia Imitatrice? Ti senti assolutamente al sicuro?

— Oh, certo. Assolutamente, almeno finché non mi hanno sparato — dico.

— Ma per favore. Quella pallottola non ti ha neanche toccata. Ci aveva già pensato Cinna — ribatte lei.

Penso agli strati di protezione corazzati della mia tenuta da Ghiandaia Imitatrice. Ma il dolore deve essere pur venuto da qualche parte. — Costole rotte?

— Nemmeno. Un bel po’ ammaccate. L’impatto ti ha spappolato la milza. Non sono riusciti a rimetterla insieme. — Fa un cenno sbrigativo con la mano. — Su con la vita, la milza mica ti serve. E, nel caso, te ne troverebbero una, no? È dovere di tutti mantenerti in vita.

— È per questo che mi odi? — chiedo.

— In parte sì — ammette. — La gelosia c’entra di sicuro. E trovo un po’ difficile crederti. Con quella squallida commedia romantica e la sceneggiata da difensore-degli-oppressi. Solo che non è una sceneggiata, il che ti rende ancora più insopportabile. Liberissima di prenderla come un’offesa personale.

— Avresti dovuto farla tu, la Ghiandaia Imitatrice. Non ci sarebbe stato bisogno che qualcuno ti suggerisse le battute — osservo.

— Vero. Ma io non piaccio a nessuno — mi dice.

— Però hanno avuto fiducia in te. Per tirarmi fuori — le ricordo. — E ti temono.

— Su questo, ho dei dubbi. A Capitol City, sei tu l’unica di cui hanno paura, ormai. — Gale compare sulla soglia e Johanna si stacca abilmente la mia flebo di morfamina e la riattacca a me. — Tuo cugino non mi teme — dice, in tono confidenziale. Scende rapida dal mio letto e attraversa la stanza fino alla porta, dando un colpetto col fianco alla gamba di Gale mentre gli passa accanto. — Non è vero, bellissimo? — Sentiamo le sue risate mentre si dilegua lungo il corridoio.

Inarco le sopracciglia quando mi prende la mano. — Sono terrorizzato — dice, muovendo solo le labbra. Rido, ma il mio riso si trasforma subito in una smorfia di dolore. — Piano. — Mi accarezza il viso, mentre le fitte diminuiscono. — Devi smetterla di cacciarti sempre nei guai.

— Lo so. Ma qualcuno aveva fatto esplodere una montagna — rispondo.

Invece di tirarsi indietro, Gale si china ancora di più, studiando la mia espressione. — Tu mi credi senza cuore.

— So che non è così. Ma non ti dirò che mi sta bene — dico.

Adesso si ritrae, quasi con impazienza. — Katniss, sul serio, qual è la differenza tra schiacciare i nostri nemici in una miniera e abbatterli con una delle frecce di Beetee? Il risultato è lo stesso.

— Non lo so. Un motivo è che nell’8 eravamo sotto attacco. L’ospedale era sotto attacco — dico.

— Sì, e quegli aerei venivano dal Distretto 2 — replica lui. — Perciò, eliminando loro, abbiamo evitato ulteriori attacchi.

— Ma questo modo di pensare potrebbe diventare una buona ragione per uccidere chiunque in qualsiasi momento. Si potrebbe arrivare a giustificare che dei bambini vengano spediti agli Hunger Games per evitare che i distretti passino i limiti — obietto.

— Non sono convinto — mi dice.

— Io sì — ribatto. — Devono essere stati i viaggetti per l’arena che ho fatto.

— Benissimo. Tu e io sì che sappiamo come essere in disaccordo — dice. — È sempre stato così. Magari è un bene. Detto tra noi, il Distretto 2 è nostro, ormai.

— Davvero? — Per un attimo, una sensazione di trionfo divampa dentro di me. Poi penso alla gente sulla piazza. — Ci sono stati combattimenti dopo che mi hanno sparato?

