Capitolo ventidue
La belva giaceva morta sul terreno boscoso e Thaylina si chinò sul suo cadavere. Non vide un bel volto o un sorriso affascinante. Solo la sua vera natura: quella di un mostro orribile. Abbassò la bocca al suo orecchio e sibilò: «Questo l’ho voluto io».
Gemo per il fastidioso rumore che sento, vorrei rimanere nei miei sogni: bagliori di lucciole e… be’, Grant.
Per favore, si rechi immediatamente in segreteria.
Non è un bel messaggio con cui svegliarsi.
In un attimo, i pensieri volano a mia madre. Temo che stia male o che le sia successo qualcosa di grave.
Scendo dal letto, ancora disorientata, e inizio a buttarmi addosso dei vestiti. Con la maglietta mezza infilata, mi viene invece in mente che potrebbero avere i risultati dei miei esami tossicologici. Rallento i movimenti. Di già? Non ho mai fatto un esame del sangue prima d’ora, ma mi sembra davvero presto.
Non so spiegarmi esattamente il motivo ma ho la sensazione che non ci saranno buone notizie. E, non appena entro nella sala del trono bianca e nera della dottoressa Kendall, ne ho la conferma.
Seduto dall’altra parte della sua scrivania c’è Niall. E, in piedi, di lato, triste e con le braccia conserte, il signor Garner. Posa brevemente gli occhi su di me prima di abbassarli di nuovo a terra.
Niall si alza quando entro, la sua espressione è stoica e controllata come sempre. E la dottoressa Kendall ha le labbra serrate, accentuando così le rughe di espressione intorno alla bocca e incrinando la sua facciata plastica.
Guardo entrambi e sono tentata di uscire dalla stanza.
«Si sieda, signorina Peri», mi ordina la dottoressa Kendall, dando un taglio al suo atteggiamento sdolcinato.
Merda.
Niall rimane in piedi fino a che non prendo posto. Mi sistemo sulla sedia, sono a disagio e attendo che il mondo mi crolli addosso.
«Andiamo dritti al punto», esclama la dottoressa Kendall, unendo le mani sulla scrivania. «Ci è stato comunicato che ieri sera era fuori dal campus senza il suo accompagnatore».
Chiudo gli occhi e impreco tra me e me. Sul serio? Ho appena trascorso la notte migliore della mia vita e ora mi puniscono. Ma cosa diavolo fai, karma? Cosa ho fatto per meritarmi tutto ciò… questa volta?
«Sappiamo che l’hanno fatta uscire prima dal lavoro ma, invece di tornare direttamente a scuola, è stata… altrove per diverse ore».
«Ma sono tornata insieme agli altri», dico in mia difesa. «E non ho fatto nulla di male in quel lasso di tempo».
«È interpretabile», replica. «Ti sono state date delle regole da rispettare per la tua sicurezza. E una di questa era non lasciare il campus senza un accompagnatore a meno che non andassi a lavorare».
Vorrei ribattere che ero accompagnata, ma forse mettere in mezzo Grant, per quanto sia una brava persona, non è il massimo. L’ultima cosa che voglio è che finisca nei guai… perché questi qui credono che mi serva una dannata babysitter. E la persona che mi è stata assegnata viola le loro regole quotidianamente. Ma non è colpa di Lance. È la loro stupida logica il problema.
«Giusto», rispondo. «Ho commesso un errore. Ho lasciato il lavoro e non sono tornata subito qui. Non ero con un accompagnatore approvato da voi. Ma non ho rubato, non ho assunto droghe, fatto sesso o partecipato a una rissa. È un miglioramento, no? Sono sicura che il signor Garner concorderà con me che questo è un grosso passo nella direzione giusta per me».
Il signor Garner si schiarisce la voce per nascondere una risata. La dottoressa Kendall lo fulmina con lo sguardo; Niall invece inspira ed espira rumorosamente.
«Il fatto che non si sia fatta arrestare o mettere incinta non è una vittoria, signorina Peri», mi rimprovera la dottoressa.
