L’hovercraft compie una veloce discesa a spirale su una larga strada alla periferia del Distretto 8. Quasi all’istante, il portello si apre, la scaletta scende e noi veniamo letteralmente sputati sull’asfalto. Nell’attimo stesso in cui sbarca l’ultima persona, il congegno rientra. Poi il velivolo decolla e scompare. Sono rimasta con una scorta composta da Gale, Boggs e altri due soldati. La troupe, invece, comprende un paio di massicci operatori di Capitol City che portano pesanti telecamere mobili che somigliano a gusci di coleotteri, un direttore di nome Cressida, che ha la testa rasata e tatuata a rampicanti verdi, più il suo assistente Messalla, un giovane magro con un bel po’ di orecchini. Osservandolo con attenzione, vedo che ha un piercing anche sulla lingua, una borchia con una pallina d’argento delle dimensioni di una biglia.

Boggs ci spinge via dalla strada e verso una fila di magazzini mentre arriva e atterra un secondo hovercraft. Questo porta casse di forniture mediche e un’équipe di sei dottori; lo capisco dalla loro caratteristica tenuta bianca. Tutti quanti seguiamo Boggs lungo un vicolo che passa tra due magazzini di un grigio smorto. Il metallo butterato delle pareti è interrotto di tanto in tanto dai pioli di una scala che permette di accedere al tetto. Quando sbuchiamo sulla strada, è come se fossimo entrati in un altro mondo.

Stanno radunando i feriti del bombardamento di questa mattina, con barelle di fortuna, carretti, portandoli a spalla, stringendoli tra le braccia. Sanguinanti, mutilati, incoscienti. Sospinti da gente disperata fino a un magazzino che ha una croce dipinta alla meglio sopra la porta. È una scena che viene dritta dalla mia vecchia cucina, dove mia madre assisteva i feriti gravi, ma moltiplicata per dieci, per cinquanta, per cento. Mi ero aspettata edifici distrutti dai bombardamenti, e invece mi ritrovo faccia a faccia con quei corpi straziati.

È qui che hanno in mente di riprendermi? Mi rivolgo a Boggs. — Non funzionerà — dico. — La mia presenza qui non serve a nessuno.

Deve vedere il panico nei miei occhi, perché si ferma un momento e mi mette le mani sulle spalle. — Sì, invece. Lascia solo che ti vedano. Li aiuterà più di quanto possa fare qualsiasi dottore.

Una donna che smista i pazienti in arrivo ci scorge, ha una specie di reazione a scoppio ritardato, poi si dirige a grandi passi verso di noi. I suoi occhi di un marrone scuro sono gonfi di fatica e lei odora di metallo e sudore. Ha una fasciatura intorno alla gola che doveva essere cambiata almeno tre giorni fa. La tracolla dell’arma automatica che porta appesa alla schiena le pizzica il collo, perciò muove la spalla per rimetterla in posizione. Con un brusco cenno del pollice, ordina ai medici di entrare nel magazzino. Loro eseguono senza fare domande.

— Questa è la Comandante Paylor, del Distretto 8 — dice Boggs. — Comandante, il soldato Katniss Everdeen.

Sembra giovane per essere già comandante. Poco più che trentenne. Ma nella sua voce c’è un tono di autorità che fa capire che la sua nomina non è stata casuale. Accanto a lei, nella mia tenuta nuova di zecca, lustra e pulita, mi sento come un pulcino appena uscito dal guscio, una novellina che sta imparando giusto adesso a destreggiarsi nel mondo.

— Sì, so chi è — dice la Paylor. — Sei viva, allora. Non ne eravamo sicuri. — Sbaglio o c’è una nota di accusa nella sua voce?

— Non ne sono ancora sicura nemmeno io — rispondo.

— È stata in convalescenza. — Boggs si dà qualche colpetto sulla testa. — Una brutta commozione cerebrale. — Abbassa la voce un istante. — Ha avuto un aborto spontaneo. Ma ha insistito per venire a trovare i vostri feriti.

— Be’, di quelli ne abbiamo in abbondanza — dice la Paylor.

