Capitolo dodici

Il cuore dell’uomo era gonfio di scaltrezza e menzogna. Crudeltà e morte. Thaylina si accorse che non si trattava nemmeno di un uomo. Sotto l’affascinante maschera si nascondeva un mostro crudele e spietato. Ed egli aveva intenzione di rubarle i suoi poteri, così che non potesse più leggere la bontà in nessun cuore, dannandola per sempre a vedere solo le bugie e i tradimenti delle persone.

«Vattene via», mugolo, allungandomi verso il telefono che squilla, a occhi chiusi.

Mi volto sulla schiena e tengo lo schermo vicino al viso, anche se non ho sollevato le palpebre, poi lo attivo con l’impronta digitale.

«Ci vediamo nell’atrio tra quindici minuti». La voce del signor Garner mi arriva a volume troppo alto.

Apro un occhio. «Perché mi tortura alle sette e mezza del mattino?»

«Me lo devi, dopo ieri sera. Sto sistemando un po’ di cose. Alzati, mettiti dei vestiti sportivi e scendi. Altrimenti mando su la signora Seyer a prenderti».

«Non è per nulla piacevole in questo momento», mormoro riattaccando.

Con un calcio sposto il piumone e mi stiracchio sbadigliando. Per rendere questa giornata ancora peggiore, ho due lezioni e non lavoro al golf club, quindi non vedrò Grant. Che giornata orribile.

Il signor Garner mi aspetta con un paio di pantaloncini morbidi e una maglietta grigia stinta che sembra sia stata lavata cinquanta volte di troppo.

«Mmm, ti sei dimenticata qualcosa?».

Non sono dell’umore per indovinare. «Cosa?»

«Il resto dei vestiti». È arrossito e fatica a guardarmi negli occhi.

Abbasso lo sguardo sui miei pantaloncini cortissimi e aderenti e il reggiseno sportivo. Non ho un abbigliamento sportivo perché non faccio sport. E non ho le tette di fuori. Questo reggiseno è praticamente un top. «La smetta di essere tanto pudico. Ha chiesto che mi svegliassi ora, quindi dovrà andare bene questo completo».

«Andiamo», esclama sospirando.

«Dove andiamo, esattamente?», domando quando svoltiamo a destra ai tralicci di rose, a cui vedo legato un fiocco rosso. È quasi indistinguibile tra i fiori dello stesso colore.

«A fare un giro al centro ricreativo. Troveremo un modo di evitare che tu prenda a pugni chi non ti sta simpatico».

«Ma come faranno allora a sapere che non mi piacciono?».

Si volta e mi fulmina con lo sguardo. Chiaramente non apprezza la mia sarcastica sincerità.

Passiamo nel Parco e raggiungiamo l’edificio dopo il dormitorio maschile. «Sa bene come girare in questo posto», noto, considerando che è qui da poco più di un giorno.

«Dopo il nostro incontro, sono stato nel Parco tutto il giorno. Mi sono perso diverse volte, ma alla fine ho capito… più o meno».

L’ingresso del centro ricreativo è un’arcata di pietra con un laghetto da un lato e una cascata dall’altro; è stranamente tranquillo per essere una palestra. Ma questa non è solo una palestra e mi diventa evidente non appena entriamo. L’interno dell’edificio è molto diverso dagli altri. Ma suppongo sia normale. Le stesse scale che circondano l’edificio al piano terra si estendono ai piani superiori, ma queste sono in cristallo, non in pietra. E ogni piano ha delle vetrate. È ultramoderno, nonostante l’esterno sia d’epoca.

La prima cosa che mi colpisce è il profumo di pulito, quasi floreale, e il suono di acqua corrente. Tutta la parete accanto all’ingresso è impregnata d’acqua che cola e finisce in una piccola fontana.

Il signor Garner aspetta che mi dia un’occhiata intorno prima di esclamare: «Ci dovrebbe essere qualcuno ad aspettarci per il giro».

Dietro le porte scorrevoli che sembrano accomunare tutti gli edifici, vedo un bancone dietro cui ci sono un paio di donne in divisa. Mi ricorda un ospedale o una clinica. Di fronte a loro, alcune porte chiuse con la targhetta: “Sala massaggio 1”, “Sala massaggio 2”, “Chiropratico” e “Reiki”. Tutto è nei toni rilassanti del bianco e del turchese.

«Buongiorno». La donna con gli occhi quasi a mandorla e degli zigomi perfetti ci saluta quando entriamo. Sembra brillante, come fosse appena stata lucidata; ha un’abbronzatura perfetta e un sorriso luminoso. «Dovete essere Lana e il signor Garner».

«Sì», risponde lui. «Buongiorno».

«La vostra guida arriverà tra poco. Se volete aspettare nella sala d’attesa, fate pure. È dall’altra parte della hall».