«Ne è sicura? Io invece mi stupisco di me stessa», dico con un’alzata di spalle arrogante. L’ho copiata da Brendan.
Il viso della preside diventa rosso come i suoi capelli.
«Lana, questo potrebbe essere uno di quei momenti in cui si dovrebbe tacere. Di solito sei brava a restare in silenzio», mi consiglia Niall. «Dottoressa Kendall, comprendo le vostre regole e le rispetto. Ma Lana sta ammettendo di aver fatto una scelta sbagliata e non ha commesso alcuna trasgressione mentre non era sotto il vostro controllo. Abbiamo una persona rispettabile che può confermare la sua versione dei fatti, se necessario. Cosa possiamo fare, quindi, per sistemare la situazione?».
Fisso Niall con un sopracciglio inarcato. Il signor Garner sembra meravigliato quanto me.
La dottoressa Kendall si sistema la gonna con la mano, ricomponendosi. «Tutte le uscite dal campus saranno negate per un mese, lavoro incluso».
«Ma cosa ca…».
Il signor Garner arriva alle mie spalle e mi appoggia una mano sulla spalla per farmi restare seduta. «Mi sembra corretto».
La preside lo guarda. «E le consiglio di leggere meglio il suo manuale di coach, signor Garner. La ritengo direttamente responsabile per le azioni di Lana».
Lui serra le labbra e annuisce. «Certo».
Lo farò licenziare, merda.
«Grazie, dottoressa Kendall», esclama Niall, alzandosi e accompagnandomi alla porta. Anche il signor Garner vuole uscire in fretta. «Devo parlare con Lana prima di andare via. Sono sicuro che questa sarà l’unica volta in cui dovremo affrontare questi argomenti».
Quando arriviamo nell’atrio, il signor Garner si volta verso Niall. «Mi dispiace, signor Harrison. So che mi ha affidato Lana… non so cosa dire, se non che la terrò d’occhio con più impegno».
«Va bene, Isaac. Non puoi fare altro. Fidati, lo so». Niall mi rivolge un’occhiata di sbieco.
Mi trattengo dall’alzare gli occhi al cielo. «So badare a me stessa».
«No, non è vero», replicano all’unisono i due uomini.
«Ci sentiamo», dice Niall al signor Garner. Poi a me: «Lana, vieni un attimo». Si dirige verso le porte della sala d’attesa. Io lo seguo con le spalle incurvate verso terra.
«So che sei abituata ad avere la tua libertà e a fare quello che vuoi, ma queste sono alcune delle ragioni per cui sei qui. Sei più libera qui che nel carcere minorile e lo sai. Quindi ti consiglio di iniziare a rispettare le loro regole. La Blackwood tollera pochissimo l’insubordinazione. Hai già un bel numero di infrazioni minori sulle spalle e ora anche una più seria. E sei qui da poche settimane. Devi essere più responsabile, Lana».
«Non ho fatto davvero nulla di male ieri sera», ribatto sincera.
«So con chi eri e conosco la famiglia Philips. Grant è una persona responsabile e posso solo sperare che sia più lui un’influenza positiva per te, che tu una negativa per lui».
Apro la bocca per replicare all’offesa ma lui prosegue: «Lo approvo, Lana. Ti fa bene. E se riesci a rispettare le regole fino all’inizio dell’anno scolastico, posso chiedere che diventi lui il tuo accompagnatore fuori dal campus».
Sentendo che approva Grant sembra quasi… paterno. Non sembra proprio il mio avvocato a parlare. Sono senza parole. Rimango a fissarlo con la bocca semiaperta.
Niall mi rivolge un sorriso tirato.
«Mmm», commento, cercando di riprendere a parlare. «Ha sentito mia madre? Non riesco mai a chiamarla, voglio essere sicura che stia bene».
Lui abbassa gli occhi con solennità.
«Cosa?». Trattengo il fiato.
«È svenuta sul lavoro l’altra sera. Ma sta bene. Olivia ha organizzato di portarla dal dottore la prossima settimana per un controllo».