— Crede sia una buona idea? — chiede Gale, guardando accigliato l’ospedale. — Riunire i vostri feriti così?

Io non lo credo. In un posto del genere, qualunque malattia contagiosa si diffonderebbe in un baleno.

— Credo sia un tantino meglio che lasciarli morire — dice la Paylor.

— Non è questo che intendevo — le dice Gale.

— Be’, al momento questa è la mia seconda alternativa. Ma se ne trovate una terza e convincete la Coin a sostenerla, sono tutta orecchie. — La Paylor mi indica la porta. — Entra pure, Ghiandaia Imitatrice. E porta i tuoi amici con te, naturalmente.

Mi volto a guardare lo stravagante spettacolo che è la mia troupe, mi faccio forza e la seguo nell’ospedale. Una specie di pesante tenda industriale pende per tutta la lunghezza dell’edificio, formando un corridoio piuttosto grande. I cadaveri giacciono fianco a fianco, le teste sfiorate dalla tenda, i volti nascosti da panni bianchi. — Abbiamo scavato una fossa comune, qualche isolato a ovest da qui, ma ancora non dispongo degli uomini per spostarli — dice la Paylor. Trova una fessura nella tenda e la spalanca.

Le mie dita avvolgono il polso di Gale. — Resta al mio fianco — dico sottovoce.

— Sono qui — risponde lui in tono sommesso.

Oltrepasso la tenda e i miei sensi vengono aggrediti. Il mio primo impulso è coprirmi il naso per tenere fuori il fetore di biancheria sporca, carne in putrefazione e vomito, acuito dal calore del magazzino. Hanno aperto i lucernari che intersecano l’alto tetto di metallo, ma quel po’ d’aria che riesce a penetrare all’interno non può intaccare la nebbia sottostante. I lievi raggi di sole forniscono la sola illuminazione disponibile e, quando i miei occhi si adattano, distinguo file su file di feriti, nelle brande, sui pagliericci, sul pavimento, perché sono in tanti a contendersi lo spazio. Il ronzio delle mosche, i lamenti di quelli che soffrono e i singhiozzi dei familiari che li assistono si fondono in un coro straziante.

Nei distretti, non abbiamo veri ospedali. Moriamo a casa nostra, il che in questo momento sembra un’alternativa più attraente di quella che ho davanti. Poi ricordo che molte di queste persone forse hanno perso le loro case nei bombardamenti.

Il sudore comincia a colarmi lungo la schiena, mi invade i palmi delle mani. Respiro dalla bocca, nel tentativo di ridurre il tanfo. Fluttuanti macchie nere mi attraversano il campo visivo e penso di avere forti probabilità di svenire da un momento all’altro. Poi scorgo la Paylor. Mi osserva da vicino, aspettando di vedere di che pasta sono fatta, di capire se quelli tra loro che hanno deciso di poter contare su di me avevano ragione. Così lascio andare Gale e mi costringo ad avanzare ulteriormente nel magazzino, a camminare nella stretta striscia tra due file di letti.

— Katniss? — una voce si leva gracidante alla mia sinistra, aprendosi un varco nel caos generale. — Katniss? — Una mano si tende verso di me attraverso la foschia. Mi ci aggrappo per sostenermi. È la mano di una giovane donna con una gamba ferita. Il sangue è filtrato da spesse fasciature coperte di mosche. Il suo volto riflette il dolore che prova, ma anche qualcos’altro, qualcosa che sembra del tutto inadatto alla sua situazione. — Sei davvero tu?

— Sì, sono io — mi esce.

Gioia. È quella l’espressione del suo viso. Al suono della mia voce, i suoi lineamenti si illuminano, cancellano per un attimo la sofferenza.

— Sei viva! Non lo sapevamo. La gente lo diceva, ma noi non lo sapevamo! — dice in tono eccitato.

— Ero conciata piuttosto male. Ma mi sono ristabilita — dico. — Proprio come farai tu.

— Devo dirlo a mio fratello! — La donna lotta per mettersi seduta e chiama qualcuno, alcuni letti più giù. — Eddy! Eddy! È qui! C’è Katniss Everdeen!

