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Un brivido mi pervade. Sono davvero così fredda e calcolatrice? Gale non ha detto “Tra noi due, Katniss sceglierà quello che non può abbandonare perché farlo le spezzerebbe il cuore”, o “quello di cui non potrebbe fare a meno nella sua vita”. Parole del genere avrebbero sottinteso che fossi mossa da una qualche passione. E invece il mio migliore amico prevede che sceglierò colui che ritengo “indispensabile alla mia sopravvivenza”. Niente indica che potrò essere influenzata dall’amore o dal desiderio o persino da una semplice compatibilità di carattere. Mi limiterò a condurre una gelida valutazione di ciò che il mio potenziale compagno sarà in grado di offrirmi. Come se alla fine fosse solo questione di capire chi, tra un fornaio e un cacciatore, saprà rendere più lunga la mia vita. È orribile che Gale lo dica, e che Peeta non lo contesti. Soprattutto sapendo che ogni mia emozione è stata presa e sfruttata da Capitol City o dai ribelli. La scelta sarebbe facile, adesso come adesso. Posso sopravvivere benissimo senza l’uno e senza l’altro.
La mattina, non ho né tempo né energie per covare sentimenti feriti. Ancora prima dell’alba, durante una colazione a base di paté di fegato e biscotti ai fichi, ci riuniamo intorno al televisore di Tigris per una delle intrusioni di Beetee. La guerra ha avuto nuovi sviluppi. A quanto pare, ispirati dall’onda nera, alcuni intraprendenti comandanti ribelli hanno avuto l’idea di confiscare le automobili abbandonate e di mandarle per le strade senza nessuno al volante. Le auto non innescano tutti i baccelli, ma di sicuro ne colpiscono la maggior parte. Verso le quattro del mattino, gli insorti hanno cominciato ad aprirsi tre diverse strade – che sono designate semplicemente come linee A, B e C – verso il cuore di Capitol City. E il risultato è che si sono impossessati di un isolato dopo l’altro con pochissime vittime.
— Non può durare — commenta Gale. — In effetti, mi sorprende che sia andata avanti tanto a lungo. Capitol City si adeguerà disattivando alcuni baccelli per poi innescarli manualmente quando i bersagli arrivano a tiro. — Solo qualche minuto dopo la sua previsione, è proprio ciò che vediamo avverarsi sullo schermo. Una squadra invia lungo un isolato una macchina, la quale fa scattare quattro baccelli. Tutto sembra andare bene. Tre esploratori partono e riescono ad arrivare sani e salvi in fondo alla strada. Ma il gruppo di venti soldati ribelli che li segue viene fatto a pezzi dall’esplosione di una fila di rosai in vaso davanti a un fioraio.
— Scommetto che non essere il regista di tutto questo sta uccidendo Plutarch — dice Peeta.
Beetee restituisce le trasmissioni a Capitol City e una telecronista dalla faccia torva indica gli isolati che i civili dovranno evacuare. Tra il suo aggiornamento e il servizio precedente, sono in grado di segnare le posizioni delle truppe nemiche sulla mia cartina e mostrarle agli altri.
Sento un tafferuglio in strada, mi sposto verso le finestre e sbircio da una fessura delle persiane. Nella luce del primo mattino, assisto a uno spettacolo curioso. I profughi degli isolati ormai occupati si stanno riversando nel centro di Capitol City. Quelli più in preda al panico hanno addosso solo camicie da notte e pantofole, mentre i più attrezzati sono pesantemente infagottati dentro strati di vestiti. Portano di tutto, dai cagnolini ai portagioie ai vasi di piante. Un uomo che indossa una vestaglia leggera tiene in mano soltanto una banana troppo matura. Bambini confusi e assonnati incespicano al seguito dei genitori, quasi tutti troppo scioccati o troppo perplessi per piangere.
Colgo alcuni dettagli mentre attraversano rapidi il mio campo visivo. Due grandi occhi marroni. Un braccio che stringe la bambola preferita. Un paio di piedi nudi, bluastri per il freddo, che inciampano sul lastricato irregolare del vicolo. Vederli mi ricorda i bambini del 12 che sono morti per sfuggire alle bombe incendiarie. Lascio la finestra.