Chiudo gli occhi con un sospiro. «Quindi non sta bene».
«Non lo sappiamo con certezza. Lei dice di sentirsi bene e dà la colpa al non aver mangiato».
«Mente», gli dico.
«Per questo Olivia si accerterà che vada alla visita. Ti farò sapere se c’è qualcosa di cui preoccuparsi. Per ora, fai quello che ti viene richiesto. Basta coi casini, Lana. Non posso fare molto altro per salvarti».
Sento bussare alla porta poco dopo aver confermato la mia presenza in stanza per il check-in della sera.
«Sono qui per farti evadere», esclama Brendan entrando in camera. So che il suo tempismo non è una coincidenza. Il nostro governo dovrebbe davvero assumerlo prima che lo faccia un altro Paese: se lo prendono prima altri, siamo fottuti.
«Lo sai?». Poi scuoto la testa riconoscendo la mia stupidità. «Certo che lo sai. Non possono beccarmi che lascio la stanza».
«Infatti non accadrà».
Per quanto non mi fidi di lui, gli credo. «Dove andiamo?»
«Nella mia camera. C’è un meeting con il principe Harrison, il mediano».
«Lo sai che questo non fa di te un cavaliere, vero?»
«Ti sto salvando ora o no?»
«O rapendo».
«Ehi, guarda che non devi venire per forza. Sei tu quella che vuole risposte». Esita un attimo, poi aggiunge: «Ma ti avviso che questo passaggio è stretto, lungo e molto buio. Ho una torcia ma non sono sicuro sia sufficiente».
Lo osservo. Il suo viso non rivela nulla, forse è davvero preoccupato per me. Ma il fatto che mi metta in guardia riguardo quello che potrebbe accadere se lo seguo, la dice lunga.
«Puoi stringermi la mano se ti aiuta. Ma non prendermi a pugni, mi fai male».
Rido per un istante. Lui mi porge la mano e io la afferro.
Brendan fa capolino dalla porta della mia camera, controllando il corridoio in entrambe le direzioni prima di tirarmi dietro di sé. Ha messo del nastro adesivo sul chiavistello per far sì che la porta non si serri automaticamente una volta chiusa. Camminiamo velocemente verso le scale. Nei pochi secondi che ci metto per controllare che il corridoio sia ancora vuoto e girarmi verso di lui, mi trovo davanti un’apertura nel muro.
«Pronta?», domanda Brendan stringendomi la mano. Annuisco. Accende la torcia e illumina una stretta e ripida scala di pietra. Scendo un gradino per permettergli di chiudere il passaggio segreto; riprendo la sua mano. La scala è stretta come quella che conduceva alla Stanza del Silenzio; il muro è così vicino che sento il mio respiro rimbalzarvi contro. Ho il fiato corto quando raggiungiamo lo spiazzo successivo. «Come va?»
«Distraimi», dico con voce roca. Ho la fronte sudata. «Dimmi qualcosa di te. Qualsiasi cosa, per quanto stupida sia».
«Mi piace che pensi che qualsiasi cosa mi riguardi sia stupida».
Rido. O meglio, rantolo.
«Avevi mai», inspiro un paio di volte, «lasciato Nantucket prima di venire qui?»
«Risparmia il fiato, principessa. Non voglio che tu svenga prima di arrivare in camera. E per rispondere alla tua domanda, sì. Non sono rimasto intrappolato sull’isola come mia madre. Sono andato soprattutto a Boston e New York. A Londra l’estate scorsa. Mia nonna è protettiva ma si fida di me. Ha capito abbastanza in fretta che non ero il tipo di persona a cui bisogna imporre delle restrizioni. Quindi mi ha insegnato qualche valore e ha sperato che ne facessi buon uso».
«Ma non è stato così», mormoro.
Si ferma e mi strattona per tirarmi a sé. «Ma compenso con la mia autostima. Sono molto bravo in tutto quello che faccio».
