Capitolo ventidue
Seduta nell’appartamento di Nancy, Danica la osservò mentre andava nervosamente dal salotto alla cucina e tornava con un vassoio pieno di cracker e formaggio e una brocca di acqua con ghiaccio. C’erano pochi mobili nel salotto: un divano verde e consumato i cui cuscini dello schienale erano foderati di blu scuro, un tavolino basso e uno scaffale di legno scorticato che sembrava aver visto giorni migliori. Su ogni mensola c’erano ritratti di Michelle, dall’infanzia fino alla foto più recente fatta a scuola, di cui Danica ricordò di aver visto una copia identica sopra il pianoforte di Nola. Non c’era nulla fuori posto, né bollette accumulate in vista. L’appartamento era piccolo e ordinato, la cucina proprio accanto al salotto. Danica sbirciò e notò l’estrema pulizia e i piatti messi ordinatamente ad asciugare sul gocciolatoio di plastica. Fu facile per Danica immaginare Nancy seduta sul divano con una tazza di tè nero in mano a chiedersi cosa stesse facendo sua figlia in quel momento.
«Mi dispiace non avere altro da offrirle, ma sa, lo zucchero mi è proibito. Contiene una qualche sostanza che fa aumentare il desiderio dell’alcol».
Danica aveva visto foto di Nancy, ma non si era resa conto di quanto assomigliasse a Michelle finché non le fu seduta accanto. Avevano lo stesso mento ovale, le stesse dita affusolate e lo stesso modo nervoso di nascondersi dietro un ciuffo di capelli. «Non importa». Danica prese un bicchiere e lo riempì di acqua.
Nancy non doveva aver superato da molto i trentacinque anni ma le preoccupazioni le avevano scavato rughe profonde sulla fronte. «Apprezzo tanto quello che sta facendo per Michelle», disse timidamente.
«Michelle è una brava ragazza. Dovrebbe essere orgogliosa di lei».
«Oh, ma io sono orgogliosa di lei. Più di chiunque altro. E anche di mia madre. Raccogliere i pezzi come sta facendo. So che non è facile per nessuna delle due».
“Già”. «In un certo senso è per questo che sono qui. So che non sono affari miei, ma come procede la sua disintossicazione?»
«Ha tutto il diritto di chiedere», rispose Nancy. «Ho trovato lavoro come cameriera al Friday, giù in centro. Non servo alcol. Vado a tutti gli incontri e questa volta non sento il desiderio di ricominciare a bere. Non l’ho sentito nemmeno una volta». Alzò lo sguardo con un timido sorriso.
«È fantastico, Nancy. Immagino sia stata molto dura per lei». Danica pensò che indipendentemente dalla risposta di Nancy, non sapeva cosa pensare. La disintossicazione non seguiva un percorso prestabilito, e gran parte degli alcolizzati subiva una ricaduta. Al di là di quanto Nancy volesse cambiare, sulle spalle le pesava sempre la silenziosa presenza della dipendenza. Non a caso Michelle era riluttante ad accogliere di nuovo la madre nella sua vita. Sapeva di poterla riperdere in qualsiasi momento.
«È vero. Non mi fraintenda». Nancy si adagiò sul divano e chiuse le palpebre diverse volte, come se tentasse di trattenere le lacrime. «Michelle è tutto per me. Per un certo periodo mi sono persa, frequentavo cattive compagnie, mi sentivo schiacciata perché dovevo prendermi cura di una bambina da sola. Non so». Accavallò le gambe. «Non voglio dare una giustificazione razionale a tutto ciò che ho fatto. È stato un modo per nascondermi, credo. In un certo senso, stavo fuggendo dalle mie responsabilità. Ma questa volta le cose sono diverse. Non mi siedo lì con la sensazione di essere schiacciata né covo rabbia contro il mondo per quello che mi è capitato. Questa volta ho pensato solo a quanto sono fortunata perché ho Michelle, e a come l’ho abbandonata. Lei mi vede per ciò che ero, per ciò che sono, e sono più che determinata a correggere i miei errori. Non c’è un’altra strada per me. Non le darò più tanto dolore, se posso evitarlo».
«Riceve altre forme di assistenza oltre ai gruppi di aiuto?». Danica aveva saputo da Nola che stava partecipando a degli incontri settimanali.
Nancy annuì vigorosamente. «Oh, sì. Vedo una consulente, la dottoressa Paltron, tutte le settimane, e le ho anche chiesto di sottopormi a test a sorpresa delle urine». Scrisse in fretta un numero di telefono su un pezzo di carta e lo diede a Danica. «Chiami la dottoressa Paltron, per favore. Lei potrà dirle come procede il mio percorso di disintossicazione. Non ho nulla da nascondere».