Tigris si offre di farci da spia per la giornata, visto che è l’unica di noi a non avere una taglia sulla testa. Dopo averci chiusi di sotto, esce per andare in città a raccogliere ogni informazione utile.
Giù in cantina, continuo a camminare avanti e indietro, facendo diventare matti gli altri. Qualcosa mi dice che non approfittare della fiumana di rifugiati è un errore. Quale miglior copertura potremmo avere? D’altra parte, ogni sfollato che vaga per le strade rappresenta un paio d’occhi in più alla ricerca dei cinque ribelli ancora a piede libero. E però cosa ci guadagniamo a restarcene qui? In realtà non facciamo altro che esaurire la nostra piccola scorta di viveri e aspettare… cosa? Che gli insorti prendano Capitol City? Potrebbero volerci settimane, e non sono sicura di quello che farei se ci riuscissero. Di certo, non correrei a dargli il benvenuto. La Coin mi farebbe riportare nel 13 senza darmi nemmeno il tempo di dire “tic tac”. Non ho fatto tutta questa strada – e perduto tutti quei compagni – per consegnarmi mani e piedi a quella donna. Sarò io a uccidere Snow. Per di più sono tanti, troppi, gli avvenimenti di questi ultimi giorni che non mi riuscirebbe facile spiegare. E molti, se venissero alla luce, farebbero quasi certamente saltare il mio accordo sull’immunità dei vincitori. A parte me, infatti, ho la sensazione che qualcuno degli altri ne avrà bisogno. Peeta, per esempio. Un Peeta che, comunque la si giri, chiunque può vedere in video mentre lancia Mitchell nel baccello-rete. Già me lo immagino cosa farebbe il tribunale di guerra della Coin con una prova del genere.
Nel tardo pomeriggio cominciamo a preoccuparci per il prolungarsi dell’assenza di Tigris. Si finisce col parlare della possibilità che sia stata arrestata, che ci abbia denunciati di sua volontà o che sia semplicemente rimasta ferita nel mare di profughi. Verso le sei, però, la sentiamo tornare. Rumore di passi strascicati al piano di sopra, poi il pannello si apre.
Il meraviglioso profumo di carne che cuoce nell’olio si diffonde nell’aria. Tigris ci ha preparato un pasticcio di prosciutto e patate. È il primo cibo caldo che vediamo da giorni, e infatti, nell’attesa che lei mi riempia i piatti, corro il serio rischio di sbavare.
Mentre mastico, cerco di prestare attenzione a Tigris che ci spiega come si è procurata quella leccornia, ma il dettaglio più importante che assimilo è che, al momento, l’intimo di pelliccia costituisce una preziosa merce di scambio. Soprattutto per chi ha abbandonato la propria casa mezzo nudo. Molti profughi sono ancora per strada e tentano di trovare riparo per la notte. Gli abitanti dei begli appartamenti del centro non hanno spalancato le porte agli sfollati. Al contrario: quasi tutti hanno sprangato la casa, chiuso le persiane e finto di essere altrove. L’Anfiteatro cittadino è ormai zeppo di profughi, e i Pacificatori vanno di porta in porta, facendo irruzione se ci sono costretti, per assegnare ospiti.
Guardiamo in TV un laconico capo dei Pacificatori che fissa regole specifiche su quante persone per metro quadrato ciascun residente sarà tenuto ad accogliere. L’uomo ricorda agli abitanti di Capitol City che stanotte la temperatura scenderà molto al di sotto dello zero e li avverte che il presidente si aspetta da loro un’ospitalità non solo volenterosa ma entusiasta, in questo momento di crisi. Dopodiché vengono mostrate alcune riprese dall’aria decisamente fasulla, in cui cittadini preoccupati accolgono nelle loro case profughi riconoscenti. Il capo dei Pacificatori dice che il presidente stesso ha ordinato di allestire una parte della sua residenza in modo che domani possa ospitare gli sfollati. Aggiunge poi che anche i negozianti dovranno prepararsi a mettere a disposizione i loro spazi, se richiesto.
— Tigris, potrebbe toccare anche a te — dice Peeta. Mi rendo conto che ha ragione. Che persino lo stretto corridoio occupato da questo negozio potrebbe essere requisito se il numero dei profughi aumenta. A quel punto ci ritroveremmo davvero intrappolati in cantina, rischiando sempre di essere scoperti. Quanto giorni abbiamo? Uno? Forse due?