Lo spintono in avanti. Lui ridacchia minaccioso e prosegue lungo la scala, che ora curva improvvisamente. So che siamo scesi di cinque piani, ma sembra di entrare nella bocca dell’inferno man mano che andiamo avanti. L’aria diventa più fredda e pesante, come se potessi sentire il gusto del decadimento a ogni respiro.
Rabbrividisco quando il freddo mi sfiora la pelle sudata. «Sicuro che non mi ucciderai e mi lascerai qui con la tua collezione di cadaveri?»
«Sicuro, sei troppo simpatica», risponde. «Stammi vicina».
Gli afferro l’avambraccio con la mano libera e mi stringo a lui.
«Parlami», lo imploro, inciampandomi nei miei stessi piedi che non ne vogliono sapere di muoversi. Voglio chiudere gli occhi per far smettere questo vorticare, ma so che cadrei. Non voglio più stare qui sotto. Non so quanto passerà prima che venga colta di nuovo da un attacco di panico.
«Sei una persona affascinante, Lana Peri». Lo sento a malapena a causa del cuore che mi pulsa nelle orecchie. Sfrego la spalla contro il muro viscido e umido e trattengo un grido. «Con tutto quello che la vita ti ha tirato addosso, sai comunque badare a te stessa. Cavolo, non vorrei trovarmi in un vicolo buio con te». Ride. «Oh, aspetta. Ci siamo già».
Gli tiro un pugno sul braccio.
«Cazzo! Smettila di picchiarmi. Sei molto più forte di quello che farebbe pensare la tua taglia ridotta».
«E allora smettila di dire stupidaggini», ribatto.
Finalmente troviamo altre scale e iniziamo a risalire. Il mio corpo è scosso dai brividi. Devo fermarmi.
«Aspetta». Inspiro, ma mi sembra di respirare attraverso una cannuccia. «Aspetta». Mi chino in avanti cercando di gonfiare d’aria i polmoni.
Brendan mi solleva e mi carica sulla spalla. «Ti porto fuori di qui». Non cerco di resistere, anche se avere le sue mani addosso mi fa tremare ancora di più. Placo l’istinto di scalciare e picchiarlo, anche se è quello che vorrei fare. Strizzo gli occhi, stringo i pugni e mi concentro sul rumore dei suoi passi.
È veloce, si muove in fretta su questa stretta scala. Sembra quasi non senta il mio peso in spalla. Noto i fasci di muscoli allenati e tesi lungo la sua schiena. Ho la sensazione che sotto quella maglietta si celino degli addominali d’acciaio. Suppongo che mangiare come un uomo di mezza età dia i suoi frutti.
Mi posa su una superficie fredda di pelle. Quando apro gli occhi, la vista è appannata da cerchi scuri. Mi sistemo sulla seduta, ho paura di svenire. Mi piego in avanti sulle ginocchia, mi concentro sul respiro.
«Tieni, bevi questo». Brendan mi porge un bicchiere. Bevo tutto d’un fiato e tossisco subito. Il liquido mi brucia la gola.
«Grazie», dico tra i colpi di tosse. «Non mi serviva a niente la gola».
«Stai bene?».
Mi appoggio allo schienale e aspetto che il cuore torni a battere normalmente. Alzo lentamente gli occhi su Brendan. Mi sta osservando, indossa dei pantaloni scuri e una camicia grigia: sembra pronto per un servizio fotografico per GQ, non appena uscito da un tunnel sotterraneo.
«Sì».
«È morto, sai?».
Non serve che chieda a chi si riferisce.
Lo guardo, aspetto una spiegazione che non mi fornisce. «Come sai cosa è successo?».
Alza le spalle e si appoggia al bancone, incrociando le gambe all’altezza della caviglia. «Non è stato difficile capirlo. I poliziotti di Sherling non sono proprio delle cime». Quando continuo a fissarlo, prosegue: «Ho letto il verbale della polizia riguardo la morte di tua nonna. So che hai rifiutato di parlare agli agenti, non hai mai risposto a nessuna domanda. Ma hai detto a tutti cosa era successo».