«Grazie», replica il signor Garner. Usciamo e attraversiamo l’atrio, per poi trovare una stanza piena di divani, dove suona una musica eterea che mi farebbe addormentare se mi fermassi qui più a lungo. Sul tavolo di fronte a noi sono disposte delle brocche d’acqua con all’interno frutta fresca e bacche.

Il signor Garner probabilmente nota la mia espressione confusa, che è l’ovvia reazione a tutte le emozioni che mi passano per la testa mentre cerco di dare un senso a tutto questo. È diverso da tutto quello che ho fatto nel campus. Troppo diverso. «Devi ricordarti che molti di questi studenti sono estremamente viziati nelle loro vite normali. I genitori si aspettano che abbiano quasi lo stesso livello di comfort a scuola».

«Sì, altrimenti cosa pagano a fare?», domando con una risata.

Un minuto più tardi, un uomo con una maglietta sportiva aderente e un paio di pantaloncini altrettanto stretti entra nella stanza. Sembra un parallelepipedo costituito da tanti strati di muscoli, uno sopra l’altro, con le braccia che spuntano fuori dalla parte superiore. Non aiuta il fatto che abbia i capelli a spazzola e la mandibola squadrata.

«Buongiorno, sono Mack».

«Sul serio?», rido. Non riesco a trattenermi. Non potrebbe essere più stereotipo di così, muscoli e nome compresi.

«Scusa?»

«Ignorala», esclama il signor Garner, facendosi avanti e porgendo una mano.

Mack ci fa fare un tour della struttura a cominciare dal piano di sotto: piscina, spogliatoi e sauna. Saliamo le scale, livello dopo livello. Ci vengono mostrati i campi da basket e da squash, la sala fitness, quella adibita allo spinning, la sala pesi e quella dove si fa cardio; arriviamo poi all’ultimo piano, dove troviamo una vera e propria pista di atletica sospesa in aria. All’interno della pista si trovano delle pareti di vetro che permettono di vedere le scale e la sala pesi dall’alto.

Da qui, noto una sala da boxe separata da quella dei pesi che Mack non ci ha fatto vedere quando eravamo sotto. Posso solo immaginare che abbia pensato fosse tempo sprecato visto che il signor Garner è smilzo, anche se atletico. Ma sembra più un maratoneta che un boxeur. E io sono una ragazza. Il karma deve aver deciso di tirarmi in faccia il mio pensiero sugli stereotipi.

Anche il signor Garner vede la sala da boxe. «Fate lezioni?»

«È interessato alla boxe?», domanda Mack senza nascondere la sua sorpresa.

«No, io lo sono». Lo fisso, sfidandolo a fare un commento sulla mia stazza. O sul fatto che sia una donna.

Ma dice solo: «Bene».

«Puoi iscriverti alle lezioni o ai corsi sul tablet che c’è fuori da ogni stanza», spiega mentre ci riaccompagna all’ingresso. «Vuoi iniziare oggi? Non ho nessuna prenotazione stamattina, visto che il campus è quasi vuoto».

«Va bene», rispondo. Il signor Garner invece dice: «Io credo che preferirò il tapis-roulant».

Mack non mi consente di sfogarmi con il sacco. Mi costringe ad allenarmi, il che mi fa solo venire voglia di sfogarmi su di lui. Mi fa fare un milione di addominali, lanciare la palla medica, saltare la corda e fare quei folli movimenti coi piedi. Ha detto che passeremo la prossima volta al sacco. Sempre se sopravvivrò a questa lezione.

«Odio il fatto di non riuscire a odiarla», dico al signor Garner quando ce ne andiamo. Io sono sudata fradicia.

«Devi lavorare ancora sulle tue espressioni emotive positive», scherza lui. «Ma almeno sei troppo stanca per prendere a pugni qualcuno. Era quello l’obiettivo».

«Non la ascolto più», esclamo allontanandomi. Mi sembra di avere le gambe fatte di gomma. Il solo pensiero di dover attraversare il Parco per andare a leggere il bigliettino nell’albero mi fa venir voglia di collassare. Ma mi sforzo. Trovo un messaggio astioso di Brendan, diretto solo a me.

∞ Sei finita nei guai? ♂

Come fa a saperlo? Come fa a sapere sempre tutto?

Strappo il bigliettino e lo lascio nella scatola, togliendo il nastro dall’altalena e infilandolo nell’albero, così che Lance e Ashton non pensino che ci sia un messaggio anche per loro.

Dopo la doccia, vado nella camera di Ashton per vedere come sta.

Quando apre la porta, mi pare ovvio che sta malissimo, con i capelli arruffati e raccolti sulla testa e la maglietta che le scopre una spalla. L’eyeliner le è colato intorno agli occhi e sembra pallida, nonostante la giornata passata al sole.

«Sei viva?», domando con cautela, seguendola in camera. Lei si copre con una coperta, sdraiandosi sul divano.

«No», mormora. «Non posso credere di aver bevuto tanto».

«Non me ne sono accorta nemmeno io, poi ho visto che non ti reggevi in piedi».

