Capitolo dodici
Due sere dopo, Blake era seduto al tavolo di cucina di Sally e giocherellava con le chiavi davanti a una tazza di caffè. Sally sembrava invecchiata di dieci anni nei pochi giorni passati dalla morte di suo marito. Se ne stava seduta con le mani intorno a una tazza fumante, un pesante cardigan bianco stretto intorno al corpo sottile. Si scostò una ciocca dei capelli biondo chiaro dalla fronte. Non aveva trucco. Chiunque altro con la pelle così chiara sarebbe sembrato debole o stressato. Ma persino nella sua condizione tragica, Sally aveva un’aria regale. Blake ricordava le tante volte in cui per scherzare l’aveva definita la moglie-trofeo di Dave e adesso si pentiva di averlo fatto.
«Grazie per aver accettato di portare Rusty all’allenamento di pallacanestro. Abbiamo litigato molto. Non vuole continuare, ma credo che sia importante per noi due andare avanti con la nostra vita nel modo migliore possibile. Non voglio che Rusty perda gli amici a causa della morte di suo padre. È fin troppo facile cadere in depressione quando si è così giovani». Alzò lo sguardo e mostrò gli occhi tristi, blu come il mare. «Ha già tutta l’angoscia della sua età dentro».
«Nessun problema. Non ho niente di meglio da fare», disse Blake e in quel momento era vero. Aveva giurato a se stesso di astenersi dal frequentare donne. «Se credi sia pronto».
Sally annuì. «In un certo senso, Rusty ha bisogno di questo sfogo. Lui e Dave avevano litigato poco prima… dell’incidente».
Blake ricordava qualche parola dell’ultima telefonata di Dave sulla pista. Immaginava che tutti i genitori dovevano affrontare gli alti e bassi degli adolescenti in preda agli ormoni, ma che quella fosse stata l’ultima conversazione di Rusty con suo padre era troppo difficile da sopportare per chiunque, ma ancor di più per un adolescente. «E poi mi fa piacere».
Sally si alzò e mise la sua tazza nel lavandino, dando le spalle a Blake. Si strinse le braccia intorno al corpo, e Blake vide le sue spalle sollevarsi e abbassarsi seguendo il ritmo di un respiro profondo. Quando si girò, Sally aveva lo sguardo serio e le labbra strette. «Blake», disse, poi socchiuse gli occhi come per riflettere su ciò che stava per dire.
«Sì?».
Rusty entrò in cucina: indossava i pantaloni di una tuta e una felpa nera con il cappuccio. I capelli biondi, appena più scuri di quelli di sua madre, erano lunghi e lisci, come quelli dei ragazzi degli anni Settanta. Aveva il volto teso e stanco. «Pronto?».
Sally scosse la testa guardando Blake. «Nulla». Si avvicinò a Rusty, e lo guardò dritto negli occhi. «Prova a divertirti, va bene? Mi troverai a casa al tuo ritorno».
Rusty distolse lo sguardo.
«Ti voglio bene, Russ». Quella di Sally suonava più come una preghiera che un’affermazione. Si strinse le braccia intorno alla vita mentre Blake si alzava per uscire insieme a Rusty. «Grazie, Blake. Chiamami se hai bisogno di me».
Blake non sapeva molto sugli adolescenti, ed era sicuro che la sua esperienza della perdita di un genitore era diversa da quella di Rusty. Sally lo adorava, e Dave aveva creato un mondo che sembrava girare intorno a suo figlio, mentre la madre di Blake lo aveva abbandonato e suo padre era sempre al lavoro. Non poteva immaginare che l’abbandono di sua madre fosse molto simile alla morte di Dave. Aveva paura di capire che avrebbe potuto generare lo stesso tipo di risentimento, ma doveva dire qualcosa. Ancora una volta, Blake desiderò essere più bravo a gestire le situazioni della vita che avevano a che fare con le emozioni.
«Mi dispiace tanto per tuo padre, Rusty», disse mentre guidava verso la scuola.
Rusty guardava fuori dal finestrino, le mani infilate nelle tasche della felpa. Non rispose.
“Va bene, l’argomento papà è vietato”. «E allora, in quale posizione giochi?», chiese.
Rusty si voltò a fissarlo. La mascella squadrata era identica a quella di Dave, ma lui la stringeva così forte che sembrava non appartenere al viso di un ragazzo tanto giovane. Gli occhi blu come quelli di Sally guardavano Blake, addolorati e indiscutibilmente arrabbiati. «Centrale». Tornò a guardare fuori dal finestrino.
Blake annuì, nel tentativo di alleviare il suo stato d’animo. Non poteva fare in modo che Rusty non sentisse la mancanza di suo padre, ma poteva provare a rendere più sopportabili i cinque minuti successivi. «Fantastico. E sei bravo?».
