Capitolo undici
Blake si fermò davanti alla porta della dottoressa Snow. Alzò la mano per bussare, poi si rese conto che non sapeva come ci si comporta nello studio di uno psicologo. E se oltre la porta avesse trovato la scrivania e un divano sul quale avrebbe dovuto sedersi? Sedersi? Se la gente davvero si sdraiasse su un divano? Che cosa si faceva di solito? Che cosa era normale? Il disagio gli stringeva il petto.
Guardò le scale alle sue spalle e pensò di scappare. La dottoressa aveva il suo numero di telefono. Poteva lasciare un messaggio e dire di essere malato, oppure darle buca e non presentarsi all’appuntamento. Puerile. Poco prima Sally aveva chiamato, e il cuore di Blake era quasi esploso, un’ansia insopportabile lo aveva invaso. Aveva chiuso in fretta la telefonata, dicendo di essere occupato, ma la verità era che non sapeva come comportarsi con lei. Allegro? Triste? Confortante? Dal punto di vista emotivo era un analfabeta.
Blake sapeva che il primo anno di apertura di AcroSki era stato duro per Sally. I guadagni erano stati scarsi fino a quando avevano finito di pagare il mutuo che avevano chiesto per comprare il negozio, ma Sally non si era mai lamentata. Aveva sempre sostenuto Dave, anche quando era stato necessario lavorare di notte per far decollare l’attività. Portava la cena quando lavoravano fino a sera tardi, e la portava per tre perché non si dimenticava mai di lui. Blake doveva farlo. Per Dave. Per Sally. Per se stesso.
Proprio quando allungò la mano verso la maniglia, la porta si spalancò. Un omino basso, con gli occhi sbarrati, che mostrava sul volto la stessa ansia che provava Blake, gli si parò davanti. Poi abbassò lo sguardo sul pavimento.
«È tutta sua», disse, e si allontanò in fretta.
Lui entrò nella piccola sala d’attesa. Quattro sedie, due su ciascun lato della stanza, separate da un tavolino basso in stile antico, davano all’ambiente un’aria accogliente. Blake chiuse piano la porta alle sue spalle. Osservò una libreria di legno piena di libri di autoaiuto appoggiata contro la parete più lontana e si chiese se non stesse facendo un errore. Si sedette. La sala era stranamente silenziosa, a parte il rumore di una macchina. Appoggiò una caviglia sul ginocchio opposto, poi la rimise per terra. Guardò l’ora: le 13:55. C’era una porta sul lato opposto all’entrata. Blake la fissò. “La dottoressa Snow è lì dietro”. E se fosse stata una gran figa? Lui sarebbe riuscito a parlarle di se stesso? E se fosse stata terribilmente brutta? Avrebbe reso la situazione più semplice? O più difficile, perché lei si sarebbe sentita a disagio per via del suo aspetto fisico?
Blake guardò di nuovo la porta d’entrata. Ogni cellula del suo corpo voleva che si alzasse e uscisse da quella porta. “Esci. Vattene. Questo posto non fa per te”.
Danica posò un blocchetto per appunti nuovo e una penna sulla scrivania, poi si avvicinò alla porta, dando un’aggiustatina alla gonna a tubino nera e alla camicia colorata. Aprì la porta e uscì sorridendo, il suo solito benvenuto a un nuovo paziente.
«Salve, sono la dottoressa Snow». Il sorriso si spense. Il cuore ebbe un sussulto. Era lui.
Blake scoppiò a ridere. «Questo sì che è davvero imbarazzante».
Danica non sapeva cosa dire. Non si era mai trovata in una situazione del genere prima di allora. Doveva dirgli che non poteva aiutarlo? “Perché?”, le avrebbe chiesto. Lei avrebbe risposto: “Perché credo che tu sia davvero un gran figo. Perché nelle ultime dodici ore non ho pensato ad altro che alle tue labbra”. Merda. Poteva farcela. Non c’era nulla tra loro. Lui aveva bisogno di aiuto, e il suo lavoro era aiutare le persone. “Cresci”.
«Nooo, imbarazzante? Entra pure. Parliamo». Lo lasciò entrare nel suo studio, poi si rese conto che doveva dargli una via d’uscita nel caso lui si sentisse a disagio quanto lei.