Il capo dei Pacificatori si ripresenta con altre istruzioni per la popolazione. Pare che stasera si sia verificato uno spiacevole incidente nel corso del quale la folla ha picchiato a morte un ragazzo che somigliava a Peeta. D’ora in poi, quindi, tutti gli avvistamenti dei ribelli dovranno essere immediatamente riferiti alle autorità, che provvederanno all’identificazione e all’arresto del sospettato. Fanno vedere una foto della vittima. A parte i capelli ricci palesemente ossigenati, somiglia a Peeta quanto me.
— La gente è impazzita — mormora Cressida.
Guardiamo un breve aggiornamento degli insorti e veniamo a sapere che oggi sono stati presi parecchi altri edifici. Annoto le coordinate sulla mia cartina e le studio. — La linea C è a soli quattro isolati da qui — annuncio. Per qualche ragione, questo mi colma d’ansia più dell’idea dei Pacificatori a caccia di alloggi. Divento molto servizievole. — Lavo i piatti.
— Ti do una mano. — Gale raccoglie le stoviglie.
Sento gli occhi di Peeta che ci seguono mentre usciamo dalla stanza. Nell’angusta cucina sul retro del negozio di Tigris, riempio il lavello di acqua bollente e detersivo. — Credi che sia vero? — chiedo. — Che Snow lascerà entrare dei profughi nella villa?
— Credo che sia costretto a farlo, se non altro per le telecamere — risponde Gale.
— Parto domattina — dichiaro.
— Vengo con te — dice Gale. — Cosa facciamo con gli altri?
— Pollux e Cressida potrebbero esserci utili. Sono ottime guide — osservo. Il vero problema non sono Pollux e Cressida. — Ma Peeta è troppo…
— … imprevedibile — conclude Gale. — Pensi che ci permetterà di lasciarlo indietro?
— Possiamo sempre dire che ci metterebbe in pericolo — rifletto. — Potrebbe anche rimanere qui, se saremo convincenti.
Peeta si dimostra piuttosto ragionevole riguardo alla nostra proposta. Si dichiara subito d’accordo sul fatto che la sua presenza potrebbe costituire un rischio per noi quattro. Sto già pensando che forse andrà tutto bene, che aspetterà la fine della guerra nella cantina di Tigris, quando ci comunica che lui uscirà per conto suo.
— Per fare cosa? — chiede Cressida.
— Non lo so con esattezza. L’unica cosa in cui potrei ancora esservi utile sarebbe creare un diversivo. Avete visto cos’è successo al tizio che mi somigliava — dice.
— E se… perdi il controllo? — obietto.
— Vuoi dire… se mi prende la mattana da ibrido? Be’, se la sentirò arrivare, cercherò di tornare qui — mi promette.
— E se Snow ti cattura di nuovo? — chiede Gale. — Non hai neppure un fucile.
— Dovrò semplicemente correre il rischio — dice Peeta. — Come tutti voi. — I due si scambiano una lunga occhiata, poi Gale si fruga nel taschino. Mette la sua pastiglia di morso della notte nella mano di Peeta, che la lascia sul palmo aperto, senza rifiutarla e senza accettarla. — E tu?
— Non ti preoccupare. Beetee mi ha mostrato come far detonare manualmente le mie frecce esplosive. Se dovesse andare male, ho il mio coltello. E avrò Katniss — dice Gale con un sorriso. — Non gli lascerà la soddisfazione di prendermi vivo.
Il pensiero dei Pacificatori che trascinano via Gale fa ripartire il motivo che mi echeggia in testa…
Verrai, verrai
all’albero verrai
— Prendila, Peeta — dico, con voce tesa. Allungo la mano e gli chiudo le dita sulla pillola. — Non ci sarà nessuno ad aiutarti.