Deglutisco a fatica, sento un sapore pungente in gola.
«Wolfe. Morgan Wolfe. Cavolo, hai quasi fatto il suo nome in quello che hai scritto».
«Come hai fatto a…», gracchio senza riuscire a finire la frase.
«È stato consegnato alla Blackwood come parte del tuo file d’ammissione, insieme al verbale dettato da te. Sei una narratrice provetta. Un po’ inquietante, ma sei brava».
«Perché ti interessi tanto alla mia vita?»
«Te l’ho detto, la verità è più intrigante delle bugie».
«Sai tante cose su Ashton quante ne sai su di me? O sono proprio un’ossessione?»
«Non la chiamerei così, sembra… una cosa da pervertito». Sorride e io lo fulmino. «È interessante, davvero. Mettere insieme i tasselli che compongono il suicidio di mia madre, ma non voglio buttarla sulla psicanalisi».
«E Ashton?», insisto.
«Non ti parlerò di lei», replica duramente. Noto un lampo di rigidità nei suoi occhi. La sta… proteggendo?
Decido di non continuare a fargli domande, anche se sono preoccupata per la mia amica. «Va bene».
«Non sei curiosa?», domanda. Stringo gli occhi, non lo sto seguendo. «Di sapere come è morto. La tua bestia». Rimango in silenzio. «L’hanno accoltellato durante una rissa in un locale circa un anno e mezzo fa. Strano, eh? Che sia morto per un colpo di spada, come nella tua fiaba».
«Perché ho la sensazione che tu sappia più di quello che dici?»
«Non è sempre così?». Ghigna come se lui stesso fosse un caveau pieno di segreti e ne avesse ingoiato la chiave. «Non è meglio sapere che è morto?».
Scuoto la testa. «Questo non riporta in vita mia nonna, né cancella quello che ha fatto».
«Mi dispiace per tua nonna», dice sincero.
«Odiava le menzogne più di ogni altra cosa». La mia voce è flebile quando inizio a parlare. Sposto in fretta gli occhi su di lui, poi li abbasso sul pavimento. «Ci eravamo promesse di non mentirci mai. E lei aveva detto che non mantenere un giuramento era peggio che mentire, quindi non l’ho mai fatto. Anche quando avrei voluto. Questo non vuol dire che io abbia sempre detto la verità, ma a lei non ho mai mentito».
Mi asciugo una lacrima che mi sfugge dall’occhio. «Quella notte… è stata l’ultima volta che ho mentito. Ho scelto di tenere la verità per me. E forse è peggio, non lo so. Ma faccio così: o dico la verità, o la tengo intrappolata dentro di me. Ma non mento mai».
«Lo so», risponde Brendan, come se quello che ho detto avesse senso. Dopo un silenzio pesante, esclama: «L’avrei ucciso io se qualcuno non l’avesse già fatto».
Alzo di scatto la testa per guardarlo, chiedendomi se abbia capito bene. Distende le labbra nel suo solito ghigno che mi fa venire i brividi.
Qualcuno bussa alla porta interrompendo la nostra connessione.
«Ecco uno dei tuoi fedeli protettori», annuncia Brendan. Raggiungendo la porta, continua a parlare: «Questi Harrison hanno giurato di proteggerti, vero, Lana? È un po’ strano secondo me. Hai la tua legione di cavalieri e appartengono tutti alla stessa famiglia».
Prima che possa reagire, apre la porta. «Messer William, prego, entri».
Joey supera la soglia, guardando Brendan con sospetto. Quando mi vede, sul suo volto si dipinge un bellissimo sorriso con tanto di fossette. Una scarica elettrica mi percorre il corpo. So che è una bugia, ma al mio corpo non sembra importare.
Mi alzo e lui mi si avvicina. «Ciao».
«Ciao», esclamo, guardando i suoi brillanti occhi azzurri. Sono intrappolata nel suo sguardo, non riesco a distogliere il mio.