Danica prese il biglietto. «Ha chiesto lei di farsi sottoporre al test?»
«Sì. Non voglio ricominciare a bere e con questa spada di Damocle sulla testa è più facile».
Danica era senza parole. A quanto ne sapeva lei, gli alcolizzati erano sempre sul punto di ricadere nelle fauci della loro dipendenza. Il caso di Nancy era lievemente diverso. Lei non aveva trascorso la vita a entrare e uscire dai centri di disintossicazione. Aveva sofferto molto dopo la morte del padre di Michelle, un uomo affetto da dipendenza da sostanze stupefacenti che non aveva mai fatto parte della vita di Michelle, ma del quale Nancy era rimasta disperatamente innamorata.
«So a cosa sta pensando», disse Nancy. «E se la minaccia del test delle urine non è sufficiente? Ma la verità è che nel mio cuore so che devo farcela. Non voglio tornare a fare quella vita. Mi vergogno del dolore che ho causato a Michelle». Una lacrima le scese lungo la gota. «Riuscirò ad arrivare fino in fondo. Non permetterò a me stessa di rovinare di nuovo tutto. Quella ragazza ha bisogno di me, nonostante i miei errori. Ha bisogno di sua madre».
«Sì, tutti hanno bisogno dei genitori, ma Michelle sta attraversando un periodo molto difficile della sua vita. La fase dell’adolescenza non è facile per nessuno».
«Lo so. Questo enorme disastro è stato provocato dalla morte di suo padre. Michelle non lo conosceva, ma io lo amavo. Sono stata risucchiata nella sua vita quando sono finita in un centro di disintossicazione per la prima volta, ma non volevo che mi accadesse di nuovo. Non mi ero resa conto che la sua morte poteva spingermi oltre il limite. È stata colpa mia. Mi sono nascosta nella nebbia dell’alcol per non sentire più nulla. Invece sentivo eccome. Mi sono sentita addolorata e sola, e ora me ne vergogno». Si spostò sul bordo del divano. «Soffrivo per la perdita di mio marito. Da quello non potevo nascondermi. Ora l’ho accettata e posso guardare avanti». Forse Nancy vide qualcosa negli occhi di Danica perché aggiunse: «Michelle è tutto per me. Andrò fino in fondo. Farò in modo che quella ragazza sia orgogliosa di me, anche se fosse l’ultima cosa che faccio».
Danica aveva già sentito i suoi pazienti dire le stesse cose. Alcuni erano davvero determinati; altri meno. Lei credeva, dal tono di voce di Nancy e dalla risoluta disperazione che le leggeva nello sguardo, che fosse determinata, almeno in quel momento. Ma era Michelle la sua preoccupazione. «Non è me che deve convincere. Michelle non sa a cosa affidarsi. Ha visto sua madre nel momento peggiore, quindi è possibile che avrà bisogno ancora di tempo per riacquistare fiducia in lei».
Nancy annuì, asciugandosi le lacrime con la manica. «Lo so, e sono disposta ad aspettare». Poi alzò lo sguardo su Danica. «Da quello che mi ha detto mia madre, lei sta aiutando molto Michelle in questo periodo. Può dirmi come sta? Si è cacciata in qualche brutto… guaio? L’ho rovinata fino a questo punto?».
Danica ripensò a Michelle nel museo, quando osservava pensierosa le opere d’arte, al modo in cui si era entusiasmata al Village. «Credo che stia bene, ma si sta sforzando di elaborare la vostra relazione e di capire se riuscirà mai a vivere una vita normale insieme a sua madre».
«Be’, noi siamo tutto meno che normali», ammise Nancy.
Una sveglia suonò in un’altra stanza. «Mi scusi», disse la madre di Michelle, alzandosi per correre a spegnerla. «Devo prepararmi per andare al lavoro». Tornò dalla camera da letto con una busta in mano. «Le dispiace consegnare questa a Michelle?»
«Ma…». Danica era preoccupata di ciò che la busta potesse contenere. I suoi ultimi desideri? Speranze per il futuro? La guardò senza allungare la mano per prenderla.
Nancy alzò le spalle. «È solo che, siccome Michelle non vuole parlarmi, e mi manca così tanto, ho iniziato a scriverle delle lettere. Poi ho pensato che un’adolescente forse non ha voglia di leggere una sfilza di stupide lettere e quindi ne ho scritta solo una, dove le racconto quello che ho passato, le dico che mi dispiace e che, be’, alcune altre cose che ho pensato abbia bisogno di sapere. Voglio che mia figlia si renda conto che sto facendo tutto ciò che posso e che non berrò più. Deve saperlo».
Danica si sentì sollevata. «Certo, gliela darò la prossima settimana». E prese la busta.