Un ragazzo sui dodici anni si gira verso di noi. Le fasciature gli coprono metà della faccia. Il lato della bocca che riesco a vedere si apre come per lanciare un’esclamazione. Vado da lui, gli scosto i fradici riccioli castani dalla fronte. Mormoro un saluto. Non può parlare, ma il suo occhio sano si fissa su di me con enorme intensità, come se cercasse di memorizzare ogni dettaglio del mio viso.

Sento il mio nome ripercuotersi a ondate attraverso l’aria bollente, diffondersi in tutto l’ospedale. — Katniss! Katniss Everdeen! — I rumori del dolore e del lutto si vanno attenuando, sostituiti da espressioni di trepidazione. Da ogni parte, si levano voci che mi chiamano. Comincio a spostarmi, afferro le mani tese verso di me, tocco le parti sane di chi non è in grado di muovere gambe e braccia, dico “salve”, “come stai”, “è bello conoscerti”. Niente di che, nessun discorso di incoraggiamento a effetto. Ma non importa. Boggs ha ragione. Sta nel vedermi viva, l’incoraggiamento.

Dita fameliche mi divorano, cercano il contatto con la mia carne. Quando un uomo ferito mi prende il viso tra le mani, rivolgo un silenzioso ringraziamento a Dalton per avermi suggerito di togliere il trucco. Che assurdità, che cattiveria sarebbe, se mostrassi a queste persone la maschera dipinta di Capitol City. Le ferite, la stanchezza, le imperfezioni. Ecco come mi riconoscono, ecco perché sono una di loro.

Malgrado la sua controversa intervista con Caesar, molti chiedono di Peeta, mi assicurano di sapere che parlava sotto costrizione. Faccio del mio meglio per sembrare ottimista riguardo al nostro futuro, ma sono davvero distrutti nell’apprendere che ho perso il bambino. Vorrei confessare ogni cosa e dire a una donna in lacrime che è stato tutto un imbroglio, una mossa strategica, ma se adesso dipingessi Peeta come un bugiardo non sarei d’aiuto alla sua immagine. O alla mia. O alla causa.

Comincio a comprendere appieno sino a che punto si è spinta la gente per proteggermi. Ciò che significo per i ribelli. La lotta che tuttora conduco contro Capitol City, e che tanto spesso mi è parsa un viaggio solitario, non l’ho intrapresa da sola. Ho avuto migliaia e migliaia di abitanti dei distretti al mio fianco. Ero la loro Ghiandaia Imitatrice molto prima di accettare quel ruolo.

Una nuova sensazione comincia a germogliare dentro di me. Ma non arrivo a definirla finché non mi ritrovo in piedi su un tavolo ad agitare le mani in un ultimo saluto verso la roca litania del mio nome. Potere. Dispongo di un tipo di potere che non ho mai saputo di possedere. Snow lo sapeva, l’ha capito non appena ho tirato fuori quelle bacche. Plutarch lo sapeva, quando mi ha salvato dall’arena. E lo sa la Coin. Al punto da dover ricordare pubblicamente alla sua gente che non sono io a comandare.

Quando siamo di nuovo fuori, mi appoggio al magazzino per riprendere fiato e accetto la borraccia d’acqua offerta da Boggs. — Sei andata alla grande — dice.

Be’, non sono svenuta, non ho vomitato né sono scappata fuori urlando. Per la maggior parte del tempo, mi sono limitata a cavalcare l’onda emotiva che attraversava il posto.

— Noi ci siamo procurati del buon materiale, là dentro — dice Cressida. Guardo i cameramen-coleotteri, il sudore che cola da sotto la loro attrezzatura. Messalla che scribacchia appunti. Avevo scordato che mi stavano riprendendo.

— Non ho fatto molto, in realtà — dico.

— Devi riconoscerti un po’ di merito per ciò che hai fatto in passato — ribatte Boggs.

Ciò che ho fatto in passato? Penso alla scia di distruzione che ho portato con me… le mie ginocchia cedono e scivolo a sedere. — Nel bene e nel male.

