Capitolo quattordici

La canzone che uscì dalla bocca della bestia non era un canto d’amore. Non portò gioia a Thaylina come era successo nel bosco. Le urlò di smettere. La implorò di liberarla. Le sue preghiere non vennero ascoltate. La belva le sussurrò all’orecchio: «L’hai voluto tu».

Scendo le scale la mattina seguente con un occhio semichiuso e un mal di testa lancinante.

«Perché ci sono così tante finestre?», mormoro. Non riesco a sfuggire alla luce che peggiora la situazione del mattino.

«Buongiorno», canticchia Lily, sorseggiando del succo di frutta da un bicchiere da champagne. «Mimosa?»

«Lo champagne mi odia», borbotto, sedendomi sullo sgabello e massaggiandomi le tempie.

«Vuoi della torta avanzata?».

Sorrido o almeno ci provo, visto che ogni lieve movimento del viso mi perfora il cervello. «Sì, grazie».

«Dove sono tutti?», domando. Mi aspettavo più gente in giro, qualcuno che si lamenta dei postumi della sbronza insieme a me.

«Ci siamo solo io e te. Joey se n’è andato con Grant ieri sera e Lance non so dove sia finito. Tutti gli altri hanno levato le tende quando sono stati abbastanza sobri da salire in macchina stamattina».

Ho smesso di ascoltare quando ha detto: “Joey se n’è andato con Grant”. Sto cercando di decidere quanto mi debba preoccupare il fatto che siano andati via insieme. A parte la preoccupazione, avrei voluto parlare a Joey stamattina riguardo il mettermi in contatto con Nina e Tori.

Usando l’applicazione delle mappe sul telefono – l’unica che c’è – ho cercato i numeri dello strip club dove lavora Nina e di un paio di locali che frequentiamo a Sherling. Ma le persone che mi hanno risposto non sono state in grado di aiutarmi e comunque non volevo chiedere se qualcuno avesse visto le mie amiche. Coglioni.

Studiando il cellulare ho anche scoperto che non si possono mandare messaggi né fare foto e che qualsiasi cosa, a parte il volume e la rubrica, è bloccato da una password. E io non la conosco. Quindi l’unica cosa che posso fare è ricevere e fare chiamate a Joey. Lo chiamerei ora… se non fosse con Grant.

Lily mi sistema una grossa fetta di torta al cioccolato davanti.

«Grazie per ieri sera», le dico, infilando la forchetta nella glassa. «È stato davvero un bel compleanno».

«Non c’è di che», risponde con un sorriso genuino. «Quali sono i tre desideri che hai espresso?».

Ashton ha affermato che potevo esprimerne tre, perché è così che vanno le cose. E alle sue parole, Brendan ha aggiunto: «Stai attenta a quello che desideri. Potresti non riuscire a gestire tre me». Si è preso una gomitata nelle costole sia da me sia da Ashton.

Il mio primo desiderio riguardava Allie: ho chiesto che si riprendesse e che qualcuno la vendicasse.

Il secondo, per mia madre: ho desiderato che stesse bene sia a livello fisico che emotivo, che trovasse pace (incolpo Jasmine, l’insegnante di yoga, per l’ultima parte).

E per il terzo, ho pensato a me. Ho esitato prima di esprimerlo, ho guardato la gente intorno a me che sorrideva e si divertiva. Poi ho soffiato sulle candeline, augurandomi di capire sempre chi sono i veri amici.

«Se te li dico, non si avverano». Mangio un boccone di torta.

Lily ridacchia. «Ci credi?»

«E tu credi che si avverino, sia che confessi cosa ho desiderato sia che non lo faccia?»

«Penso che si riceva sempre quello che ci si merita. L’aver fede c’entra poco. C’entrano di più il nostro comportamento e come ci barcameniamo tra il bene e il male. Perché il bene esista, deve esserci anche il male, no?».

La osservo curiosa. «Ma il bene non dovrebbe vincere sempre, alla fine?». Fatico a stare sveglia, figuriamoci se sono in grado di ragionare sull’equilibrio del karma. E stiamo imboccando un sentiero particolare e sconnesso. Perché io so che il bene non vince sempre.

«Credo di sì», risponde, sorridendo dietro al bicchiere mentre finisce il succo. «O almeno, lo spero».