— Poca roba. Quelli che venivano dall’Osso se la sono presa con i soldati di Capitol City. I ribelli sono rimasti a guardare e basta — spiega. — In effetti, tutto il Paese è rimasto a guardare.

— Be’, è quello che sa fare meglio — commento.

Si penserebbe che perdere un organo importante ti dia il diritto di startene a oziare per qualche settimana, ma per qualche ragione i medici mi vogliono in piedi e in movimento quasi subito. Anche con la morfamina, nei primi giorni il dolore interno è molto forte, ma poi diminuisce notevolmente. L’indolenzimento delle costole ammaccate, invece, promette di resistere per un po’. Comincio a essere infastidita dal continuo attingere di Johanna alle mie scorte di morfamina, ma le permetto ancora di fare tutto quello che vuole.

Le voci sulla mia morte continuano a impazzare, così mandano la troupe a riprendermi nel mio letto d’ospedale. Mostro i punti e i miei lividi impressionanti e mi congratulo con i distretti per la loro vittoriosa battaglia per l’unità. Poi avverto Capitol City che ci rivedremo presto.

Come parte della mia riabilitazione, faccio ogni giorno brevi passeggiate in superficie. Un pomeriggio, Plutarch si unisce a me e mi aggiorna sulla situazione attuale. Ora che anche il Distretto 2 è nostro alleato, gli insorti si stanno prendendo una pausa per serrare di nuovo le fila. Consolidano i canali di rifornimento, si occupano dei feriti, riorganizzano le loro truppe. Capitol City, come il Distretto 13 nei Giorni Bui, si ritrova completamente tagliata fuori da qualsiasi aiuto esterno, pur tenendo sospesa sulla testa dei suoi nemici la minaccia di un attacco nucleare. A differenza del 13, però, Capitol City non è nella posizione di reinventare se stessa e diventare autosufficiente.

— Oh, la città potrebbe anche tirare avanti per un po’ — dice Plutarch. — Ci sono sicuramente delle scorte di emergenza. Ma la differenza più significativa tra il 13 e Capitol City sta nelle aspettative della plebe. La gente del 13 era abituata alle privazioni, mentre gli abitanti di Capitol City non conoscono altro che Panem et Circenses.

— Sarebbe a dire? — Capisco Panem, naturalmente, ma il resto non ha senso.

— È una massima che risale a migliaia di anni fa, scritta in una lingua che si chiamava latino dalle parti di un posto chiamato Roma — spiega. — Panem et Circenses si traduce “Pane e divertimenti”. L’autore diceva che, in cambio di pancia piena e spettacoli, il popolo aveva rinunciato alle proprie responsabilità politiche e, di conseguenza, al suo potere.

Penso a Capitol City. Alla sovrabbondanza di cibo. E allo spettacolo degli spettacoli. Gli Hunger Games. — Quindi è a questo che servono i distretti. A fornire pane e divertimenti.

— Sì. E fintanto che pane e divertimenti continuavano ad arrivare, Capitol City ha potuto controllare il suo piccolo impero. Adesso non è in grado di procurare né l’uno né gli altri, quantomeno non ai livelli cui sono abituati i suoi abitanti — dice Plutarch. — Noi abbiamo il cibo e io sono sul punto di organizzare un pass-pro-spettacolo che è destinato a essere un successo. Tutti adorano i matrimoni, in fondo.

Mi blocco di colpo, nauseata all’idea di ciò che sta suggerendo. All’idea che stia in qualche modo orchestrando una sorta di assurdo matrimonio tra me e Peeta. Da quando sono tornata, non sono più stata capace di mettermi davanti a quello specchio unidirezionale e, su mia stessa richiesta, ricevo aggiornamenti sulle condizioni di Peeta solo da Haymitch. Che parla pochissimo. Si stanno sperimentando le più svariate tecniche. In realtà, non troveranno mai un modo per guarire Peeta. E adesso vogliono che lo sposi per un pass-pro?