Trascorriamo una notte agitata, svegliati l’uno dagli incubi dell’altro, con i piani del giorno dopo che ci ronzano nella mente. Sono sollevata quando arrivano le cinque del mattino e possiamo finalmente dare inizio a ciò che la giornata ha in serbo per noi, di qualunque cosa si tratti. Mangiamo un miscuglio del poco cibo avanzato – pesche in scatola, cracker e lumache – lasciando a Tigris solo una lattina di salmone, misero ringraziamento per tutto quello che ha fatto. In qualche modo, il gesto pare commuoverla. Il suo viso si contorce in una strana espressione, poi lei entra in azione. Passa l’ora successiva a rifarci tutti e cinque dalla testa ai piedi. Prima che indossiamo cappotti e mantelli, ci sistema in modo che gli abiti normali nascondano le nostre uniformi. Copre i nostri scarponi militari con quelle che sembrano pantofole di pelliccia. Usa delle forcine per fissare le nostre parrucche. Toglie gli sgargianti resti di colore che ci eravamo spalmati sul viso in tutta fretta e ci trucca di nuovo. Drappeggia i nostri indumenti esterni in modo da camuffare le armi. Poi ci dà borse e mucchi di cianfrusaglie da portare. Alla fine, siamo la copia esatta dei profughi che sfuggono ai ribelli.
— Mai sottovalutare le capacità di una brillante stilista — dice Peeta. È difficile dirlo, ma credo che Tigris sia proprio arrossita, sotto le sue strisce.
La TV non dà altri aggiornamenti utili, ma il vicolo sembra brulicare di profughi come la mattina precedente. Il nostro piano è intrufolarci in mezzo alla folla in tre gruppi. Prima Cressida e Pollux, che ci faranno da guida pur mantenendosi a distanza di sicurezza da noi. Poi io e Gale, con l’obiettivo di infiltrarci tra i rifugiati che oggi verranno assegnati alla villa. Infine Peeta, che ci seguirà, pronto a effettuare un’azione di disturbo in caso di bisogno.
Guardando da dietro le persiane, Tigris aspetta il momento giusto, toglie il catenaccio alla porta e fa un cenno con la testa a Cressida e Pollux. — State attenti — dice Cressida, e sono già spariti.
Noi li seguiremo tra un minuto. Tiro fuori la chiave, apro le manette di Peeta e me le ficco in tasca. Lui si strofina i polsi. Li flette. Sento una sorta di disperazione salirmi dentro. Mi sembra di essere di nuovo all’Edizione della Memoria, con Beetee che dà a Johanna e a me quella spoletta di filo.
— Stammi a sentire — dico. — Non fare niente di stupido.
— No. Quella roba è l’ultima risorsa. Assolutamente — replica lui.
Gli circondo il collo con le braccia e sento le sue che esitano prima di stringermi. Hanno perso la solidità di un tempo, ma sono ancora calde e forti. Dentro di me, il ricordo di mille istanti monta come un’onda. Di tutte le volte in cui quelle braccia sono state il mio unico rifugio dal mondo. Istanti forse non pienamente apprezzati, allora, ma così dolci nella mia memoria, e ormai svaniti per sempre. — Bene. — Lo lascio andare.
— È ora — dice Tigris. Le do un bacio sulla guancia, chiudo il mio mantello rosso col cappuccio, mi tiro la sciarpa sul naso e seguo Gale all’esterno, nell’aria glaciale.
Fiocchi di neve gelati e pungenti mi mordono la pelle scoperta. Il sole nascente cerca di aprirsi un varco nel buio, ma senza molto successo. C’è luce appena sufficiente per vedere le forme infagottate più vicine e poco altro. Condizioni perfette, in realtà, se non fosse che non riesco a individuare Cressida e Pollux. Io e Gale abbassiamo la testa e cominciamo a camminare insieme ai profughi strascicando i piedi. Sento quello che mi sono persa ieri, quando sbirciavo dalle persiane. Pianti, gemiti, respiri affannosi. E, non troppo lontano, un rumore di spari.
— Dove stiamo andando, zio? — chiede un bimbo tremante all’uomo piegato dal peso di una piccola cassaforte.
— Alla residenza del presidente. Ci assegneranno un altro posto in cui vivere — ansima l’uomo.
Svoltiamo nel vicolo e ci riversiamo in uno dei viali principali. — Tenete la destra! — ordina una voce, e vedo i Pacificatori sparsi tra la folla che dirigono la circolazione. Volti impauriti guardano fuori dalle vetrine dei negozi, che sono già invasi dai rifugiati. A questo ritmo, Tigris avrà nuovi ospiti entro l’ora di pranzo. È stato un bene per tutti che ce ne siamo andati così presto.