Danica uscì dall’appartamento di Nancy e si diresse verso il suo studio. Guardò l’orologio e, visto che non aveva altri pazienti per quel pomeriggio, prese il cellulare e fece il numero di Kaylie.
«A cosa devo il piacere?», disse scherzando sua sorella.
«Hai un vestito per la festa di questo fine settimana? Perché io non ce l’ho». Restò ad ascoltare lo strillo di entusiasmo all’altro capo del telefono. «Penso di aver bisogno di qualcosa che sia più come la nuova Danica, meno…».
«Frigida?», propose Kaylie.
«Non mi spingerei tanto oltre, ma qualcosa del genere. Ci vediamo al Village?»
«Ho soltanto un’ora. Canto al Mantra questa sera». Il Mantra era il ristorante che permetteva a Kaylie di pagarsi le bollette. Danica l’aveva vista cantare solo tre volte. Guardare gli uomini che fissavano sua sorella le faceva contorcere lo stomaco.
«Fantastico, ci sto. Ci vediamo al parcheggio del centro commerciale».
Spulciarono interi stand di abiti e gonne di tutti i tipi. Kaylie, con gli stivali di pelliccia e i jeans attillati, sembrava una ventiduenne, mentre nella sua divisa professionale Danica si sentiva alle soglie dei quaranta, anziché dei trenta. Perché si conciava in quel modo? Doveva trovare un’amica brutta e sovrappeso con la quale uscire, in modo da sentirsi meglio con se stessa. “Oh, mio Dio. Adesso sembro uno dei miei pazienti”.
«Dottoressa Snow!».
Al suono della voce di Belinda Trenton, Danica si girò.
«È così strano vederla qui, fuori del suo studio», disse con enfasi Belinda. «Fa shopping?». Lanciò un’occhiata verso Kaylie.
«Le sto rifacendo il guardaroba», rispose Kaylie.
Non capitava spesso che i pazienti di Danica la incontrassero fuori dalle mura dello studio, ma questo era il secondo caso in cui un paziente si imbattesse in Kaylie in altrettante settimane, e Danica sentì come un cappio che le stringeva la gola. Non si era mai resa conto che Allure fosse una città così piccola. Lei preferiva tenere i pazienti lontani dalla sua famiglia. «Sto solo dando un’occhiata». Danica sorrise a labbra strette, sperando di mostrare cortesia professionale più che amicizia.
«Che ne pensa del mio look?», chiese Belinda indicando gli abiti che indossava.
Come aveva potuto Danica non notare le sue ballerine nere e i jeans svasati? Erano un evidente miglioramento rispetto ai jeans attillatissimi e i tacchi alti. «Ti sta bene», disse Danica, illuminandosi di discreto orgoglio. Dopo tutto, forse la stava aiutando.
«Ha visto, ho seguito i suoi consigli».
Belinda esaminò Kaylie dalla testa ai piedi con uno sguardo pieno di gelosia: non lo facevano tutte? «Mi piace il tuo stile», disse.
Kaylie sorrise con quell’espressione di disagio che diceva: “Deve esserci un motivo se sei una paziente di mia sorella, quindi non voglio avere niente a che fare con te”.
«Bene, vi lascio al vostro divertimento. Ci vediamo la settimana prossima!».
Belinda uscì dal negozio, e Danica poté respirare di nuovo liberamente.
Kaylie le toccò un braccio e sussurrò: «Ora che la matta è andata via, che te ne pare di questo?», e le mostrò un abito marrone, di pelle scamosciata e lungo fino al ginocchio, completo di frangia sotto il bordo.
«Non chiamarla in quel modo… e io cosa sarei? Una principessa indiana?». Danica osservò sua sorella che rimetteva il vestito sullo stand e iniziò a esaminare gli abiti con occhio attento.
«Scusami. Sto solo cercando di vivacizzare un po’ le cose».
Forse era questo l’errore. «Come sta Chaz?»
«Mi tratta come una regina. Mi chiama, mi scrive e-mail. Mi manda anche dei fiori».
Danica riconobbe il tono annoiato di Kaylie. «Sembra perfetto».
Lei sospirò. «Credo di sì, se ti piace questo genere di cose». Prese un abito nero, semplice, dallo stand. Era incrociato davanti e stretto sui fianchi, proprio il modello adatto a Danica. Le rifiniture erano fatte con un cordoncino dorato scintillante che aggiungeva un tocco interessante.
«Per quanto mi riguarda, le adoro. Sembra che tu gli piaccia davvero». Danica le prese l’abito dalle mani e andò verso i camerini, seguita a ruota da Kaylie.
«È così, infatti».
«Ma?». Danica si infilò nel camerino mentre Kaylie aspettava oltre la tenda.
«Non lo so. Anche lui mi piace molto, ma è tutto troppo facile. Ho la sensazione che le cose potrebbero semplicemente andare male senza che io me ne accorga».