Lily mi accompagna al golf club per il turno del pomeriggio. Essere assegnata al cart delle bevande con Ashton è al contempo una fortuna e una maledizione. È semplice, ma la sua guida discontinua mi taglia la testa in due e mi fa rivoltare lo stomaco, quindi per quasi tutto il turno, sto male. Quando torniamo a scuola, salto la cena e mi metto a dormire. Metto la sveglia perché devo ancora andare a prendere un libro in biblioteca per un lavoro di diritto americano.

Quando mi sveglio mi sento meglio, ma non ancora bene. L’ultima cosa che vorrei fare è andare in biblioteca. Lancio la borsa sul letto e cerco il cellulare fornito dalla scuola che ho buttato dentro quando sono tornata. Dalla scatola che Joey ha usato per la corona esce una busta. Sembra troppo grande per essere un biglietto d’auguri.

Dentro trovo una foto in bianco e nero di persone sedute su un prato in discesa. Alle loro spalle, scorgo parte di un portico che fa parte di una casa bianca troppo grande per entrare nell’inquadratura. Sembra che il gruppo stia facendo un picnic, perché su diverse coperte sono sistemati piatti di cibo e bicchieri. Per quanto inizialmente mi sembri una foto di gruppo e che tutti siano in posa, noto poi una sorta di senso di movimento, come se fosse stata scattata prima che i presenti fossero pronti. Due ragazze, forse adolescenti, sono vicine e ridono sguaiatamente. Un’altra donna non guarda l’obiettivo e il viso è coperto dai capelli scuri. Un uomo sorridente è chinato e prende in braccio un bambino che ride, mentre una donna visibilmente incinta li guarda con occhi adoranti. Un’altra signora sembra sorridere alla fotocamera ma pare distratta, osserva di sottecchi un uomo che a quanto pare è l’unico pronto per lo scatto e sorride felice. Fisso tutta la scena. La mia attenzione si concentra su una bionda con i capelli raccolti che ride accanto alla ragazza con i capelli alla Audrey Hepburn. Mi assomiglia.

«Oh, mio Dio», commento in un fiato. È mia madre.

Volto la foto e sul retro trovo il solito inchiostro rosso e la grafia lineare.

QUANTE VITE DISTRUGGERÀ

ANCORA CON LE SUE BUGIE?

Ma cosa cazzo…? Odio questi messaggi criptici! Dimmi quello che vuoi e facciamola finita! Chiunque sia, è un sadico che si diverte a infastidirmi. Cos’ha questo a che vedere con Allie, con me, con mia madre o gli Harrison?

Forse è ora di trovare risposte alle domande che ho evitato di fare. Devo parlare con mia madre… di persona. Solo così saprò se mi dice la verità.

Esamino di nuovo ogni volto. Ne riconosco solo un altro. Niall Harrison. È lui che prende in braccio il bambino, che deve essere… Parker. La donna alle spalle di Niall e Parker suppongo sia la signora Harrison, incinta di Joey.

In basso a destra, è scritto in nero: “Nantucket, weekend del primo maggio”. Faccio un calcolo veloce. Questo è il periodo in cui mia madre ha scoperto di aspettare me. Lo so perché mia nonna mi ha detto che sua figlia aveva paura di entrare in travaglio il weekend della laurea, che cadeva proprio nei giorni previsti per il parto. Ma invece quel giorno è stata fotografata con la toga che sembrava una tenda a causa del pancione. Io sono arrivata due settimane più tardi.

Ha conosciuto mio padre a Nantucket? E cosa ci fa con gli Harrison? Chi sono le altre persone? Soprattutto la ragazza seduta accanto a lei… sembrano davvero amiche.

Una serie infinita di domande mi si affolla in testa più rimango a osservare la foto. So che non ha senso, posso farmi tutte le domande che voglio, ma l’unico modo per ottenere risposte, è chiedere alle persone giuste.

Giro la foto e rileggo il messaggio. Per la prima volta, penso non sia una minaccia, ma un avvertimento.

Stai lontana da lui. Potrebbe essere un avvertimento tanto quanto una minaccia.

Io so. Quella è stata una scritta stupida, fatta forse solo per attirare la mia attenzione. Potrebbe voler dire qualsiasi cosa.

Com’è frustrante!

Devo parlare con Joey delle foto che ha trovato in soffitta. Forse riconoscerà anche questa. Nel frattempo, devo parlare con la persona che è fastidiosamente a conoscenza di più segreti di quanti dovrebbe… e spero che non sia lui il ragazzo da cui mi hanno consigliato di stare alla larga.

Lego un nastro rosso al piccolo ponte di legno che passa sopra al laghetto con i pesci e conduce al dormitorio maschile. Poi lascio un bigliettino nell’albero, chiedendo a Brendan di incontrarci in biblioteca.