— Be’, perfetta non lo sei di sicuro. Visti i tempi che corrono, però, dovrai andarci bene — dice Boggs.

Gale si accovaccia vicino a me, scuotendo la testa. — Non riesco a credere che ti sia lasciata toccare da tutta quella gente. Mi aspettavo che te la saresti data a gambe da un momento all’altro.

— Chiudi il becco — dico con una risata.

— Tua madre sarà molto fiera di te quando vedrà il filmato.

— Mia madre non si accorgerà neppure di me. Sarà troppo sconvolta per la situazione di qui. — Mi giro verso Boggs e chiedo: — È così in ogni distretto?

— Sì. Sono quasi tutti sotto attacco. Stiamo cercando di portare soccorso ovunque possiamo, ma non basta. — Si ferma un attimo, distratto da qualcosa nel suo auricolare. Mi rendo conto di non aver sentito la voce di Haymitch nemmeno una volta, e armeggio con il mio, chiedendomi se non sia rotto. — Dobbiamo andare alla pista. Subito — dice Boggs, facendomi alzare in piedi con una mano. — C’è un problema.

— Che genere di problema? — chiede Gale.

— Bombardieri in arrivo — risponde Boggs. Allunga una mano dietro il mio collo e, con uno strattone, mi tira l’elmetto di Cinna sulla testa. — Muoviamoci!

Incerta su cosa stia accadendo, filo via di corsa lungo la facciata del magazzino, diretta al vicolo che porta alla pista. Ma non percepisco minacce immediate. Il cielo è vuoto, azzurro e senza nuvole. La strada è sgombra, se si eccettuano le persone che trasportano i feriti verso l’ospedale. Nessun nemico, nessuna agitazione. Poi le sirene attaccano a urlare. Nel giro di qualche secondo, uno stormo di aerei di Capitol City in formazione a V compare a volo radente sopra le nostre teste, e le bombe cominciano a cadere. Vengo scagliata contro la parete anteriore del magazzino. Sento un dolore lancinante appena sopra la piega del ginocchio destro. Qualcosa mi ha colpito anche la schiena, ma non sembra aver penetrato il giubbotto antiproiettile. Cerco di alzarmi, ma Boggs mi spinge di nuovo giù, facendomi scudo con il suo corpo. Il terreno ondeggia sotto di me, mentre le bombe, una dopo l’altra, cadono dagli aerei ed esplodono.

È una sensazione spaventosa essere inchiodati contro un muro sotto una pioggia di bombe. Qual era l’espressione che usava mio padre per le prede facili? Come pescare pesci in un barile. Noi siamo i pesci, la strada il barile.

— Katniss! — La voce di Haymitch nel mio orecchio mi fa sussultare.

— Cosa? Sì, cosa? Ci sono! — rispondo.

— Ascoltami. Non possiamo atterrare durante il bombardamento, ma è essenziale che tu non venga individuata — dice.

— Allora non sanno che sono qui? — Davo per scontato che la punizione derivasse dalla mia presenza, come al solito.

— I servizi segreti credono di no. Pensano che questa incursione fosse già in programma — dice Haymitch.

Spunta la voce di Plutarch, tranquilla ma decisa. La voce di un Capo Stratega abituato a comandare sotto pressione. — C’è un magazzino azzurro a tre edifici da te. Ha un rifugio, nell’angolo all’estremo nord. Sei in grado di arrivarci?

— Faremo del nostro meglio — dice Boggs. La voce di Plutarch deve essere nell’orecchio di tutti, perché le mie guardie del corpo e la troupe si stanno alzando. Lo sguardo mi corre istintivamente a Gale e vedo che è in piedi, all’apparenza illeso.

— Avete circa quarantacinque secondi fino all’arrivo della prossima ondata — dice Plutarch.