Adesso c’è più luce, anche se la neve scende più fitta. Intravvedo Cressida e Pollux che ci precedono a una trentina di metri, arrancando insieme alla massa. Allungo il collo e mi guardo intorno per vedere se riesco a localizzare Peeta. Non ce la faccio, ma ho colto lo sguardo di una bambina dall’aria curiosa che indossa un cappotto giallo limone. Do una gomitata a Gale e rallento appena il passo, perché tra noi e lei si formi un muro di folla.
— Può darsi che dobbiamo separarci — dico sottovoce. — C’è una ragazzina…
Spari ripetuti aprono squarci tra la gente accalcata e parecchie persone vicino a me si accasciano a terra. Le urla lacerano l’aria quando una seconda scarica falcia un altro gruppo alle mie spalle. Io e Gale ci lasciamo cadere sulla strada, poi percorriamo di corsa i dieci metri che ci dividono dalle vetrine e ci ripariamo dietro un espositore di stivali coi tacchi a spillo che si trova all’esterno di un negozio di scarpe.
Una fila di calzature ornate di piume blocca la visuale di Gale. — Chi è? Riesci a vederlo? — mi chiede. Quello che riesco a vedere, tra stivali di pelle color lavanda alternati ad altri verde menta, è una via piena di cadaveri. La bimba che prima mi fissava, inginocchiata accanto a una donna immobile, grida e cerca di scuoterla. Un’altra raffica di pallottole attraversa il suo cappotto giallo, macchiandolo di rosso e facendo cadere lei riversa sulla schiena. Per un attimo, guardando quella minuscola forma sgualcita, perdo la capacità di parlare. Gale mi dà un colpetto col gomito. — Katniss!
— Sparano dal tetto sopra di noi — dico. Osservo le scariche successive, vedo le uniformi bianche cadere in mezzo alla strada coperta di neve. — Cercano di far fuori i Pacificatori, ma come tiratori lasciano parecchio a desiderare. Devono essere i ribelli. — Non riesco a gioire, anche se pare che i miei alleati abbiano sfondato le linee nemiche. Sono ipnotizzata da quel cappotto giallo limone.
— Se cominciamo a tirare, è finita — riflette Gale. — Tutti sapranno che siamo noi.
È vero. Siamo armati soltanto dei nostri favolosi archi. Scoccare una freccia sarebbe come far sapere a entrambe le fazioni che siamo qui.
— No — dichiaro in tono deciso. — Dobbiamo arrivare a Snow.
— Allora è meglio che cominciamo a muoverci, prima che salti in aria l’intero isolato — dice Gale. Proseguiamo lungo la strada rasentando il muro. Solo che il muro è fatto soprattutto di vetrine. Un disegno di palmi sudati e volti stupiti preme contro il vetro. Mi tiro la sciarpa più in alto sugli zigomi, mentre sfrecciamo tra gli espositori collocati all’esterno. Dietro uno scaffale pieno di foto incorniciate di Snow, ci imbattiamo in un pacificatore ferito, appoggiato contro un muro di mattoni. Ci chiede aiuto. Gale gli sferra una ginocchiata all’altezza dell’orecchio e gli prende il fucile. All’incrocio, spara a un altro pacificatore, e abbiamo armi da fuoco tutti e due.
— E adesso chi dovremmo essere? — chiedo.
— Due disperati di Capitol City — risponde Gale. — I Pacificatori crederanno che siamo dei loro, e si spera che i ribelli abbiano obiettivi più interessanti.
Attraversiamo l’incrocio di corsa e intanto rimugino su quanto sia saggio interpretare quest’ultimo ruolo. Ma quando raggiungiamo l’isolato successivo, non ha più importanza chi siamo noi. O chiunque altro. Perché le facce non le guarda più nessuno. I ribelli sono qui. Si riversano sul viale, si riparano nei vani delle porte o dietro i veicoli e, tra raffiche di fucile e voci roche che urlano ordini, si preparano ad affrontare un esercito di Pacificatori in marcia verso di noi. Prigionieri del fuoco incrociato, sono i profughi disarmati e disorientati, e molti di loro sono feriti.