Aspetto tra i libri ben dopo aver trovato quello che mi serviva per il corso di diritto americano. E continuo ad attendere, non sapendo se Brendan abbia visto il fiocco o controllato nel tronco dell’albero. Mi manca l’istantanea gratificazione degli SMS. Anche se qualcuno non risponde subito, almeno so che hanno ricevuto le mie parole. Il bibliotecario alla fine mi caccia fuori mezz’ora prima del coprifuoco.

Quando esco, il Parco è buio.

«Merda», mi lamento. Non sono mai stata da sola di sera qui. Sono tutte ombre e sagome definite. So che sul telefono della scuola non c’è una torcia, l’ho già cercata quando mi è finito un rossetto sotto il letto e non riuscivo a trovarlo.

Il sentiero di ciottoli emana un bagliore inquietante ma, come Ashton mi ha detto durante il tour, non mi indicherà la strada da prendere. Osservo i tetti che si affacciano sul Parco cercando di trovare quello del dormitorio femminile, ma è impossibile distinguerlo, perché sono tutti uguali. Quindi mi incammino nella direzione che penso sia quella giusta. Non riesco nemmeno a tenere gli occhi puntati sull’edificio che immagino sia quello da raggiungere perché sono troppo impegnata a guardare a terra per restare sul sentiero. Mi prendo anche qualche ramo in faccia.

Tarderò per il coprifuoco. Lo so. Ma almeno vedranno che sono nel Parco quando tracceranno il cellulare e mi verranno a prendere. O almeno, spero che arrivino.

Sento un rumore vicino a me e mi fermo, resto in ascolto.

«Chi c’è?», dico ad alta voce. Vorrei che fosse chiunque, persino la dottoressa Kendall o una delle guardie, a questo punto.

Non risponde nessuno. Ma il suono nitido di un ramo che si spezza mi fa venire la pelle d’oca.

Mi affretto sul sentiero che inizia a virare dalla direzione che vorrei prendere, fino a quando non finisco quasi nell’acqua. Mi fermo di colpo, sollevo una gamba. Noto che l’illuminazione filtra dall’acqua, vedo un paio di luci sommerse sulla sinistra. Poi un’altra a destra. Mi chiedo se questa sezione si sia allagata. Ma quando i miei occhi si abituano al buio della notte senza luna, vedo che ci sono delle altalene sospese sull’acqua e dei tronchi su cui bisognerebbe sedersi, sommersi. Ampi canneti e ninfee galleggiano sulla superficie, insieme a quello che mi sembra muschio. Questo è un giardino dove tutto è sistemato apposta per salirci sopra stando in equilibrio, per esplorare e navigare.

Fantastico, cazzo. Non voglio incontrare mai i geni che hanno progettato questo posto.

Anche se ogni giardino che ho scoperto nel Parco è abbastanza piccolo, mi sorprendo ogni volta che ne trovo uno nuovo. Indipendentemente da quanto sia ampio questo spazio, è curioso quante zone diverse contenga. Sto iniziando a pensare che loro cambino il Parco un po’ ogni giorno. Chiunque loro siano. Ieri, infatti, credevo di arrivare nel giardino con la fontana a forma di sirena, invece mi sono ritrovata in un piccolo spiazzo con fenicotteri di plastica e girandole, una vivida esposizione di colori e suoni. È stato strano e meraviglioso allo stesso tempo.

Ma se lavorano sempre ai giardini per cambiarli, quando lo fanno? Non ho mai incontrato un solo giardiniere, anche se le siepi sono potate alla perfezione e il prato è falciato di fresco. È anche vero che sono qui da una sola settimana e lavoro lontano dal campus. Immagino ci sia tempo da dedicare alla manutenzione senza essere visti. Ma una ricostruzione totale mi sembra impossibile da tenere nascosta.

«Lana, ma chi se ne frega!», mi dico ad alta voce, sapendo che non è il momento di riflettere sui misteri della costruzione del Parco. Respiro a fondo e metto un piede sul sentiero luminoso; sto ferma su una gamba mentre mi preparo per raggiungere il secondo masso.

Sento qualcosa cadere nell’acqua.

Per poco non perdo l’equilibrio. Sembrava qualcosa di piccolo, come se qualcuno avesse lanciato una pietra nello stagno. «Chi c’è?», domando di nuovo, in piedi in mezzo all’acqua. Aspetto. Silenzio. Il cuore mi batte forte. Quando non ricevo risposta, salto sull’altro masso, voglio sbrigarmi. Sono persino tentata di camminare in acqua ma non so quanto sia profonda e mi spaventa pensare a cosa ci sia sul fondo.