Danica sbirciò attraverso la tenda. «Hai paura di essere come la mamma. Credi che solo perché papà l’ha tradita, Chaz farà lo stesso con te?». Chiuse la tenda.
«Forse. Non lo so».
Oltre la tenda, Danica si infilò il vestito e lo strinse in vita. Le stava benissimo, tanto che si chiese se fosse dimagrita. Non faceva mai attenzione a qualche chilo in più o in meno fino a quando le cose non precipitavano come una valanga e di colpo si ritrovava ad aver bisogno di un nuovo guardaroba. «Bene, non sei la mamma, e le cose facili sono belle, Kaylie».
Uscì dalla tenda e Kaylie restò a bocca aperta. «Danica, oh mio Dio. Sei bellissima!».
Danica fece un giro su se stessa, sentendosi giovane e carina. Voleva andarsene in giro per il negozio e godersi quella sensazione. «Trovi?»
«Certo». Kaylie abbracciò sua sorella. «Qualsiasi cosa ti sia successa ultimamente, ti fa bene».
Danica sentì che le guance le si infiammavano. «Kaylie, ascolta, tutto quello che è accaduto tra mamma e papà è un loro problema. Tu non sei mamma. Chaz non è papà. Concediti di essere felice per una volta. Non sabotare la tua storia». Sparì di nuovo dietro la tenda, ammirandosi ancora nello specchio prima di rimettersi i suoi vestiti.
Mentre lei pagava, Kaylie si appoggiò al bancone, il mento sul palmo della mano.
«Che cosa c’è?», chiese Danica.
«Cosa si prova a essere come te?». Si raddrizzò. «Cioè, hai rimesso insieme i pezzi. Sai come gestire una relazione, anche se non ne hai una, e non hai paura di nulla». Sospirò. «Deve essere… bello».
«Se sapessi, Kaylie». Danica avrebbe voluto confidare le sue insicurezze a Kaylie, ma era così appagante essere un punto di riferimento. Sorrise, abbracciò la sorella e insieme andarono verso le rispettive auto.
I giorni successivi volarono via in una serie interminabile di sedute con i pazienti che lasciavano Danica in uno stato di spossatezza emotiva già alle nove di sera. Trovò il tempo di chiamare la consulente di Nancy, la quale confermò che non solo la madre di Michelle faceva progressi ma che era stata una paziente modello al centro di disintossicazione. La dottoressa Paltron affermò di considerare eccessivi i test settimanali delle urine. Nancy era tra le poche persone adulte per le quali nutrisse grandi speranze. Non era come gli altri. Secondo la dottoressa Paltron, un pomeriggio Nancy aveva bevuto in modo esagerato e Michelle l’aveva vista. Il padre della ragazza era morto da poco, e loro avevano iniziato a litigare. Nella lite era stata coinvolta anche Nola. Dopo quell’episodio, Nancy si era impegnata a entrare nel centro di disintossicazione. La dottoressa Paltron ammise che secondo lei era stata quasi una reazione eccessiva da parte di Nancy affidarsi al centro, ma capiva la sua preoccupazione, considerando la storia di abuso di suo padre; alla fine della telefonata Danica si sentiva molto più fiduciosa. Aveva avuto la sensazione che Nancy avesse abusato dell’alcol per mesi. Stando al racconto di Michelle, quella donna beveva sempre. Danica iniziava a vedere con ancora più chiarezza come la prospettiva di un’adolescente potesse distorcere le situazioni, per quanto involontariamente. E si sentì dispiaciuta per Michelle, che era stata spinta dal dolore a dipingere come più gravi le condizioni di sua madre.
La sera della festa di Jeffrey e Camille arrivò con un caldo inaspettato rispetto al consueto gelo dell’aria notturna. Danica non aspettava con particolare ansia quell’evento. Avrebbe preferito raggomitolarsi nella sua adorata tuta davanti al televisore, oppure immergersi nella lettura di un bel libro, anziché preoccuparsi di come Kaylie e Blake potessero reagire incontrandosi di nuovo; ma non avrebbe mai deluso Camille.
Arrivò con il nuovo abito nero e un paio di comodi tacchi. Non aveva intenzione di slogarsi di nuovo la caviglia e rendersi ridicola. Entrò nel ristorante e si avvicinò alla saletta privata, con lo stomaco stretto in una morsa. Sbirciò all’interno e si rese conto di cercare Blake.
Una grossa mano le si appoggiò sulla spalla. Nell’orecchio sentì un sussurro. «Vuoi solo spiare o anche entrare?».