Plutarch si affretta a rassicurarmi. — Oh no, Katniss. Non il tuo matrimonio. Quello di Finnick e Annie. Tu devi soltanto fare atto di presenza e fingere di essere felice per loro.

— Quella è una delle poche cose che non dovrò fingere, Plutarch — gli dico.

I giorni successivi fervono di animazione mentre l’evento viene pianificato. La circostanza mette a nudo tutte le differenze esistenti tra Capitol City e il Distretto 13. Quando la Coin dice “matrimonio”, intende due persone che firmano un pezzo di carta e ricevono una nuova unità abitativa. Plutarch, invece, intende una festa di tre giorni a cui partecipano centinaia di persone tutte in ghingheri. È divertente starli a guardare mentre mercanteggiano sui dettagli. Plutarch deve combattere per ogni invitato, per ogni nota musicale. Dopo essersi visto porre il veto dalla Coin a cena, spettacoli e alcolici, Plutarch strilla: — Allora a cosa serve il pass-pro se nessuno si diverte?

È difficile imporre un budget a uno stratega. Ma anche una festicciola tranquilla fa scalpore, nel 13, dove sembra che le vacanze non esistano proprio. Quando viene annunciato che servono dei bambini per cantare la canzone nuziale del Distretto 4, i ragazzini si presentano praticamente tutti. Non c’è penuria di volontari per aiutare a realizzare le decorazioni. Nel refettorio, la gente chiacchiera eccitata dell’avvenimento.

Forse non sono solo i festeggiamenti. Forse abbiamo tutti una tale voglia che accada qualcosa di bello che vogliamo assolutamente farne parte. Questo spiegherebbe perché – quando Plutarch è preso da convulsioni per ciò che indosserà la sposa – mi offro volontaria per portare Annie a casa mia, nel 12, dove Cinna ha lasciato un assortimento di vestiti da sera in un grande armadio a pianterreno. Tutti gli abiti da sposa che aveva disegnato per me sono tornati a Capitol City, ma ci sono alcuni vestiti che ho indossato durante il Tour della Vittoria. Stare con Annie mi rende un po’ diffidente, dal momento che in realtà di lei so soltanto che Finnick la ama e che tutti la credono pazza. Mentre siamo in volo con l’hovercraft, però, concludo che, più che pazza, Annie è instabile. Ride in momenti strani della conversazione o se ne estrania con aria assente. Quegli occhi verdi si fissano su un punto con una tale intensità che ti ritrovi a cercare di capire cosa veda nel vuoto. A volte, senza alcun motivo, si preme le mani sulle orecchie come per tenere fuori un suono che le provoca dolore. È strana, d’accordo, ma se Finnick la ama, per me va bene così.

Ottengo il permesso di far venire il mio staff di preparatori, il che mi evita di dover prendere decisioni che riguardano la moda. Quando apro l’armadio, ci facciamo tutti silenziosi perché in quella cascata di tessuti avvertiamo fortissima la presenza di Cinna. Poi Octavia cade in ginocchio, si strofina l’orlo di una gonna sulla guancia e scoppia in lacrime. — È passato così tanto tempo da quando ho visto qualcosa di carino — ansima.

Benché fino all’ultimo la Coin lo ritenga troppo stravagante e Plutarch troppo tetro, il matrimonio è un successone. I trecento fortunati prescelti del Distretto 13 e i molti rifugiati indossano i vestiti di tutti i giorni, le decorazioni sono fatte con fogliame autunnale, la musica viene da un coro di bambini accompagnato dal solo violinista che sia riuscito a fuggire dal 12 portando con sé il suo strumento. È tutto molto semplice, addirittura frugale per gli standard di Capitol City, ma non importa, perché niente può competere con la bellezza degli sposi. E non è questione dello sfarzoso abbigliamento preso a prestito, anche se i vestiti sono sensazionali: Annie porta un abito di seta verde che io indossai nel Distretto 5, Finnick uno dei completi di Peeta, ritoccato per l’occasione. C’è forse qualcuno che riesce a guardare oltre i volti radiosi di due persone per le quali quella giornata è stata, un tempo, praticamente insostenibile? Dalton, il tipo del bestiame che viene dal 10, officia la cerimonia, dato che somiglia a quella che si usava dalle sue parti. Ma ci sono tocchi ineguagliabili da Distretto 4: una rete di lunghi fili d’erba intrecciati che copre la coppia durante i voti, lo sfiorare l’uno le labbra dell’altra con acqua salata, e l’antica canzone nuziale, che paragona il matrimonio a un viaggio per mare.