Quando riesco a raggiungere la terraferma, alzo di nuovo gli occhi sui tetti degli edifici per cercare quello che pensavo fosse il dormitorio. A questo punto, non importa. Il coprifuoco è già scattato.

Aspetta.

Tiro fuori il telefono dalla borsa. Che stupida, non ho pensato di usarlo prima per chiamare la sicurezza. Ma quando premo il tasto per accendere lo schermo, non succede nulla. Batteria scarica. Giuro che l’ho messo in carica ieri notte da Lily. A meno che… ubriaca, io non abbia caricato il telefono sbagliato, che adesso deve essere sul comodino di camera mia.

«Maledizione!», strillo. Mi viene voglia di lanciare quell’inutile cellulare in acqua, invece lo metto in borsa e continuo a seguire il sentiero illuminato. Quando arrivo a un bivio, scelgo la strada che sembra portare all’edificio più vicino.

Ma poi la via sembra riprendere a curvare. Non mi stupisce che gli studenti diano di matto e inizino a urlare quando si perdono di notte. Io sto per farlo. Questo posto manda fuori di testa!

Qualcuno tossisce alle mie spalle. Mi volto di scatto. O almeno, a me è sembrato un colpo di tosse. Questa volta non urlo. Forse sono paranoica e sento i rumori, altrimenti qualcuno mi sta seguendo. Ora vorrei proprio avere il mio coltellino a serramanico rosa. Come per abitudine, allungo la mano sulla piccola fessura che ho ricavato nell’orlo dei pantaloni per nasconderlo quando sono a scuola. Ovviamente non c’è nulla.

Continuo a camminare, ma a ogni passo mi sembra di rimpicciolirmi. O il resto si ingrandisce. Le siepi che ho ai fianchi si innalzano sempre più fino a che non mi ritrovo immersa nell’oscurità. Persino la luce del sentiero diventa così fioca che vedo a stento dove metto i piedi. Per questo motivo finisco contro i cespugli di un vicolo cieco.

«Ma non ci credo!», mi lamento, sputacchiando le spine.

Dall’altra parte della siepe, sento uno scalpiccio di passi. Qualcuno sta correndo e si avvicina sempre più. Indietreggio verso le piante, cerco sicurezza contro la solidità delle frasche e resto in ascolto. Mi sembra che qualcuno corra proprio accanto a me, come se, allungando la mano, potessi toccarlo. E poi, veloce com’è arrivato, chi correva sparisce, il rumore di passi va lentamente spegnendosi.

Non sono sola.

Quando c’è di nuovo silenzio, cerco a tastoni un’apertura nella siepe, uno spazio in cui infilarmi senza dover tornare indietro. In quel momento scopro che quello che credevo un muro di piante, in realtà sono due alti cespugli con uno stretto corridoio in mezzo. Chiunque corresse, era davvero accanto a me.

Per quanto non mi piaccia l’idea di dirigermi sulla stessa strada che ha imboccato il corridore, mi sembra che questo sentiero conduca a un edificio. E forse anche la persona misteriosa si è persa, non sta cercando di tormentarmi. Ma allora perché non ha risposto quando ho chiesto chi ci fosse?

Non importa, posso speculare quanto voglio, non farò altro che impazzire perché non avrò mai delle risposte. A meno che non scopra di chi si trattava. O che questa persona mi trovi. Sinceramente non vorrei che accadesse nessuna di queste due cose.

Scorrendo le mani lungo le siepi, cerco un’altra finta parete. Un dolore lancinante mi fa scostare. I cespugli sono pieni di spine, che rendono lo stretto passaggio ancora più difficile da attraversare. Questa scuola è veramente strana. Come pensano che tutto questo mi renda una persona migliore? Al massimo più arrabbiata.

Quando raggiungo la fine del corridoio mi ritrovo in un giardino, dove letti di fiori sono sparsi intorno a un grande albero dal tronco contorto, i rami spessi che si dividono e si diramano dal centro, formando una vasta tettoia di foglie. Seguo il sentiero erboso che attraversa i fiori e passa intorno all’albero. Mi sento insignificante accanto a tanta maestosità. Questo tronco deve avere almeno cento anni. Ha un’aria grandiosa, come se fosse stato sulla Terra più a lungo di chiunque altro, come se avesse sentito molti segreti durante la sua vita. Segreti che ora sono custoditi negli anelli del suo tronco contorto. Appoggio un orecchio alla corteccia, mi chiedo se per caso mi sussurrerà quello che sa.