Joey mi accarezza la guancia con la mano e io inspiro rumorosamente.
«È come se non potessi resistere», osserva Brendan affascinato. «È inquietante».
Il suo tono arrogante ci fa scostare.
«Quindi…». Joey si schiarisce la voce, è a disagio. «Cosa volevi mostrarmi?».
Brendan recupera la fotografia da un cassetto segreto della sua scrivania. La porge in silenzio a Joey, come se si aspettasse una reazione. Penso che ci sia una ragione dietro il suo gesto, poi mi ricordo che Brendan adora la teatralità.
Joey la esamina per un attimo. «Allora, cosa sto guardando?»
«Dimmelo tu», insiste Brendan. Alzo gli occhi al cielo.
«Non conosciamo tutti», spiego. «Speravamo che potessi aiutarci tu».
Joey riporta gli occhi sulla foto. «Be’, sapete sicuramente che c’è mio padre, mia madre e quello è Parker». Li indica. «Quella è mia zia Cassandra», indica la donna che non conoscevamo, l’unica che non sembra essere incinta. «Non so con certezza chi sia questa qui, accanto a tua madre». Joey mi guarda.
Il mio sguardo si sposta su Brendan che annuisce, dandomi il permesso.
«La madre di Brendan. È cresciuta sull’isola di Nantucket».
Joey rivolge l’attenzione su Brendan. «Tua madre?».
Brendan annuisce e Joey sembra confuso. Benvenuto nel club.
«E gli altri due?».
Joey si concentra sulla foto, come se cercasse di identificare le persone. «È difficile dire chi sia questa donna. L’uomo… mi sembra familiare. Non l’ho mai conosciuto ma so di averlo visto prima, forse in altri scatti». Si interrompe pensieroso. «Non so chi sia, mi dispiace».
«Sai dove è stata scattata?»
«Nella nostra proprietà di Nantucket. Il mio bisnonno costruì l’edificio principale e mio nonno aggiunse delle piccole case per ognuno dei suoi figli, così da poter andare in vacanza tutti insieme».
«Ma chi siete, i Kennedy?», scherza Brendan. «Solo che la vostra tenuta è a Nantucket e non a Cape Cod». Noto una vena di ostilità nel suo tono che attira la mia attenzione. Come mai è stizzito?
«Brendan», lo avviso. Non voglio che faccia arrabbiare Joey e gli faccia passare la voglia di collaborare. Brendan si sposta all’angolo bar in camera per versarsi da bere.
«Ne vuoi?», offre a Joey.
«No, grazie», replica lui.
«Sai chi potrebbe essere quest’uomo, quello tagliato, che sembra correre per entrare nell’inquadratura?».
Joey serra le labbra pensieroso. «Potrebbe essere mio zio Kaden. Casa sua è da quel lato della tenuta. E avrebbe senso, tenuto conto di tutto».
«Tenuto conto di cosa?», domanda Brendan impaziente. Lo fulmino con gli occhi, chiedendogli silenziosamente spiegazioni per la sua irritabilità, ma lui scuote la testa. Cosa gli prende?
Joey tira fuori una busta dalla tasca. Ne estrae un foglio insieme a una fotografia che mi porge.
«Questo è mio zio», mi dice a bassa voce, come se non volesse doverlo ammettere.
Nello scatto, mia madre adolescente è seduta in braccio a un ragazzo. Sembra un po’ più grande di lei, forse poco sopra i vent’anni. Il volto dell’uomo è nascosto contro il collo di mia madre e la sta baciando. Gli occhi azzurri di lui sono luminosi e mia madre sorride raggiante. È davvero… innamorata. L’ho vista felice così solo con Nick.
«Mia madre usciva con tuo zio?», domando, cercando di metabolizzare la cosa. Spalanco gli occhi quando ci arrivo. «Lui è…». Non riesco a dirlo.
«Tuo padre?». Brendan conclude la frase. Joey sussulta. Forse sto per vomitare.