Emetto un grugnito di dolore quando la mia gamba destra sente il peso del mio corpo, ma continuo a muovermi. Non c’è tempo per esaminare la ferita. E comunque, è meglio che adesso non la guardi. Per fortuna porto le scarpe disegnate da Cinna. Aderiscono all’asfalto quando lo toccano e scattano come molle quando se ne allontanano. Non avrei nessuna speranza con lo scomodo paio che mi aveva assegnato il 13. Boggs è davanti a tutti, ma nessun altro mi sorpassa. Anzi, gli altri tengono la mia stessa andatura, proteggendomi i fianchi, la schiena. Mi sforzo di correre veloce mentre i secondi scorrono. Superiamo il secondo magazzino grigio e corriamo lungo un edificio di un marrone sporco. Più avanti, di fronte a me, vedo una facciata azzurra scolorita. Il posto del rifugio. Abbiamo appena raggiunto un altro vicolo, dobbiamo solo attraversarlo per arrivare alla porta, quando inizia la seconda ondata di bombe. Mi tuffo d’istinto nel vicolo e rotolo verso la parete azzurra. Stavolta è Gale che si lancia su di me per farmi da strato di protezione aggiuntivo contro il bombardamento. Questo round sembra andare avanti più a lungo, ma noi siamo molto più lontani.

Mi giro sul fianco e mi ritrovo a guardare Gale dritto negli occhi. Per un attimo, il mondo svanisce e rimangono solo il suo viso arrossato, il visibile pulsare della sua tempia, le sue labbra un po’ socchiuse mentre cerca di riprendere fiato.

— Stai bene? — chiede, le parole quasi soffocate da un’esplosione.

— Sì. Non credo che mi abbiano visto — rispondo. — Voglio dire, non ci stanno seguendo.

— No, hanno mirato a qualcos’altro — dice Gale.

— Lo so, ma là non c’è niente, tranne… — Ce ne rendiamo conto di colpo, nello stesso momento.

— L’ospedale. — In un attimo, Gale è in piedi e urla agli altri. — Mirano all’ospedale!

— Non è un problema vostro — dice Plutarch in tono deciso. — Raggiungete il rifugio.

— Ma là ci sono solo i feriti! — esclamo.

— Katniss. — Sento la nota di avvertimento nella voce di Haymitch e so cosa sta per succedere. — Non pensarci neanche… — Con uno strattone mi libero dell’auricolare e lo lascio penzolare dal filo. Senza quell’interferenza, percepisco un altro suono. I colpi di una mitragliatrice che vengono dal tetto del magazzino marrone sporco, dall’altra parte del vicolo. Qualcuno sta rispondendo al fuoco. Prima che possano fermarmi, corro verso la scala di accesso e comincio a salire. Arrampicarsi. Una delle cose che so fare meglio.

— Non fermarti! — sento dire a Gale, dietro di me. Poi si sente il rumore del suo stivale sulla faccia di qualcuno. Se quella faccia appartiene a Boggs, più tardi Gale la pagherà cara. Raggiungo il tetto e mi trascino sul rivestimento incatramato. Sosto il tempo necessario per tirare Gale accanto a me, poi partiamo tutti e due verso le postazioni di mitragliatrici allineate lungo la strada, sul magazzino, ciascuna tenuta da alcuni uomini. Scivoliamo dentro una di esse, accanto a un paio di soldati, e ci rannicchiamo dietro la barriera di protezione.

— Boggs sa che siete quassù? — Alla mia sinistra, a una delle mitragliatrici, vedo la Paylor che ci guarda con aria interrogativa.

Tento di essere evasiva senza mentire del tutto. — Sa dove siamo, certo.

La Paylor ride. — Ci scommetto. Siete stati addestrati a usare queste? — Dà una pacca sul calcio della mitragliatrice.

— Io sì. Nel Distretto 13 — dice Gale. — Ma preferisco usare le mie armi.

— Sì, abbiamo i nostri archi. — Sollevo il mio, e a quel punto mi rendo conto che deve dare l’impressione di essere solo decorativo. — È più letale di quanto sembri.

— Così dovrebbe — dice la Paylor. — Bene. Ci aspettiamo almeno altre tre ondate. Devono abbassare gli schermi che li rendono invisibili, prima di sganciare le bombe. Quella è la nostra occasione. State bassi! — Mi sistemo per poter tirare con un ginocchio a terra.