Il battito del cuore accelerò. Blake. Il ridicolo desiderio di voltarsi e baciarlo le attraversò la mente. Danica lo scacciò e fece un respiro profondo. «Entrare», disse senza girarsi per guardarlo. Fece un passo in avanti sperando segretamente che lui non le togliesse la mano dalla spalla. Lo fece. Danica si sforzò di sorridere ed entrò nella saletta ben arredata, dove le altre damigelle si erano raccolte.
«Danica!», urlò Camille. Le ragazze corsero insieme ad abbracciarla e qualcuno le passò un bicchiere di Manhattan.
«Questa sera faremo finta di essere a New York, quindi Manhattan per tutta la notte».
Chi era lei per negare alle sue amiche un po’ di divertimento? Bevve un sorso, assaporando la dolcezza del vermouth e dello cherry. Si costrinse ancora una volta a mantenere la calma e guardò Blake con la coda dell’occhio. Era insieme a Jeffrey e altri invitati, ridevano, e lui piegava la testa all’indietro. Era più elegante del solito con quei pantaloni grigi e il maglione nero. Si girò proprio quando Danica si rese conto che lo stava fissando e alzò il bicchiere nella sua direzione. “Porca miseria”. Danica distolse lo sguardo e mandò giù il cocktail, poi fece cenno al barista di preparargliene un altro.
Con gli occhi perlustrò la sala alla ricerca di Kaylie, che era misteriosamente assente. «Hai visto mia sorella?», chiese a Marie.
«So che sta arrivando. Mi ha chiamato poco fa». Marie si guardava intorno. «Forse è uscita con Chaz. Quell’uomo è innamorato di lei, ci metto la mano sul fuoco».
«Questo significa che fra non molto sparirà dalla circolazione», disse Camille scherzando.
«Certo». Marie aggrottò la fronte. «Ma… perché fa così?»
«Conosci Kaylie. Le piace divertirsi». Danica non voleva affrontare i problemi familiari con Marie, né con nessun altro in realtà.
«Ma io credo che anche a lei piaccia molto Chaz. Voglio dire, passa tanto tempo insieme a lui».
«Davvero?» “Perché non lo sapevo?”.
«È sempre a casa sua, oppure lui è da Kaylie. Se non conoscessi Kaylie così bene, penserei che tra lei e Chaz ci potrebbe essere qualcosa di serio».
Danica si chiese quale fosse il vero problema di sua sorella. Voleva solo la sua attenzione oppure aveva davvero paura di rivivere la vita di sua madre?
«Mister Figo viene verso di te. Sparisco». Marie le fece l’occhiolino.
La sala si fece più piccola mentre Blake si avvicinava. “Non perdere il controllo. È un paziente”.
«Sei incantevole», disse Blake, poi aggiunse. «In termini strettamente professionali, ovvio».
“E tu perché devi essere così bello?”. «Ovvio. Grazie». Danica sentì di arrossire e si maledisse in silenzio. Guardò i camerieri che portavano l’insalata sull’enorme tavolo rotondo sistemato al centro della sala. Gli altri invitati già prendevano posto a sedere e il cuore di Danica accelerò quando si rese conto che erano rimaste libere solo tre sedie, due vicine e una tra Marie e Stephanie. «Faremmo meglio a sederci», disse, sentendosi a disagio accanto a lui.
Blake le appoggiò il palmo caldo e sensuale, all’altezza dei reni e la guidò verso i due posti vicini. Il calore di quel contatto assorbiva tutta l’attenzione di Danica. Era in grado di riconoscere un gesto possessivo quando lo vedeva, o meglio quando lo sentiva, ma quello le piaceva troppo per sottrarvisi. Blake le avvicinò una sedia e lei si mise a sedere, cercando di ignorare l’entusiasta sorriso di approvazione di Marie.
Danica ritrovò la voce e si costrinse a parlare nonostante il groppo alla gola. «Qualcuno ha sentito Kaylie?». Non osava guardare Blake. Sentiva il calore che proveniva dal suo corpo seduto accanto a lei, una sensazione già di per sé abbastanza difficile da tollerare. Non aveva bisogno di tuffarsi nei suoi splendidi occhi o sentire l’odore di alcol del suo respiro. Perché trovava quell’odore così attraente, poi?
«Mi ha mandato un messaggio. Sarà qui tra poco», rispose Camille.
Danica ascoltava gli uomini che parlavano della “solita palla al piede” e le donne che cianciavano di abiti, fiori e dell’imminente luna di miele. Non poteva fare a meno di notare che Blake restava in silenzio accanto a lei. Gli lanciò un’occhiata furtiva e notò la tensione nello sguardo e la mascella serrata. Si sforzò di controllare la voglia di fargli una carezza e dirgli che sarebbe andato tutto bene.
Lui si voltò a guardarla e si sforzò di farle un sorriso. Se per la sua formazione di psicologa o per solidarietà femminile non avrebbe saputo dirlo, ma gli chiese in un sussurro: «Stai bene?».