Si solleva una brezza e sento una voce quasi impercettibile tra i rami. Mi cedono le gambe e cado goffamente. Percepisco ancora una leggera folata d’aria, sono certa di sentirlo: un sussurro lieve, come un ronzio di api. Non riesco a decifrare il messaggio del vento. Aspetto che parli di nuovo. Il battito aumenta per l’emozione dell’attesa.

Vengo raggiunta prima dal fruscio delle foglie, poi, nel freddo respiro dell’aria sulle guance, lo sento. Quelle sillabe mi sembrano una canzone intera.

Corri.

Mi volto. Il vento si fa più forte, ciocche di capelli mi colpiscono il viso. Sembra che si stia avvicinando un temporale ma, quando alzo lo sguardo, non c’è una sola nuvola in cielo. I rami scricchiolano e le foglie sbattono le une contro le altre, fino a quando i miei occhi non sono pieni della rabbia violenta del vento che s’infrange contro l’albero.

E allora… corro.

Il sentiero mi guida attraverso una tenda di rami che pendono da un salice. Li scosto e trovo asilo sotto quel baldacchino di foglie. Continuo a correre, proteggendomi con un braccio dalle foglie. Quando esco dall’abbraccio dell’albero, sono immersa nel silenzio. Tutto è completamente immobile.

Inciampo su una pietra sollevata, cado su degli ampi gradini. Le ginocchia e i gomiti assorbono l’impatto della caduta. Questi ciottoli sono ricoperti di muschio, quindi per quanto mi sia fatta male, non mi sono tagliata.

Rimango a gattoni per un attimo, riprendo fiato. Sollevo la testa, mi guardo intorno. Il sentiero curva attraverso un giardino giapponese. Mi alzo, osservo l’ambiente sereno per quanto mi sia possibile nel buio. Identifico con facilità i piccoli bonsai e sento dell’acqua gocciolare da qualche parte. Trovo una panchina di pietra sotto una piccola pagoda e mi ci siedo per riprendermi.

Devono essere passate ore da quando ho lasciato la biblioteca. E se non riuscissi mai a trovare una via d’uscita? So che sono pensieri irrazionali. Il Parco non è infinito, anche se ora sembra esserlo. Raggiungerò uno degli edifici… prima o poi. Forse dovrei restare qui e lasciare che mi trovino. Non dicono che bisogna restare fermi in un posto quando ci si perde, per essere trovati più facilmente? Immagino che dipenda da chi mi sta cercando. Non capisco ancora perché non ho sentito nemmeno una guardia.

Rimango nel giardino abbastanza a lungo da provare frustrazione. Voglio uscire da questo dannato posto, anche dovessi metterci tutta la notte. Mi sono anche convinta, riflettendo razionalmente, che la mia isteria abbia trasformato il vento in voci e scalpiccio di passi. Mi sono immaginata tutto. Perché qualcuno dovrebbe mai seguirmi? A che scopo? E poi, come fa la persona che mi segue a conoscere tutti i percorsi meglio di me? Queste idee non spiegano assolutamente nulla, ma mi danno abbastanza coraggio da alzarmi e proseguire.

Cammino per quelli che sembrano giorni… okay, ore. Il suono distinto di erba alta mossa dal vento mi giunge alle orecchie e corro verso quel rumore. Finalmente un giardino che riconosco. Scelgo la strada che sono certa mi condurrà al dormitorio.

Sussulto sollevata quando sento il profumo delle rose. E quando arrivo ai tralci, emetto un singhiozzo spezzato gonfio di stanchezza.

C’è un nastro rosso a cui è legato un bigliettino che ondeggia nella brezza leggera. Lo slego.

SAI CHI SONO I TUOI AMICI?

DOVE SONO ADESSO?

Accartoccio il foglietto in un pugno. «Vaffanculo», sibilo.

Chiunque mi mandi questi messaggi, siano essi minacce o avvertimenti, frequenta la Blackwood. E dal momento che non ci sono molti studenti nel periodo estivo, quanto può essere difficile capire chi sia il mittente? È una persona che mi conosce, o che almeno pensa di conoscermi.

Ma io conosco lui o lei? E in quel momento, nella mia testa echeggia chiaramente la voce di mia nonna.

Non fidarti di nessuno.