Blake si accomodò su una delle sedie di pelle davanti alla scrivania. Danica gli si sedette di fronte. Non si metteva mai dietro la scrivania quando era con un paziente nuovo, pensava di creare una barriera troppo alta. Ma in quel momento desiderò essere seduta dietro la scrivania. Le avrebbe fatto piacere avere una barriera.
«Va bene, allora, sono una psicologa. Sorpresa». Si sforzò di sorridere. «Sei qui perché hai bisogno di aiuto, ma visti i recenti trascorsi», alzò in aria il gomito, «e», sollevò una caviglia, «se ti senti a disagio posso indicarti il nome di un’altra persona». “Ti prego non andartene. Vai. No, non andare”. Non si rese conto di trattenere il respiro fin quando lui non rispose.
«A dire il vero, credo che questo potrebbe essermi di aiuto». Blake incrociò le braccia sul petto.
Con aria pensosa, Danica notò la sua postura e dovette impegnarsi per non assumere la sua stessa posizione protettiva. Si scoprì a osservare le braccia di Blake e afferrò il blocco per gli appunti e la penna che aveva lasciato sulla scrivania.
«Come funziona?», chiese Blake.
La domanda era facile per Danica. «Bene, di solito inizio con le scartoffie di accettazione. Le solite domande. Dovrai riempire questo modulo». Gli porse una cartellina con le necessarie dichiarazioni. «Se lo riempi subito, poi possiamo parlare». Danica andò a sedersi dietro la scrivania: il bisogno di una barriera era più forte di quanto avesse creduto.
«Va bene. Qui? Oppure vuoi che vada a riempirlo nella sala d’attesa?». Blake si alzò.
«Dove preferisci. Ci vogliono pochi minuti».
Per qualche istante nessuno dei due si mosse. L’atmosfera tra loro era densa, non imbarazzata né elettrizzata, era solo come se si fosse formata una bolla in mezzo e nessuno dei due sapesse come aggirarla.
«Va bene». Blake si rimise seduto.
Danica gli diede le spalle e fece finta di scorrere le schede nel suo archivio. “Puoi farcela. Stai calma. Pensa che è un paziente. È un paziente. È un paziente”.
«Fatto, era facile». Blake appoggiò la cartellina sulla scrivania e Danica ci girò intorno per andare a sedersi. Lesse velocemente il modulo. “Trentaquattro anni, single, non assume medicinali, proprietario negozio articoli da sci, nessun episodio medico particolare”. Danica si schiarì la gola, pensando: “Tranne il fatto di essere un dongiovanni, forse”.
Prese un respiro profondo ed espirò lentamente. «Grazie. Blake, perché sei qui? Hai detto che un tuo amico è morto?». Scoprì di poter entrare nel suo ruolo di psicologa con più facilità di quanto avesse pensato.
Blake abbassò gli occhi e si guardò le mani, poi guardò di nuovo Danica.
“Dio, è davvero bellissimo. Basta!”.
«Sì, Dave, il mio amico». Si fermò e si guardò intorno. «Dave Tuft era il mio migliore amico. È morto in un incidente sulle piste da sci sabato scorso».
«Sabato?». Danica non riuscì a non far trasparire la sorpresa attraverso la voce. «Ma eri al bar sabato sera. Ti ho visto, ricordi?»
«Scappare», disse Blake con il volto teso. «È una delle mie… una delle cose sulle quali devo lavorare. Ascolta», Blake si chinò in avanti, i gomiti sulle ginocchia, «non sono uno che non sa riconoscere i propri errori. So di essere… sono stato un po’…».
Danica sollevò un sopracciglio e riformulò il giudizio su di lui tenendo conto della sua onestà. Lei non tollerava le bugie, anche se in questo caso potevano renderle il compito molto più semplice. Le bugie le facevano perdere immediatamente interesse per una persona, mentre all’onestà trovava più difficile resistere. «Be’, sono quel tipo di ragazzo».
“Andiamo. Puoi farcela, Blake”. «Quel tipo?». Danica non amava imbeccare i pazienti, nemmeno Blake. Soprattutto Blake. Non vedeva l’ora di sentirlo confessare di essere la persona che lei pensava che fosse.
«Quel tipo. Sai, no? Quello che esce con una ragazza diversa ogni sera. Quello che colpisce per errore una donna al naso e poi ne guarda un’altra mentre la prima è ancora lì che sanguina».