Blake annuì e appoggiò il tovagliolo sul tavolo. «Penso a Dave e a quella donna. È una storia che mi sta torturando».
Danica si avvicinò a lui. «Lo vedi, sei un buon amico. Se non lo fossi, non ci penseresti affatto».
«L’ho incontrata al cimitero qualche giorno fa mentre… non so nemmeno cosa stessi facendo lì». Blake la guardò con gli occhi pieni di sofferenza. Poi le avvicinò la bocca all’orecchio. Il suo respiro caldo le sfiorava il collo e le faceva venire la pelle d’oca. «Hanno avuto un figlio insieme diciassette anni fa, lei ha detto che non avevano una relazione ma che Dave voleva conoscere meglio il ragazzo».
Danica faceva il possibile per concentrarsi sulle parole che lui le sussurrava, ma quel calore sul collo la distraeva. Sentì una morsa stringerle lo stomaco e la sua mano che si avvicinava alla gamba di Blake mentre lui si chinava nella sua direzione. Ritirò la mano e si allontanò. “Che diavolo sto facendo?”. Non pensò a quale espressione avesse sul viso fino a quando non sentì la domanda successiva di Blake.
«Scusa. Forse non è il momento migliore per parlarti di queste cose».
“Merda”. «Come? No, va bene». “Quali cose?”, si chiese. “Accidenti, Danica. Datti una controllata”.
«Possiamo farlo in un altro momento. Mi dispiace», disse Blake e si voltò dall’altro lato.
«Scusate il ritardo!». L’entusiasmo di Kaylie invase la sala di nuova energia.
“Grazie a Dio”.
«Siamo andati a fare un giro in auto questo pomeriggio e siamo rimasti bloccati». Kaylie si chinò per baciare Camille sulla guancia. «Mi dispiace tanto, Camille. Sai che non sarei mai arrivata tardi di proposito».
Danica osservava Blake per cogliere qualche segnale dell’attrazione che provava per sua sorella, ma lui stava fissando il piatto che aveva davanti. Gli aveva dato di nuovo la sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Che cosa le accadeva? Non era in grado di gestire la situazione quella sera. Doveva superare la cena e scappare subito da quel posto. Evidentemente poteva frequentare Blake solo nello studio e mai fuori da quelle mura. «Mi dispiace», sussurrò nell’orecchio del suo paziente. «Ne possiamo parlare lunedì». Rivolse la sua attenzione alla discussione tra Kaylie e Camille sul matrimonio. Kaylie stava chiedendo all’amica se poteva portare un uomo.
«Un uomo?», chiese Camille. «Ma quando abbiamo fatto gli inviti hai detto che non avresti mai portato un uomo…».
«Perché sarebbe stato opprimente», dissero in coro Marie, Stephanie e Laurie.
«Sì, è vero». Alzò gli occhi verso Danica. «Le cose cambiano, pare. Posso invitarlo?»
«Ma certo, Kaylie. Una persona in più cosa vuoi che sia?». Camille strinse la mano di Kaylie.
Danica non aveva l’elasticità mentale necessaria a districarsi tra i sentimenti sempre nuovi di sua sorella verso gli uomini così come non era in grado di gestire la presenza di Blake al suo fianco, con il ginocchio a meno di cinque centimetri dal suo, il suo profumo che la invadeva e la agganciava come un amo, e quegli occhi solitari, confusi che reclamavano la psicologa che era in lei. La mente vagava tra pensieri lascivi e il desiderio era fuori controllo, tanto che avrebbe potuto avvicinarsi a lui e baciarlo da un momento all’altro. Non si fidava affatto di se stessa.
Abbassò lo sguardo e si concentrò sul cibo che aveva davanti. Poteva prendere una forchetta e portarsela alla bocca. Poteva prendere un bicchiere e bere. Gesti minimi, si disse. Fissò la sua attenzione sul rumore delle forchette nei piatti, gli auguri agli sposi, e fece del suo meglio per concentrarsi sugli sprazzi che le arrivavano della conversazione tra Kaylie e Marie, ma aveva la testa da un’altra parte.
Finalmente la cena arrivò al termine e Danica vide una via d’uscita. Si alzò dal tavolo. «Ho un appuntamento domani mattina, temo che dovrò tornare a casa presto questa sera». Si sforzò di fare un sorriso il più sincero possibile. «Camille, Jeffrey, grazie. Sono felicissima per il vostro matrimonio. Sarà splendido».
Uscì in fretta dal ristorante e si rifugiò nella sua auto. Appoggiò la testa sul volante e restò immobile a chiedersi perché si stesse comportando come una vera idiota.
Un rumore sul vetro la fece trasalire.