— Meglio che cominciamo con il fuoco — dice Gale.

Annuisco ed estraggo una freccia dalla faretra di destra. Se manchiamo il bersaglio, queste frecce finiranno da qualche parte, probabilmente, sui magazzini dall’altra parte della strada. Un incendio può essere spento, ma i danni causati da un esplosivo potrebbero essere irreparabili.

Compaiono nel cielo all’improvviso, due isolati più giù, forse novanta metri sopra di noi. Sette piccoli bombardieri in formazione a V. — Oche! — urlo a Gale. Lui sa esattamente cosa intendo. Nella stagione delle migrazioni, quando andiamo a caccia di selvaggina da penna, abbiamo elaborato un metodo per dividerci gli uccelli in modo da non mirare tutti e due agli stessi bersagli. Io prendo il lato più lontano della V, Gale quello più vicino, e ci alterniamo nel tirare all’uccello di testa. Non c’è tempo per dire altro. Calcolo l’anticipo del tiro sugli apparecchi in avvicinamento e lascio partire la mia freccia. Colpisco un velivolo all’ala interna, facendogli prendere fuoco. Gale manca del tutto l’aereo di punta. Un incendio si allarga sul tetto di un magazzino vuoto di fronte a noi. Lui impreca sottovoce.

L’aereo che ho colpito esce dalla formazione ma continua a sganciare le sue bombe. Però non torna invisibile. Il danno subito deve impedire allo schermo di riattivarsi.

— Bel tiro — dice Gale.

— Non miravo nemmeno a quello — bofonchio. Avevo puntato all’apparecchio che gli stava davanti. — Sono più veloci di quello che pensiamo.

— In posizione! — grida la Paylor. La nuova ondata di velivoli sta già comparendo.

— Il fuoco è inutile — dice Gale. Annuisco e tutti e due carichiamo frecce a punta esplosiva. In ogni caso, i magazzini di fronte sembrano abbandonati.

Mentre gli aerei si avvicinano, rapidi e silenziosi, prendo un’altra decisione. — Io mi alzo! — grido a Gale, e mi rimetto in piedi. Questa è la posizione da cui posso ottenere la massima precisione. Anticipo ulteriormente il tiro e metto a segno un colpo diretto sull’aereo di punta, aprendogli un buco nella pancia con l’esplosivo. Gale fa saltare la coda di un secondo apparecchio, che si capovolge e si schianta sulla strada, innescando una serie di deflagrazioni man mano che il suo carico esplode.

Senza alcun preavviso, sbuca una terza formazione a V. Stavolta, Gale colpisce in pieno l’aereo di punta. Io strappo un’ala al secondo bombardiere, che si avvita e va a sbattere contro quello che lo segue. I due velivoli si sfracellano sul tetto del magazzino che si trova dall’altra parte rispetto all’ospedale. Un quarto precipita sotto i colpi delle mitragliatrici.

— Bene, è finita — dice la Paylor. Le fiamme e il denso fumo nero che si levano dai rottami ci oscurano la visuale. — Hanno colpito l’ospedale?

— Credo proprio di sì — risponde, cupa.

Mentre mi affretto verso le scale sull’altro lato del magazzino, rimango sorpresa alla vista di Messalla e di uno dei coleotteri che emergono da dietro un condotto dell’aria. Pensavo che fossero ancora accucciati nel vicolo.

— Mi piacciono sempre di più — commenta Gale.

Scendo una scala, aiutandomi con le braccia e le gambe. Quando il mio piede tocca terra, trovo ad attendermi una guardia del corpo, Cressida e l’altro coleottero. Prevedo che mi ostacolino, ma Cressida mi fa solo un cenno con la mano verso l’ospedale. Sta strillando: — Non mi interessa, Plutarch! Dammi solo altri cinque minuti! — Visto che nessuno si mette in mezzo, filo in strada.