Quindi se ne rendeva conto. «Prima di parlare di questo, e ne parleremo, vorrei conoscere almeno le cose più importanti della tua vita familiare».
Blake sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia.
«Non sono una psicologa che pensa che tu debba rivivere la tua infanzia per stare meglio, ma mi piacerebbe sapere che tipo di esperienze hai vissuto, per poterti dare l’aiuto più adeguato». Riuscì a concludere il suo abituale discorsetto senza intoppi. “Facile”. Danica stringeva la penna così forte che le nocche le facevano male. Era lì che i cattivi crollavano. Molestie, abusi psicologici, qualsiasi stimolo ricevuto durante l’infanzia poteva ridurre l’uomo più forte alle lacrime, o portarlo alla violenza. Mentre lui rispondeva, lei cercava con attenzione i segni rivelatori della seconda ipotesi.
«So che devo parlarne, ma è difficile». Blake sospirò profondamente, e Danica vide per un attimo un lampo di dolore passargli negli occhi. «Mia madre è andata via quando avevo tre anni».
«L’hai rivista in seguito?».
Blake scosse la testa. «Non lasciò il suo nuovo indirizzo. Ho vissuto con mio padre». Guardava fuori dalla finestra, gli occhi seri, come se stesse contemplando qualcosa. Quando si rivolse di nuovo a Danica, lei ritrovò la stessa dolcezza che aveva intravisto quando lui l’aveva colpita al naso nel bar. «Lui ha cercato di fare del suo meglio. Aveva due lavori, passava del tempo con me. Non sono stato un bambino trascurato, e non ho subìto abusi».
“Meglio così”. Danica aspettò pazientemente che continuasse. Tutti i pazienti si prendevano delle pause mentre raccontavano la loro vita. Danica sapeva bene che incalzarli era controproducente. Il modo in cui continuavano era spesso rivelatore.
«Non lo vedo spesso. Si è trasferito, e io…».
Danica aspettò, ascoltando i deboli rumori che dalla strada filtravano attraverso le finestre chiuse. Attese finché il disagio di Blake per quel silenzio diventò chiaro nella sua agitazione. Era abituata. Blake si agitava. Lei aspettava.
«Cavolo, non lo so. Non esiste un motivo vero per il quale non ci vediamo, forse solo il fatto che lui è vecchio e io sono egoista».
“Bene! Un punto per l’autoconsapevolezza!”. Danica annuì, nascondendo l’entusiasmo per la sua onestà e chiedendosi cosa stesse nascondendo. Tutti nascondevano qualcosa. «Va bene, quindi sei cresciuto senza tua madre, e tuo padre era una brava persona. Per il momento non ho bisogno di altro per proseguire». Appoggiò gli appunti sulla scrivania e si rilassò un po’, dopo qualche secondo appoggiò il mento sopra le dita delle mani unite. «Parlami di Dave».
Gli occhi seri di Blake divennero tristi, poi assunsero un’espressione che era a metà tra i due sentimenti. «Era il mio socio. Andavamo a sciare insieme».
Danica annuì e aspettò.
Blake abbassò lo sguardo e parlò piano. «Mi incitava, con le donne, sai? Ma poi, un attimo dopo, mi diceva che non avrei dovuto comportarmi come facevo». Gli occhi di Blake erano fissi su Danica. «È grazie a lui se sono qui. È stato lui a darmi il tuo numero di telefono prima che… prima dell’incidente».
«Bene, sembra fosse un bravo ragazzo. Mi dispiace per la tua perdita. Deve essere molto doloroso. Hai voglia di parlare dell’incidente?». Danica sentiva che si stava appassionando al suo caso, come era accaduto per Keith Small, un altro paziente. Era un alcolizzato che andava a tutti gli incontri degli alcolisti anonimi con la speranza di riuscire a cambiare, anche se poi tornava a casa e beveva. Ci era voluto oltre un anno di lavoro con lui, ma alla fine era entrato in una clinica di disintossicazione e adesso viveva in modo più sobrio. Danica vide la stessa speranza negli occhi di Blake. Aveva visto quello sguardo molte altre volte. Sebbene la tragedia fosse un grande catalizzatore, pochi clienti restavano davvero fermi nella convinzione di seguire il proprio percorso di cambiamento dopo che lo shock iniziale per la perdita di una persona cara si consumava.
Blake scosse la testa. «Per niente».