Era Blake che guardava nell’abitacolo. Danica fece un sospiro profondo e abbassò il finestrino. L’aria fredda entrò nell’auto. «Signor Carter», disse con il tono più professionale che riuscisse a riprodurre.
«Danica, possiamo parlare?»
«Certo, lunedì». Danica non guardava il suo interlocutore, ma dritto davanti a sé.
«Mi dispiace. Non intendevo costringerti a pensare al lavoro durante la cena e rovinarti la serata. Avevo solo bisogno di parlare». Sembrava sinceramente preoccupato.
«Va bene. Non è questo il problema».
«Davvero? Che cosa ho fatto? Che cosa ho detto?».
Lei lo guardò per un attimo e il cuore le andò in pezzi. Il volto di Blake esprimeva una profonda confusione. Danica aprì la portiera e uscì dall’auto. Non era sicura che fosse una buona idea, ma le sue gambe agivano autonomamente e si diressero verso il retro del ristorante. Lui la seguì.
Le stelle illuminavano il cielo pulito come centinaia di minuscole particelle di luce. Danica e Blake camminarono lungo un lato dell’edificio e si ritrovarono in un’area per le cene all’aperto usata solo d’estate che offriva una vista spettacolare sulle cime innevate delle montagne.
«Blake, non sono sicura che dovremmo…».
Lui le si fermò proprio davanti, impedendole di continuare il discorso, e le rivolse uno sguardo intensissimo. «Ti prego, non mandarmi via. In queste ultime settimane hai fatto per me quello che nessun altro è stato in grado di fare in tutti gli anni precedenti. In tutta la mia vita».
La linea grigia e sottile, che Danica voleva disperatamente tracciare, non delimitava solo il confine tra giusto e sbagliato. Ma avrebbe deciso anche la sua carriera. Si sentiva fisicamente attratta da lui. “Oddio”. Tra loro era scattata una specie di scintilla. In quel momento Danica capì che non era più la sua psicologa: forse non era più la psicologa di nessuno.
Blake le appoggiò le mani sulle braccia e lei provò di nuovo a ignorare il calore che emanavano.
«Non ho intenzione di continuare a rovinare tutto. Il nostro è un rapporto professionale e dobbiamo attenerci a delle regole».
Danica abbassò gli occhi e guardò le mani di Blake sulle sue braccia, il petto che andava su e giù seguendo il ritmo del respiro affannoso. Sentiva di non riuscire a parlare. Aveva forse interpretato male le azioni di Blake?
«Mi hai fatto vedere le cose con chiarezza», disse Blake. «Mi hai ascoltato, mi hai aiutato, non sei stata solo professionale. Ho bisogno di te».
“Bene. Sono una brava psicologa”. Danica si tirò indietro. Le mani di Blake si staccarono dalle sue braccia e gli scivolarono lungo i fianchi. «Sono qui per questo», disse. Aveva le braccia pesanti, come se non appartenessero al suo corpo. Aveva voglia di alzarle, toccare i fianchi di Blake, appoggiare le punte delle dita sul suo fondoschiena e attirarlo a sé.
«Non parlo con nessuno come parlo con te», disse Blake.
«Fa parte del fascino della psicologa», rispose Danica. Capitava spesso che i pazienti si sentissero attratti dai propri terapeuti, si disse, ma non capitava altrettanto spesso, né era accettabile, l’inverso. “Porca miseria”. Aveva bruciato i tempi? Era stupido pensare di dover rinunciare alla sua carriera? Forse lui non aveva bisogno di lei in quel senso, dopo tutto.
«Prima riuscivo a ignorare le cose negative che mi circondavano, ma adesso, adesso ci rifletto in un modo in cui non avrei mai pensato. La cosa strana è che ogni volta che rifletto su una cosa, mi rendo conto che non la voglio fare. Ho smesso di ferire le persone. E la cosa ancora più strana è che quando capita, quando mi trovo nel bel mezzo di queste… rivelazioni, tutto ciò che ho voglia di fare è prendere il telefono e chiamare te».
Buon Dio. Danica sarebbe mai riuscita a tenere ferme le gambe? Ricominciò a camminare lungo il vialetto pavimentato solo per essere sicura di non sciogliersi lì, su due piedi. La luce della luna brillava sopra di loro, illuminava gli addobbi di Natale che il ristorante lasciava sui rami per tutto l’anno. Se non fosse stata tanto combattuta, Danica avrebbe pensato che stava vivendo la serata più romantica della sua vita. Invece, doveva fare attenzione a come reagire alle parole di Blake. Si fermò e lo guardò in faccia sollevando un po’ la testa. Credeva nel valore dell’onestà e ne era stata sempre ricompensata. Sotto la luce della luna, parlando con l’unico uomo che era stato capace di farle stringere lo stomaco negli ultimi mesi, se non anni, si affidò di nuovo al potere della sincerità.