Un baccello, attivato proprio davanti a noi, rilascia un getto di vapore che ustiona chiunque si trovi sul suo cammino e lascia cadaveri rosa come intestini scoperti. Poco dopo, svanisce anche quel po’ di senso logico che ancora resisteva. Quando le ultime volute di vapore si intrecciano alla neve, la visibilità arriva fino all’estremità della canna del mio fucile. Pacificatore, ribelle, residente, e chi lo sa? Qualunque cosa si muova è un bersaglio. Si spara d’istinto, e io non faccio eccezione. Il cuore mi martella nel petto e l’adrenalina mi brucia dentro, sono tutti miei nemici. Salvo Gale. Il mio partner di caccia, l’unico che mi copre le spalle. Non possiamo fare altro che avanzare, uccidendo chiunque intralci il nostro cammino. Gente che urla, gente che sanguina, morti ovunque. Mentre arriviamo all’angolo seguente, l’intero isolato davanti a noi si accende di un bagliore viola intenso. Facciamo marcia indietro, ci accucciamo nel vano di una scala e strizziamo gli occhi per guardare nella luce. Sta succedendo qualcosa a quelli che ne sono illuminati. Vengono assaliti da… cosa? Un suono? Un’onda? Un laser? Si lasciano cadere le armi di mano, si afferrano il volto con le dita, mentre il loro sangue sprizza da ogni apertura visibile: occhi, naso, bocca, orecchie. In meno di un minuto sono tutti morti e il bagliore scompare. Digrigno i denti e corro, saltando sui corpi, i piedi che scivolano nel sangue già coagulato. Il vento sferza la neve formando mulinelli accecanti, ma non copre il rumore di altri scarponi che si dirigono verso di noi.
— Giù! — sibilo a Gale. Ci lasciamo cadere dove ci troviamo. Il mio viso atterra in una pozza ancora tiepida del sangue di qualcuno, ma io fingo di essere morta e resto immobile mentre gli scarponi ci camminano sopra. Alcuni evitano i corpi. Altri mi schiacciano la mano, la schiena, calciano la mia testa nel passare. Dopo che si sono allontanati, apro gli occhi e annuisco in direzione di Gale.
Nell’isolato successivo, incontriamo altri profughi terrorizzati ma meno soldati. Proprio quando ci sembra che la fortuna sia finalmente dalla nostra parte, si sente uno scricchiolio, simile a quello di un uovo picchiato sul bordo di una scodella, ma mille volte amplificato. Ci fermiamo e ci guardiamo intorno, in cerca del baccello. Niente. In quel momento, sento le punte dei miei stivali argentati che cominciano a inclinarsi, sia pur leggermente. — Corri! — urlo a Gale. Non c’è tempo di spiegare, ma nel giro di qualche secondo la natura del baccello si fa evidente a tutti. Lungo il centro dell’isolato si è aperta una fenditura. I due lati della strada piastrellata si stanno ripiegando all’ingiù come ribaltine di un mobile, facendo precipitare lentamente chiunque ci si trovi sopra verso l’interno di ciò che sta sotto, qualunque cosa sia.
Sono indecisa se filare dritto all’incrocio seguente o cercare di arrivare alle porte che costeggiano la strada e penetrare in un edificio. Il risultato è che finisco per muovermi leggermente in diagonale. Mentre il piano continua a inclinarsi, scopro che i miei piedi faticano sempre di più a far presa sui lastroni scivolosi. È come correre lungo il fianco di una collina ghiacciata che diventa più ripida a ogni passo. Tutte e due le mie mete – l’incrocio e gli edifici – sono a qualche metro di distanza, quando sento cedere la ribalta. Non posso fare altro che impiegare gli ultimi secondi di contatto con il lastricato per spingermi verso l’incrocio. Mentre le mie mani si aggrappano al bordo, mi rendo conto che le ribalte si sono abbassate completamente. I miei piedi penzolano nel vuoto, non ci sono punti d’appoggio da nessuna parte. Sento un fetore nauseabondo provenire da una quindicina di metri più in basso, simile al tanfo di cadaveri decomposti nel calore estivo. Alcune forme nere si aggirano carponi nelle tenebre, riducendo al silenzio chiunque sia sopravvissuto alla caduta.