Joey e io ci fissiamo per un momento. «Non è possibile», commento, deglutendo la bile che mi risale la gola. Non posso essere parente degli Harrison… No.
«Spiegherebbe molte cose», fa notare Brendan. «A parte l’incesto».
Gli rivolgo un’occhiata di fuoco. Ride come se stesse assistendo a una scena divertentissima.
«Forse no», esclama Joey. Non sembra proprio sicuro. Apre cinque fogli di carta sul tavolino. Ci chiniamo per osservarli meglio. Sono test del DNA, più nello specifico, test di paternità. Sposto gli occhi sugli esami, il mio cervello è troppo carico di informazioni per capire cosa sto guardando.
«Li ho trovati nell’ufficio di mio padre e ne ho fatto delle copie. Erano in un cassetto segreto, un po’ come il tuo», esclama indicando Brendan.
Brendan prende in mano i fogli e li esamina. «Non ci sono nomi, solo numeri di pazienti».
«E…?», domando. Il cuore mi batte all’impazzata e ho le mani sudate.
«Questi tre», appoggia i fogli sul tavolo, «hanno lo stesso padre. E questi due non sono compatibili con il donatore».
Deglutisco a fatica.
Brendan sospira come se si stesse preparando. «Tua zia era incinta al tempo della foto?».
Joey fa un calcolo mentale rapido e annuisce. «Di quattro mesi, aspettava Lily».
«È la madre di Lily?», sussulto. Joey annuisce di nuovo.
«Quindi ci sono cinque donne incinte in questa foto. E cinque test del DNA. Qualcuno vuole provare a indovinare chi sono i bambini e soprattutto, chi sono i padri?». Brendan sfoglia di nuovo le pagine. «I test sono per tre maschi e due femmine». Mette i fogli alla luce. «Le date di nascita sono state oscurate per qualche motivo. Dovrò cercare gli originali per risalire a quello».
«E come farai?», domanda Joey.
«Non vuoi saperlo», gli rispondo io. Schiude la bocca sorpreso perché ha capito che è illegale.
«Quindi, le femmine siete tu e Lily. A meno che tua zia non avesse un’altra relazione, possiamo presumere che Lily sia tua cugina», esclama Brendan, spostando gli occhi su Joey. «E un uomo dovrebbe aver messo incinta tre donne in… quanto? Sei mesi? Ma non usava delle precauzioni?». Brendan ride ma non è divertito.
Finalmente il mio cervello inizia a riordinare i tasselli.
«Ma se mio padre è Kaden, allora vuol dire che Cassandra aveva una relazione con quest’altro uomo. E questo fa di me tua cugina», esclamo guardando Joey. Mi si stringe la gola, come se non volessi dire altro mentre mi rivolgo a Brendan. «Se così non fosse, sono tua sorella». Persino Brendan sembra colpito dalla rivelazione. Mi tremano le ginocchia. Mi accascio sulla sedia con un tonfo.
«Che casino», esclama Joey passandosi una mano tra i capelli.
«Davvero», concorda Brendan finendo il suo drink. «Meno male che non sei caduta in tentazione e non sei venuta a letto con me».
Lo guardo disgustata.
«Come mai hai questa foto?». Joey la guarda di nuovo. «Risale al weekend del primo maggio… Oh, no!». Impallidisce in un istante. Scuote la testa come se sperasse di non aver capito la verità. «Non l’ho riconosciuto perché non l’ho mai incontrato. Perché è morto durante il fine settimana in cui è stata scattata questa foto».
«Ma di chi stai parlando?», domando. Joey mi fissa con gli occhi spalancati, come se si stesse scusando in silenzio. «Qualsiasi cosa sia, non può essere peggio che scoprire di aver baciato mio cugino o che potrei essere… la sorella di Brendan». È difficile da dire.
«So chi è l’uomo tagliato nella foto. E so anche chi è il terzo bambino».
Brendan e io lo fissiamo, vogliamo che parli. Ma appena lo fa, capisco che avrei preferito tacesse.
«Vic».