Danica faceva fatica a staccargli gli occhi di dosso. “Come può un uomo essere così bello?”. «Va bene, Blake, che cosa vorresti condividere con me?». “Il mio letto? Gesù, da dove mi è uscito? Non è una buona idea”.
«Le altre mie… abitudini». Si appoggiò di nuovo allo schienale della sedia, incrociando le braccia. «È strano, vero? Parlare di queste cose dopo che mi hai visto con quelle ragazze? Cioè, se per te è imbarazzante, non dobbiamo parlarne per forza».
«Blake, questo è il mio lavoro. Per me sei un paziente e mi fa piacere aiutarti ad affrontare questi problemi. Ma come ti ho detto quando sei entrato, se ti senti a disagio, ti prego, non esitare a dirmelo e ti indicherò il nome di un collega». Danica avrebbe dovuto provare sollievo; invece, si sentì in competizione. Lei era davvero brava nel suo lavoro, e avrebbe giurato solennemente di trattarlo come qualsiasi altro paziente. Basta con i pensieri osceni. Ancora non riusciva a vederlo soltanto come un paziente ma avrebbe ignorato i suoi peccaminosi turbamenti e non avrebbe superato quella grigia, sottile, infausta linea che tutti gli psicologi erano tenuti a rispettare. Era capace di fargli da psicologa. Era la migliore della città, almeno così le piaceva pensare.
Blake la guardò, annuendo, riflettendo. Si chinò in avanti, poi appoggiò di nuovo la schiena alla sedia. «Sei sicura?»
«Sì, sono sicura. Ascolta, ho aiutato… non ho una parola migliore… dei dongiovanni in passato. Anche se è un aspetto di te sul quale vuoi lavorare, sento che è in ballo qualcosa di più del modo in cui impegni il tuo tempo libero. Hai perso un amico, una persona che naturalmente significava tanto per te. Forse è da qui che dovremmo iniziare, quando sarai pronto».
«Forse. Ma non sono pronto».
«Va bene. Vuoi continuare la seduta di oggi? Ci restano quindici minuti. Altrimenti, puoi chiudere qui e prenderti un po’ di tempo per decidere se proseguire con me».
Blake si alzò e Danica dovette combattere contro la voglia di snocciolare le sue credenziali: dottorato in psicologia clinica all’università di Boston, diploma al Tufts.
Lui le strinse con energia la mano. Danica si alzò, le spalle dritte, regina del suo regno terapeutico. «Mi ha fatto piacere averti qui». Poi aggiunse, solo per consolidare la relazione professionale: «Ti invierò la fattura per posta».
Blake annuì. «Grazie», disse e si avviò verso la porta. Si fermò prima di aprirla e aggiunse: «È stato bello rivederti». Sorrise, e Danica sentì che la sua condotta professionale svaniva. Si schiarì la gola per calmare i nervi.
«Sì, anche per me. Mi dispiace per il tuo amico». Danica lo guardò mentre usciva e quando la porta si richiuse completamente, si lasciò cadere sulla sedia con un lungo sospiro di sollievo. “Blake Carter”. Si sentiva i nervi tesi per il piacere. Lui era stato lì, nel suo studio. Era per questo che si agitavano tanto Kaylie e Belinda? Per quel calore che iniziava dalla pancia e saliva fino al petto, minacciando di esplodere da un momento all’altro? Adesso capiva. Si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro, le braccia incrociate, un sorriso stampato sulla faccia. Il cellulare squillò, e lei riavvolse il suo entusiasmo come una lenza.
Prese il telefono. Kaylie. «Se ti dico chi è appena uscito dal mio studio, non mi crederai», disse ancora esaltata.
«Arnold Schwarzenegger? Kate Middleton? Dane Cook?», rispose Kaylie ridendo.
«Blake Carter».
«Che cosa? Chi?», disse Kaylie improvvisamente senza più entusiasmo.
Fu in quel momento che Danica si sentì come se un mattone l’avesse colpita in pieno volto. O tornava in sé o si rifiutava di prenderlo come paziente, casomai fosse tornato. «Non posso dirtelo. Non avrei dovuto dirti niente. Accidenti». Cosa le era passato per la testa? Sarebbe stata un’impresa ardua, ma lei poteva farcela. Non era il tipo di psicologa da perdere la licenza per un errore del genere.
«Che diavolo succede, sorellina? Io ti dico tutto».