Un grido strozzato mi esce dalla gola. Non verrà nessuno ad aiutarmi. Sto già perdendo la presa sulla sporgenza ghiacciata, quando mi accorgo di essere a poco meno di due metri dallo spigolo del baccello. Poco alla volta, sposto le mani lungo la sporgenza, tentando di isolarmi dai terrificanti rumori che vengono dal basso. Nel momento in cui mi ritrovo sospesa allo spigolo, faccio dondolare il piede destro e lo butto oltre il bordo. Lo stivale si impiglia in qualcosa e io mi sollevo con cautela sino al piano stradale. Tremando e ansimando, striscio fuori e metto un braccio intorno a un lampione perché mi faccia da ancoraggio, anche se il terreno è perfettamente piano.
— Gale? — grido verso l’abisso, senza curarmi di poter essere riconosciuta. — Gale?
— Quaggiù! — Guardo sconcertata alla mia sinistra. La ribalta sorreggeva tutto, giungendo alla base stessa degli edifici. Circa dodici persone sono riuscite ad arrivare fino lì e adesso sono appese a qualunque cosa offra un appiglio. Ai pomoli delle porte, ai batacchi, alle buche della posta. Tre portoni più giù rispetto a me, Gale è aggrappato all’inferriata ornamentale che si trova all’ingresso di un appartamento. Potrebbe entrare facilmente, se fosse aperto. Ma nonostante i ripetuti calci alla porta, nessuno viene in suo aiuto.
— Riparati! — Sollevo il fucile. Lui gira la testa e io crivello di buchi la serratura finché la porta non vola verso l’interno. Gale si dà una spinta e varca la soglia, atterrando con un balzo sul pavimento. Per un attimo provo l’esultanza del suo salvataggio. Poi mani guantate di bianco calano su di lui.
Gale incrocia i miei occhi e, muovendo solo le labbra, mi dice qualcosa che non capisco. Non so cosa fare. Non posso lasciarlo, ma non posso nemmeno raggiungerlo. Le sue labbra tornano a muoversi. Scuoto la testa per segnalare la mia confusione. Tra poco si accorgeranno di chi hanno catturato. Adesso i Pacificatori lo trascinano dentro. — Vai! — lo sento urlare.
Mi giro e mi allontano di corsa dal baccello. Completamente sola, ormai. Gale prigioniero. Cressida e Pollux potrebbero essere morti già dieci volte. E Peeta? Non lo vedo da quando abbiamo lasciato il negozio di Tigris. Mi aggrappo all’idea che possa essere tornato indietro. Che abbia sentito arrivare una crisi e si sia rifugiato in cantina mentre aveva ancora il controllo di sé. Che abbia capito che non serviva un diversivo, con Capitol City che ne ha forniti così tanti. Non serviva fare da esca per poi essere costretto a prendere il morso della notte… il morso della notte! Gale non ce l’ha. E, quanto a tutti quei discorsi di far esplodere a mano le sue frecce, non ne avrà mai la possibilità. La prima cosa che faranno i Pacificatori sarà di strappargli le armi.
Crollo nel vano di una porta, con le lacrime che mi pungono gli occhi. Sparami. Ecco cosa dicevano le sue labbra. Io avrei dovuto sparargli! Era il mio compito. Era la tacita promessa che tutti noi ci eravamo fatti. E io non ho fatto niente, e adesso Capitol City lo ucciderà o lo torturerà o lo depisterà o… Dentro di me cominciano ad aprirsi degli squarci che minacciano di mandarmi in pezzi. Ho una sola speranza. Che Capitol City si arrenda, deponga le armi e consegni i suoi prigionieri prima che facciano del male a Gale. Ma non mi aspetto che succeda, finché Snow è vivo.
Due Pacificatori mi passano davanti di corsa, lanciando a malapena un’occhiata alla piagnucolante ragazza di Capitol City rannicchiata nel vano di una porta. Ricaccio le lacrime, mi cancello dal viso quelle già scese prima che si congelino, e riprendo il controllo di me stessa. D’accordo, sono sempre un’anonima profuga. O forse i Pacificatori che hanno preso Gale mi hanno intravista quando sono scappata? Mi tolgo il mantello e lo rovescio, esponendo la fodera nera invece dell’esterno rosso. Sistemo il cappuccio in modo che mi nasconda il viso. Con il fucile stretto al petto, osservo l’isolato. C’è soltanto un gruppetto di ritardatari dall’aria sconvolta. Seguo a distanza ravvicinata un paio di vecchi che non fanno caso a me. Nessuno si aspetterà di trovarmi in loro compagnia. Quando arriviamo in fondo all’incrocio successivo, i due si fermano e per poco non li tampono. È l’Anfiteatro cittadino. Sull’altro lato dell’ampia superficie circondata da edifici grandiosi c’è la residenza presidenziale.