No, non ho bisogno di fingere di essere felice per loro.

Dopo il bacio che sigilla l’unione, gli evviva e un brindisi con sidro di mele, il violinista attacca un motivo che fa girare ogni testa proveniente dal 12. Saremo anche stati il distretto più piccolo e più povero di Panem, però sappiamo come si balla. Non c’è una programmazione ufficiale, a questo punto, ma Plutarch, che sta annunciando il pass-pro dalla sala di regia, deve avere le dita incrociate. Com’era prevedibile, Sae la Zozza prende Gale per mano, lo trascina al centro della pista e si mette di fronte a lui. Arrivano in molti per unirsi a loro, formando due lunghe file. E la danza comincia.

Sono lì accanto e batto le mani a tempo, quando delle dita ossute mi afferrano dolorosamente sopra il gomito. Johanna mi guarda male. — Vuoi perderti l’occasione di far vedere a Snow che balli? — Ha ragione. Cosa canterebbe vittoria più di un’allegra Ghiandaia Imitatrice che piroetta qua e là a tempo di musica? Trovo Prim tra la folla. Con tutto il tempo che le serate invernali ci hanno lasciato per esercitarci, in effetti siamo diventate ballerine piuttosto brave. Ignoro le sue preoccupazioni per le mie costole e prendiamo posto nella fila. Fa male, ma la soddisfazione di farmi vedere da Snow mentre ballo con la mia sorellina polverizza ogni altra sensazione.

La danza ci trasforma. Insegniamo i passi agli invitati del Distretto 13. Pretendiamo un brano speciale per la sposa e lo sposo. Ci prendiamo per mano e formiamo un gigantesco cerchio che gira in tondo nel quale ognuno mette in mostra il suo gioco di gambe. Era tanto che non succedeva niente di frivolo, allegro o divertente. E potrebbe andare avanti tutta la notte, se non fosse per l’ultimo evento programmato da Plutarch per il pass-pro. Qualcosa di cui non sapevo niente, ma che del resto doveva essere una sorpresa.

Quattro persone fanno uscire da una stanza laterale un’enorme torta nuziale. La maggior parte degli ospiti indietreggia per lasciar passare quella rarità, quell’abbagliante creazione con una glassa di onde verdi-azzurre sormontate di bianco, fra le quali si affollano pesci e barche a vela, foche e fiori marini. Ma io mi apro un varco tra la folla per avere la conferma di ciò che sapevo sin dalla prima occhiata: come è certo che i punti del ricamo sull’abito di Annie sono stati fatti dalle mani di Cinna, è altrettanto certo che i fiori glassati sulla torta sono stati fatti da quelle di Peeta.

Può anche sembrare una sciocchezza, ma la dice lunga. Haymitch continua a nascondermi un bel po’ di dettagli. Il ragazzo che ho visto l’ultima volta mentre urlava a più non posso cercando di liberarsi a forza dalle cinghie di contenimento non avrebbe mai potuto fare questo. Non avrebbe mai avuto concentrazione sufficiente né mani abbastanza ferme per disegnare qualcosa di così perfetto per Finnick e Annie. Come se prevedesse la mia reazione, Haymitch è al mio fianco.

— Facciamoci due chiacchiere — dice.