Rusty alzò le spalle.
Quando arrivarono al parcheggio della scuola, Blake fermò l’auto in un posto libero.
«Non è necessario che entri. Papà di solito mi lasciava qui», disse debolmente Rusty, senza lasciare spazio ad alcuna opposizione.
Blake ci provò lo stesso. «Non importa. Mi piacerebbe vederti giocare».
«No, davvero. Mi sentirei a disagio. Puoi lasciarmi qui davanti e venirmi a prendere dopo l’allenamento, come faceva papà?».
Blake provò una strana sensazione ad accettare, perché Rusty stava mentendo. Dave aveva detto che assisteva a tutti gli allenamenti. Forse Rusty non aveva voglia di spiegarsi perché suo padre non ci fosse. Blake doveva rispettarlo. «Certo, non c’è problema. A che ora devo tornare?». Blake guidò fin davanti alla scuola e si fermò.
«Alle otto e mezzo». Rusty uscì dall’auto e prima di allontanarsi si chinò e infilò di nuovo la testa all’interno. «Grazie». Strinse le labbra, poi disse tra i denti: «Lo apprezzo, davvero».
Blake lo vide entrare a scuola e si chiese cosa avrebbe fatto nella prossima ora e venti. Andare in un bar era fuori questione. Andare a casa non aveva senso. Il tempo di arrivare e sarebbe già stata quasi ora di uscire di nuovo e tornare a prendere Rusty. Decise di restare nel parcheggio, navigare in Internet con il cellulare, e magari chiudere gli occhi per un minuto o due.
Parcheggiò sotto un albero e pensò al primo appuntamento con la dottoressa Snow, Danica. Aveva ammansito i capelli ricci e li aveva legati lasciando libero il viso. Blake aveva notato i segni rivelatori dell’attrazione, il modo in cui gli aveva fissato le braccia per un secondo di troppo; poi, un attimo dopo, era passata in modalità psicologa. Gli piaceva quel lato di Danica, quello serio, intelligente. Aveva dovuto metterci tutta la sua buona volontà per non fissare le sue gambe lunghe e il modo in cui i capelli le lasciavano scoperta la pelle morbida del collo. Blake aveva guardato il pavimento, aveva guardato fuori dalla finestra, ovunque tranne che il suo corpo magnifico. Lui voleva davvero cambiare, ma si chiedeva se fosse stato in grado di rivelare il suo lato più oscuro e disonorevole a una donna bellissima. A quella donna bellissima. Che scelta aveva, in realtà? Uno psicologo? Non sarebbe stato meglio. Si sarebbe sentito come uno che volesse millantare, mentre in una donna avrebbe di sicuro trovato una persona con buone motivazioni per dirgli la verità nuda e cruda in faccia. Nessuna donna perdonava un donnaiolo. Anche quelle che rimorchiava speravano in qualcosa di più, e qualcuna lo aveva addirittura attaccato violentemente nel rivederlo dopo che lui non aveva chiamato come promesso. Adesso iniziava a capire la rabbia dietro quegli attacchi. Blake aveva causato a quelle persone un dolore profondo, e loro volevano solo restituirglielo.
Alzò lo sguardo e vide un gruppo di ragazzi in strada, tutti con felpe scure con cappuccio, piegati in avanti contro l’aria fredda della notte. Li fissò per alcuni minuti, poi si rese conto che quello al centro somigliava molto a Rusty.
Uscì dal parcheggio e guidò piano fino ad avvicinarsi a loro, guardando nello specchietto retrovisore. “Porca miseria, Rusty”. La rabbia gli ribollì nel petto. Non sapeva se doveva affrontarlo o lasciarlo andare. Che cosa avrebbe fatto Dave? Girò un angolo e si rese conto che non ne aveva idea. Era stato un amico così terribile? Non avrebbero dovuto parlare di queste cose? Degli alti e bassi della famiglia di Dave, e non solo delle conquiste di Blake? “Accidenti”. Che cosa avrebbe fatto suo padre?
Blake uscì dall’auto, girò l’angolo e si incamminò lungo il marciapiede verso Rusty.
Rusty si paralizzò. I suoi amici spostavano lo sguardo da lui a Blake.
«Allenamento annullato?», chiese Blake.
«Chi è quel tipo?», chiese il più piccolo degli amici.
Rusty mostrò al ragazzo il palmo aperto. «No», disse a Blake.
«Ma quale allenamento?», chiese un altro.
Blake osservò i cinque ragazzi, facendo fatica a capire. Non c’era nessun allenamento. Era la scusa di Rusty per uscire con i suoi amici. “Merda”. Blake poteva essere poco esperto di cose da genitori, ma sapeva che non stava bene che un ragazzo si prendesse gioco di un adulto o mentisse su dove andava e cosa faceva. Per quale motivo Dave avrebbe mentito sul fatto che assisteva agli allenamenti?