«Non possiamo continuare così», disse. Ecco. Lo aveva detto. Le faceva male lo stomaco, il cuore le sanguinava, e lei tratteneva il respiro in attesa della risposta di Blake.
«In che senso?», disse lui scherzando.
Nonostante la tensione, Danica rise.
«Ho bisogno di te, Danica», disse Blake.
“Ma non come io ho bisogno di te ultimamente”.
«Non credo di poter affrontare questa situazione senza il tuo aiuto». Fece per accarezzarle una guancia, ma poi ci ripensò e lasciò cadere la mano di nuovo lungo il fianco. Danica se ne accorse. «Mi dispiace se ho rovinato tutto», disse con sincerità.
Per quanto tempo Danica poteva continuare a giocare a quel gioco? Aveva veramente frainteso le azioni di Blake? Voleva lei o voleva solo che fosse la sua psicologa? Le parole le uscirono dalle labbra senza che potesse fare nulla per fermarle. «Accidenti, Blake. Sono io che ti ho frainteso o c’è qualcosa di più? Mi sento come una liceale che ha preso una cotta per il giocatore di football, e poi arrivi tu e dici che hai bisogno che io sia la tua psicologa… il tuo linguaggio del corpo, però…».
Lui le accarezzò la guancia, ma il suo sguardo serio non lasciava trapelare nulla.
“Merda”. «D’accordo, va bene», disse Danica. “Accidenti”. Le lacrime le riempirono gli occhi. Era davvero una stupida. Perché non lasciava stare tutto così com’era? Si voltò per andarsene e Blake la afferrò per un braccio.
«Vuoi dire che ti piaccio, vero?», le chiese Blake.
Lei non rispose.
«Ti piaccio. Ti piaccio?». Un sorriso si disegnò sulle sue bellissime labbra.
«Va bene, ora basta. Ti consiglierò il nome di un altro psicologo». “E cambierò mestiere”. «Ti chiedo scusa per la mia mancanza di professionalità».
Un attimo dopo, Blake la afferrò, la attirò a sé e la strinse tra le braccia. Appoggiò le labbra sulle sue e l’odore sensuale del suo corpo inebriò Danica, che si lasciò andare al suo abbraccio. La lingua di Blake esplorava la sua bocca con dolcezza, senza fretta e senza forzarla, ma assaporandola, assaggiandola. Le mani le accarezzarono tutta la schiena, e lei si perse in quel bacio, in quel profumo di colonia, mentre la brezza della notte le sfiorava le guance calde. Danica si sentiva più leggera dell’aria, come se stesse volando sopra una nuvola.
«Credevo di essere solo io a pensarci», ammise lui.
Le mani tremanti di Danica affondarono nella schiena di Blake, gli occhi si incollarono ai suoi. Desiderava baciarlo ancora, ma la psicologa che era in lei non era d’accordo. Anche se avrebbe finito per buttare al vento la sua carriera, riusciva ancora a distinguere il bene dal male. «Non possiamo. È sbagliato. Tu sei un mio paziente, o almeno lo eri». “Oh, mio Dio. Aiutami”.
«Sono un tuo paziente».
«Non posso avere una relazione con un mio paziente. È contrario al codice deontologico». Danica non aveva la forza di staccarsi dalle sue braccia.
«Ho bisogno che tu sia la mia psicologa». La baciò di nuovo. «Voglio che tu sia la mia ragazza».
Danica si staccò da lui. «Potrei perdere la licenza. Non posso farlo». “Voglio farlo”. Danica era stata molto attenta a scegliersi gli uomini e a separare la vita professionale da quella privata. Avrebbe dovuto essere più assennata e non finire per buttare tutto alle ortiche per un uomo che era solo ai primi passi della terapia. Ma non poteva negare di desiderarlo con tutta se stessa. “Merda”. Le gambe di Danica la portarono nella direzione del parcheggio.
«Danica, aspetta». Blake la seguì, camminando un passo indietro rispetto a lei. «Ho bisogno del tuo aiuto per rimettermi in carreggiata, per capire le cose che mi accadono».
«Adesso non posso più aiutarti». Si fermò e si voltò verso di lui, la voce più carica di rabbia di quanto avesse immaginato. «Ci siamo baciati, Blake. Non dovevamo. Non posso essere la tua psicologa ora che ci siamo baciati. Non è corretto».
Il silenzio tra loro era rotto solo dal fruscio del vento tra gli alberi. Per la prima volta nella sua vita, Danica non aveva una risposta. Andò via come una furia, in gola un nodo gigantesco. Quando raggiunse l’auto, le lacrime le rigavano le guance.