Una volta uscita in corridoio, lontano dalle telecamere, chiedo: — Cosa gli sta succedendo?

Haymitch scuote la testa. — Non lo so. Nessuno di noi lo sa. A volte è quasi razionale, poi, senza un motivo, torna a esplodere. Fare la torta è stato una specie di terapia. Ci ha lavorato per giorni. Lo guardavo… sembrava quasi lo stesso di prima.

— E adesso è autorizzato ad andare dove gli pare? — chiedo. L’idea mi rende nervosa ad almeno cinque livelli diversi.

— Oh, no. Ha glassato la torta sotto stretta sorveglianza. È ancora sotto chiave. Ma io ci ho parlato — dice Haymitch.

— Faccia a faccia? — chiedo. — E non ha dato di matto?

— No. Era molto arrabbiato con me, ma per ragioni tutte giuste. Per non avergli detto del complotto dei ribelli e altre bazzecole del genere. — Haymitch esita un attimo, come se stesse decidendo qualcosa. — Dice che gli piacerebbe vederti.

Sono su una barca a vela di glassa, sballottata da onde verdi-azzurre, con il ponte che ondeggia sotto i miei piedi. I palmi delle mie mani si conficcano nella parete per tenermi in equilibrio. Questo non faceva parte del piano. Avevo rinunciato a Peeta nel Distretto 2. Poi sarei andata a Capitol City, avrei ucciso Snow e mi sarei fatta eliminare io stessa. La pallottola che mi aveva colpito era solo un contrattempo. Non avrei mai dovuto sentire le parole “Dice che gli piacerebbe vederti”. Ma adesso che le ho sentite, non ho modo di rifiutarmi.

A mezzanotte, sono fuori dalla porta della sua cella. Una stanza d’ospedale. Dobbiamo aspettare che Plutarch finisca di montare il filmato del matrimonio, del quale è più che soddisfatto, nonostante la mancanza di quello che lui definisce ostentato esibizionismo. — Il bello del fatto che Capitol City abbia sostanzialmente ignorato il Distretto 12 per tutti questi anni è che tutti voi avete ancora un po’ di spontaneità. Il pubblico ne va matto. Come quando Peeta annunciò di essere innamorato di te o quando tu facesti il giochetto delle bacche. È audience assicurata.

Vorrei poter incontrare Peeta in privato. Ma il solito pubblico di medici si è già raccolto dietro il vetro a specchio, penne e blocchi per appunti pronti per l’uso. Quando Haymitch mi dà il via nell’auricolare, apro lentamente la porta.

Subito quegli occhi azzurri si fissano su di me. Peeta ha tre cinghie di contenimento per braccio e un tubicino che può somministrargli un sedativo nel caso perda il controllo. Non lotta per liberarsi, però, mi osserva soltanto con lo sguardo diffidente di uno che non ha ancora escluso la possibilità di trovarsi in presenza di un mutante. Mi avvicino finché non arrivo a circa un metro dal letto. Non ho niente da fare con le mani, perciò incrocio protettiva le braccia sulle costole prima di parlare. — Ciao.

— Ciao — risponde lui. Somiglia alla sua voce, è quasi la sua voce, tranne per il fatto che ha dentro qualcosa di nuovo. Una punta di sospetto e di rimprovero.

— Haymitch ha detto che volevi parlarmi — dico.

— Guardarti, per cominciare. — Sembra si aspetti che mi trasformi in un ibrido di lupo, schiumante di bava, proprio davanti ai suoi occhi. Mi fissa così a lungo che mi ritrovo a gettare occhiate furtive allo specchio e a sperare in qualche indicazione da parte di Haymitch, ma il mio auricolare rimane silenzioso. — Non sei molto alta, vero? O particolarmente carina.

So che ha toccato il fondo dell’inferno e ritorno, eppure, per qualche motivo, quell’osservazione mi prende per il verso sbagliato. — Be’, anche tu hai avuto un aspetto migliore.