L’Anfiteatro è pieno di persone che vagano, gemono, o se ne stanno semplicemente sedute lasciando che la neve gli si ammucchi intorno. Penetro subito tra la folla. Comincio a zigzagare da una parte all’altra in direzione della villa, inciampando su tesori abbandonati e membra ricoperte di neve. Più o meno a metà strada, mi accorgo del recinto di cemento. È alto circa un metro e venti e si estende come un grosso rettangolo di fronte alla villa. Lo si direbbe vuoto, ma è zeppo di rifugiati. Che sia questo il gruppo selezionato per essere ospitato da Snow? Mentre mi avvicino, però, noto qualcos’altro. Dentro il recinto, sono tutti bambini. Compresi tra i primi passi e l’adolescenza. Impauriti e congelati. Che si stringono l’uno all’altro o si dondolano per terra con espressione confusa. Non li conducono dentro casa. Sono rinchiusi lì, sorvegliati dai Pacificatori su tutti i lati. Capisco subito che non è per la loro sicurezza. Se Capitol City volesse proteggerli, sarebbero in un rifugio sotterraneo da qualche parte. Tutto questo serve a difendere Snow. I bambini sono il suo scudo umano.
Si sente del trambusto e la folla si butta verso sinistra. Vengo trascinata da corpi più forti, spostata di lato, portata fuori rotta. Sento urlare — I ribelli! I ribelli! — e capisco che devono essersi aperti un varco. Lo slancio mi sbatte contro l’asta di una bandiera e allora mi ci aggrappo. Servendomi della fune che pende dalla cima, mi sollevo per sottrarmi alla calca. Sì, vedo l’esercito degli insorti che si riversa nell’Anfiteatro e respinge i profughi sui viali. Scruto la zona in cerca dei baccelli che di certo esploderanno. Ma non succede. Succede altro.
Un hovercraft contrassegnato dal sigillo di Capitol City si materializza proprio sopra i bambini chiusi nel recinto. Su di loro piovono moltissimi paracadute argentati. Persino in mezzo a questo caos, i bambini sanno cosa contengono quei paracadute. Cibo. Medicine. Doni. Li raccolgono, entusiasti, lottando per districare i fili con le dita gelate. L’hovercraft scompare, trascorrono cinque secondi, e a quel punto circa venti paracadute esplodono nello stesso istante.
Un gemito si leva dalla folla. La neve è rossa e cosparsa di brandelli umani troppo piccoli. Molti bambini muoiono subito, altri giacciono agonizzanti al suolo. Alcuni si aggirano, barcollanti e muti, fissando i paracadute argentati che stringono ancora tra le mani come se potessero nascondere dentro qualcosa di prezioso. Capisco che i Pacificatori non sapevano cosa sarebbe successo dal modo in cui strappano via i recinti per aprire una strada ai bambini. Un altro stuolo di uniformi bianche irrompe dal passaggio. Ma questi non sono Pacificatori. Sono dottori. I dottori dei ribelli. Riconoscerei le loro uniformi ovunque. Sciamano tra i bambini, brandendo i loro kit di pronto soccorso.
Prima intravedo la treccia bionda che le scende lungo la schiena. Poi, quando si strappa di dosso il cappotto per coprire un bimbo che si lamenta, noto la coda da paperella formata dal lembo di camicetta che le è uscito dalla cintura. Ho la stessa reazione che ebbi il giorno in cui Effie Trinket chiamò il suo nome durante la mietitura. Devo essere svenuta per un po’, perché mi ritrovo alla base dell’asta della bandiera senza sapermi spiegare quegli ultimi secondi. Comincio a farmi largo tra la folla, proprio come feci allora. Cerco di gridare il suo nome sopra il frastuono. Sono quasi arrivata lì, ho quasi raggiunto il recinto, quando credo che mi senta. Perché per un attimo mi scorge, le sue labbra formano il mio nome.
Ed è allora che i paracadute rimasti esplodono.