«Rusty? Posso parlarti a quattr’occhi?», gli chiese Blake, nel tentativo di evitargli l’imbarazzo.
«No», rispose. Poi girò sui tacchi. «Andiamo».
«Aspetta». Blake si fermò davanti a lui, le braccia incrociate. «Rusty, mi sono assunto una responsabilità. Non posso lasciarti andare via come se niente fosse». Gli si fece più vicino, parlando sottovoce. «Che cosa avrebbe pensato tuo padre?»
«Mio padre? Merda, a mio padre non gliene fregava un cazzo di me, lui pensava solo a se stesso. Mi lasciava qui e andava via, tutte le settimane». Rusty si allontanò in fretta, seguito dagli amici.
Che diavolo stava succedendo? Blake restò immobile, guardando il figlio del suo migliore amico andarsene, diretto Dio solo sapeva dove. Doveva fermarlo, affrontarlo di nuovo? Chiamare Sally? Merda. Non aveva la più pallida idea di quale fosse la cosa migliore da fare, quindi restò a guardare Rusty che si allontanava, poi tornò in auto e la lasciò nel parcheggio della scuola chiedendosi perché diavolo stesse perdendo il suo tempo.
Tirò fuori il cellulare e fece il numero dello studio di Danica. Se c’era qualcuno che poteva avere le risposte era una psicologa, e lei sembrava intelligente e piena di tatto. Come previsto, rispose la segreteria telefonica.
«Sono Blake Carter. Grazie per l’appuntamento di oggi. Vorrei tornare la prossima settimana se accetti di prendermi come paziente. Fammi sapere, per favore».
Alle otto e mezza in punto, Rusty tornò ed entrò nell’auto. Si lasciò cadere a peso morto sul sedile del passeggero e si mise a fissare fuori dal finestrino. Blake inspirò forte, aspettandosi di sentire odore di sigaretta o di marijuana. Non sentì nulla e immediatamente pensò che Rusty praticasse attività ancora più pericolose.
«Rusty?».
Lui si voltò a guardarlo. Aveva gli occhi limpidi, le mascelle serrate, i denti stretti. Blake stava guardando in faccia un ragazzo abituato e negare l’evidenza.
«Vuoi parlare?», gli chiese.
«Per niente», rispose Rusty senza mai smettere di guardarlo negli occhi.
“Questo ragazzo ha le palle”. «Devo pensare che fai uso di droghe?»
«No, non faccio uso di droghe», disse Rusty con decisione. «Non vado in giro a rubare né a fare stronzate che non dovrei fare, va bene?». Si voltò a guardare fuori dal finestrino. «Grazie per aver aspettato».
Blake dovette resistere alla voglia di dargli quello che meritava. Ma suo padre era appena morto, dopo tutto. Forse quel ragazzo aveva solo bisogno di essere lasciato un po’ in pace. Eppure…
«Ascolta, non so cosa sia successo tra te e tuo padre, ma io non sono lo schiavo di nessuno, hai capito? Se ti porto da qualche parte voglio sapere dove vai, non dove ti lascio. Vuoi andare in giro con i tuoi amici? Allora devi dirlo a tua madre. Vuoi startene seduto per terra per tre ore al buio a metterti le dita nel naso? Devi dirlo a tua madre. Ma ti puoi scordare che ti copra se vuoi andartene in giro senza dirmi quello che combini».
Blake mise in moto l’auto e guidò fino a casa di Sally, mentre Rusty continuava a fissare fuori dal finestrino. Restarono in silenzio.
Una volta arrivato, Blake si fermò e scrisse il suo numero di telefono. «Prendi. Nel caso ti trovassi nei guai». Lui alzò le spalle. Blake non voleva imporre la sua presenza nella vita di quel ragazzo, ma voleva fargli sapere che lui c’era. Gli diede il numero.
Rusty stringeva la maniglia della portiera ma non sembrava voler scendere dall’auto. Teneva il pezzo di carta stretto in una mano. «Lui non era l’uomo che pensavi che fosse». Uscì e chiuse con violenza la portiera.
“Porca miseria. Chi diavolo crede di essere quel ragazzo?”. Blake sapeva di dover parlare con Sally, ma non era dell’umore adatto per affrontare una cosa così brutta quella sera. E parlare con lei lo avrebbe costretto a pensare alle cattiverie che Rusty aveva detto su Dave. Guardò il cellulare. Danica non aveva richiamato. Gli psicologi, o i medici, non dovevano essere sempre reperibili o cose del genere? La serata proseguiva di bene in meglio.