Il consiglio di Haymitch di fare marcia indietro viene attutito dalla risata di Peeta. — E neanche lontanamente gentile, a dirmi una cosa del genere dopo quello che ho passato.

— Già. Tutti noi ne abbiamo passate di cotte e di crude. E sei tu quello che era famoso per essere gentile. Non io. — Sto sbagliando tutto. Non so perché mi sento tanto diffidente. È stato torturato! È stato depistato! Cos’ho che non va? Di colpo, penso che potrei mettermi a urlare contro di lui, non so nemmeno per cosa, perciò decido di andarmene di lì. — Senti, non mi sento troppo bene. Magari passo domani.

Ho appena raggiunto la porta quando la sua voce mi ferma. — Katniss, mi ricordo del pane.

Il pane. L’unico momento che ci ha davvero uniti prima degli Hunger Games.

— Ti hanno mostrato il nastro in cui ne parlo — dico.

— No. C’è un nastro in cui ne parli? E perché Capitol City non l’ha usato contro di me? — chiede.

— Mi hanno ripreso il giorno in cui sei stato liberato — rispondo. Il dolore che ho nel petto mi avvolge le costole come una morsa. Ballare è stato un errore. — Cosa ricordi, allora?

— Te. Sotto la pioggia — dice in tono sommesso. — Che frughi nei nostri bidoni dell’immondizia. Io che brucio il pane. Mia madre che mi picchia. Io che porto fuori il pane per il maiale e invece lo do a te.

— Esatto. È proprio quello che è successo — dico. — Il giorno seguente, dopo la scuola, volevo ringraziarti. Ma non sapevo come.

— Eravamo fuori, a fine giornata. Ho cercato di attirare la tua attenzione, ma hai distolto lo sguardo. E poi… per qualche motivo, credo che tu abbia raccolto un dente di leone. — Annuisco. Se lo ricorda davvero. Io non ho mai parlato di quel momento. — Devo averti amata molto.

— È vero. — La mia voce si spezza e fingo di tossire.

— E tu mi amavi? — chiede.

Tengo gli occhi sulle piastrelle del pavimento. — Tutti dicono di sì. Tutti dicono che è per questo che Snow ti ha fatto torturare. Per spezzare me.

— Questa non è una risposta — replica lui. — Non so cosa pensare quando mi fanno vedere certi nastri. Come quella prima volta nell’arena, sembrava che cercassi di uccidermi con quegli aghi inseguitori.

— Stavo cercando di uccidere tutti voi — dico. — Mi avevate bloccata su un albero.

— E dopo, c’è una gran quantità di baci. Non sembravano molto sinceri da parte tua. Ti piaceva baciarmi? — chiede.

— A volte — confesso. — Lo sai che c’è gente che ci sta guardando, in questo momento?

— Lo so. E Gale? — continua.

La mia rabbia sta tornando. Non me ne frega niente della sua guarigione, questi non sono affari dei tizi che stanno dietro lo specchio. — Anche lui non bacia male — dico seccamente.

— E andava bene a tutti e due? Che tu baciassi l’altro? — chiede.

— No. Non andava bene a nessuno dei due. Ma io non vi chiedevo il permesso — rispondo.

Peeta ride di nuovo. Glaciale, sprezzante. — Be’, sei una bella stronza, non ti pare?

Haymitch non protesta quando me ne vado. Cammino lungo il corridoio. Attraverso l’alveare delle unità abitative. Trovo in una lavanderia una tubatura calda dietro cui nascondermi. Ci metto parecchio prima di capire perché sono tanto indispettita. E, quando ci arrivo, ammetterlo è quasi troppo umiliante. Tutti quei mesi in cui ho dato per scontato che Peeta mi considerasse meravigliosa sono finiti. Adesso mi vede per quello che sono realmente. Violenta. Sospettosa. Manipolatrice. Letale.

E lo odio per questo.