— Oh, no — sussurro quando scorgo l’ospedale. Quello che una volta era l’ospedale. Supero i feriti e le carcasse in fiamme degli aerei con lo sguardo fisso sul disastro che mi sta davanti. Gente che urla, che corre frenetica di qua e di là, ma non è in grado di prestare aiuto. Le bombe hanno fatto cedere il tetto dell’ospedale e dato fuoco all’edificio, in pratica intrappolando i pazienti. Si è radunato un gruppo di soccorritori che cerca di aprirsi la strada verso l’interno. Ma io so già cosa troveranno. Se non se li sono presi il crollo e le fiamme, li ha soffocati il fumo.

Gale è al mio fianco. La sua immobilità non fa che confermare i miei sospetti. I minatori non si arrendono a un incidente, finché c’è una speranza.

— Andiamo, Katniss. Haymitch dice che adesso possono far venire un hovercraft per noi — mi sollecita. Ma io non riesco a muovermi.

— Perché l’avrebbero fatto? Che ragione avevano di prendere di mira gente che stava già morendo? — gli chiedo.

— Scoraggiare gli altri. Evitare che i feriti chiedessero aiuto — dice Gale. — Le persone che hai incontrato erano sacrificabili. Per Snow, almeno. In caso di vittoria, cosa se ne fa Capitol City di un mucchio di schiavi ammaccati?

Ricordo tutti quegli anni nei boschi, quando ascoltavo Gale inveire contro Capitol City. Senza prestargli molta attenzione. Chiedendomi perché si disturbasse tanto a sviscerarne le motivazioni. E perché pensare come il nostro nemico fosse così importante. È chiaro che oggi avrebbe potuto esserlo. Quando Gale ha sollevato dei dubbi sull’ospedale, non pensava ai contagi, ma a questo. Perché lui non sottovaluta mai la crudeltà di chi abbiamo di fronte.

Lentamente, volto le spalle all’ospedale e trovo Cressida, affiancata dai coleotteri, a un paio di metri da me. Il suo atteggiamento è calmo. Freddo, persino. — Katniss — dice — il presidente Snow ha appena fatto trasmettere il bombardamento in diretta. Poi è comparso in TV dicendo che questo era il suo modo di mandare un messaggio ai ribelli. Cosa mi dici di te? Vorresti dire qualcosa agli insorti?

— Sì — bisbiglio. La luce rossa lampeggiante su una delle telecamere attira la mia attenzione. So di essere registrata. — Sì — dico, in tono più convincente. Tutti – Gale, Cressida, i coleotteri – si allontanano da me, lasciandomi la scena. Rimango concentrata sulla luce rossa. — Voglio dire ai ribelli che sono viva. Che sono proprio qui, nel Distretto 8, dove Capitol City ha appena bombardato un ospedale pieno di uomini, donne e bambini disarmati. Non ci saranno sopravvissuti. — Lo shock che ho provato finora comincia a lasciare il posto al furore. — Voglio dire a tutti voi che siete degli illusi se credete anche solo per un istante che Capitol City ci tratterà con lealtà nel caso di un cessate il fuoco. Perché sapete chi sono e cosa fanno. — Le mie mani si allargano meccanicamente, come a mostrare tutto l’orrore che mi circonda. — Questo è ciò che fanno! E noi dobbiamo reagire!

Ora avanzo verso la telecamere, trasportata dalla mia rabbia. — Il presidente Snow dice che ci sta mandando un messaggio? Be’, io ne ho uno per lui. Potete torturarci, bombardarci, incenerire i nostri distretti, ma vedete questo? — Una delle telecamere mi segue mentre indico gli aerei che bruciano sul tetto del magazzino di fronte a noi. Il sigillo di Capitol City brilla chiaramente tra le fiamme. — Il fuoco sta divampando! — Urlo adesso, ben decisa a fare in modo che Snow non si perda una sola parola. — E se noi bruciamo, voi bruciate con noi!

Le mie ultime parole restano sospese nell’aria. Mi sento galleggiare nel tempo. Sollevata in una nuvola di calore che nasce non da ciò cha mi sta intorno, ma dal mio stesso essere.

— Stop! — La voce di Cressida mi riporta bruscamente alla realtà, spegne il mio fuoco. Mi fa un cenno di approvazione con il capo. — Questa è fatta.