Danica sentì il dispiacere nella voce di Kaylie. «No, cioè, non posso rivelare i motivi per i quali è venuto, solo che è stato qui».
«Oh, mio Dio, davvero? Sarà un tuo paziente? Non è scorretto o qualcosa del genere?», la voce di Kaylie tornò a essere seria.
«Non necessariamente. È stato un suo amico a parlargli di me, e noi non abbiamo alcuna relazione pregressa. Lui mi ha dato una gomitata al naso, e abbiamo parlato al bar. Non c’è stato nulla di più».
«Andiamo. Non è come dire che “non avete esattamente fatto sesso”? Chi sei adesso, Bill Clinton?».
A Danica non piacque l’insinuazione, anche se sua sorella aveva in parte ragione. Se si fossero baciati, Danica non lo avrebbe accettato come paziente, ma non avevano avuto alcun contatto di quel tipo. Diamine, non sapeva nemmeno se Blake le piaceva davvero, a parte l’attrazione fisica. Forse non era esattamente così, ma lei era una professionista. Era lei che sceglieva con chi finire a letto e con chi no, e Blake adesso era ufficialmente fuori questione.
«No, non è assolutamente la stessa cosa. Ascolta, quel ragazzo ha bisogno di aiuto, e forse lo aiuterò io. Non sono nemmeno certa di volerlo accettare come paziente».
«E se gli piaci e si sta solo inventando un motivo per avvicinarti?».
Kaylie aveva una fervida immaginazione. Danica meditò sull’idea per un secondo, poi la eliminò subito. Ridicolo. «Quando ha chiamato non sapeva nemmeno che fossi io. È tutto sotto controllo. Davvero».
«Se lo dici tu».
«Comunque, perché mi hai chiamata?», chiese.
«Oh, quasi me ne dimenticavo. Chaz e io andiamo all’Indie Rock Fest questo fine settimana. Vuoi venire?».
Kaylie era sempre in partenza per qualche posto. «Ad Atlanta? Chi è Chaz?»
«Lo hai visto. Il ragazzo che ho conosciuto al Bar None».
«Capisco. Kaylie, conosci questo tipo da quanto, un giorno e mezzo? Non sai niente di lui. Credi sia prudente?»
«Andiamo, mammina. Ho ventisette anni. Credo di saper valutare le situazioni. Tu sei l’unica persona che non riesco a capire. Perché non puoi prenderti una pausa e divertirti un po’? Solo perché mamma e papà hanno sempre detto che tu eri quella intelligente e responsabile non significa che tu debba comportarti per forza in quel modo».
Significava che doveva comportarsi in quel modo?, si chiese Danica. Aveva vissuto seguendo i loro desideri anziché essere quello che avrebbe voluto? Stava vivendo una profezia che si autoavverava? Non vivevano tutti così? Ripensò alla sua idea del centro per i ragazzi. Scacciò quei pensieri dalla testa, incapace di analizzarli nello stato mentale in cui si trovava. Aveva bisogno di concentrarsi sulle cose importanti, e un altro paziente sarebbe arrivato entro pochi minuti. «L’ho fatto, ricordi? Sabato sera? E cosa ho ottenuto? Gli orribili postumi di una sbronza grossa come una casa».
«E allora? È stato divertente, no?», disse Kaylie prendendola in giro. «Non prenderti troppo sul serio e vieni con me, su».
Danica immaginò l’espressione soddisfatta di Kaylie, gli occhi che dicevano: “Vieni a giocare con me”, il suo linguaggio del corpo che la sfidava con le braccia incrociate e le labbra imbronciate, mentre cercava di convincerla a essere come lei e a scrollarsi di dosso le sue responsabilità. In realtà, le responsabilità di Kaylie erano ben poca cosa se confrontate con quelle di Danica. Tutta la sua vita era totalmente improvvisata. «Be’, per quanto mi piacerebbe accompagnarti, e credimi se ti dico che mi piacerebbe, non posso farlo. Esco con Michelle la domenica, ricordi? E questo mi fa venire in mente che volevo chiederti dove potrei portare un’adolescente per farla divertire».
«Indie Rock Fest», disse Kaylie in tono serio.
«Non mi sei di aiuto per niente. Devo prepararmi per il mio prossimo paziente. Ti chiamo più tardi?».
«Si divertirebbe un mondo», insistette Kaylie.
«Devo andare. Ti voglio bene».