«Cosa è successo a te? Come sei tornata? Ho detto a Brendan che ti serviva un passaggio ma lui ha detto qualcosa di rozzo riguardo a fare sesso con Grant». Tira fuori la testa in modo da scoprire solo gli occhi. «Cosa è successo con Grant?».

Arriccio il naso. «Nulla. Non ha voluto nemmeno baciarmi».

«E perché no? Io l’avrei fatto». Questo la fa ridere. «Ero talmente ubriaca che probabilmente l’avrei fatto». Rido con lei.

«Non vuole fare nulla con una ragazza se uno dei due ha bevuto».

«Porca puttana. Dimenticati il Principe Filippo, lui è un maledetto santo!».

«A proposito, dimmi che tu e Brendan non…».

«No», mi rassicura. «Lui non è sicuramente un santo, ma non ne avrebbe mai approfittato. Questo non vuol dire che non siamo stati a letto da ubriachi, ma non nelle condizioni in cui ero ieri».

«Bene», commento, ma ancora non mi sembra giusto. Non è che io non abbia fatto sesso da ubriaca con Jensen. Cavolo, non l’abbiamo quasi mai fatto da sobri. Ma se penso a quello che ha detto Grant riguardo al consenso, soprattutto quando c’è di mezzo l’alcol, mi fa riflettere sul passato in modo diverso; mi chiedo se avrei fatto sesso tutte quelle volte con lui – o anche solo una – da sobria. L’acidità che sento nello stomaco si intensifica quando la voce nella mia testa risponde che forse non sarebbe successo.

E mi riferisco solo al sesso, non parliamo dei baci. Non credo di avere abbastanza dita sulle mani per contare quanti ragazzi abbia baciato da ubriaca, alle feste o negli angoli in penombra dei locali.

«Forse è troppo bravo per me», sospiro. «Io sono più un demone che una santa».

«Preferisco folletto arrabbiato», ridacchia Ashton. «E poi, tutti i ragazzi vogliono una tipa un po’ peperina».

«Sei ancora ubriaca?», domando ridendo.

«Forse sì».

«Vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?»

«No, grazie. Ho qualcosa qui. Credo che mi rimetterò a dormire fino alla lezione del pomeriggio».

Prima di andarmene, le dico: «Dovremmo prometterci di badare una all’altra».

Ashton si scosta la coperta dal viso. «Cosa intendi?»

«Alle feste o in qualsiasi altro posto… dovremmo assicurarci che l’altra sia al sicuro e non beva troppo. Non vorrei che qualcuno ti facesse del male o, che so, che tu facessi qualcosa di cui poi ti penti perché sei ubriaca o fatta».

Ashton sorride dolcemente. «Lo faresti? Giureresti di proteggermi?»

«Certo. E non infrango mai le promesse».

Il suo sorriso si allarga, le brillano gli occhi. «Giuro anche io di proteggerti».

«Ti abbraccerei ora, ma puzzi», le dico facendola ridere.

Quando chiudo la porta, deglutisco a fatica il nodo che sento in gola. Ma non riesco a impedire che una lacrima mi righi la guancia. So che non sono così emotiva solo perché riconosco di tenere molto a Ashton. Sento anche il senso di colpa per non essere stata in grado di proteggere Allie da Vic. E mi rattrista anche rendermi conto che tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci protegga.

Ho due lezioni il martedì e il giovedì. Diritto americano al mattino e francese appena prima di cena. Questo vuol dire che in quei giorni non lavoro al golf club. Non mi ha mai infastidito tanto non poter lavorare.

Quando ci torno, il mercoledì, Ashton e io siamo di nuovo assegnate alla distribuzione delle bevande. Non riesco a smettere di sorridere e non ci provo nemmeno.

Kaely è nello spogliatoio quando ci entriamo.

«Dov’eri lunedì?», le chiedo, pensando al fatto che non è venuta a casa di Stefan, nonostante l’idea della festa la emozionasse molto l’ultima volta che ne abbiamo parlato.

«Ho dovuto dare una mano a mia mamma con una cosa», replica sbuffando. Ma il suo solito sorriso ci mette poco a ricomparire. «Ma ci vediamo venerdì per…».

«Lavorare», la interrompe Ashton. «Sì, lo sappiamo. Lavoriamo tutti insieme al The Deck». Le rivolge un sorriso tirato spalancando gli occhi.

«Oh, giusto», commenta Kaely arrossendo. «Mi stavo dimenticando che lo sapevate già».

Si comportano in modo strano.

«Cos’era quella scenetta?», domando a Ashton quando Kaely ci lascia per andare al The Grille.

«Niente», replica lei come se nulla fosse. Mente. Sa che io so che mente. Ma ora non importa, perché Grant è appena arrivato con le borse del ghiaccio. C’è anche Rhett, ma di lui non mi interessa.

Grant sorride quando mi vede, o quando ci vede, ma io convinco me stessa che il sorriso sia rivolto solo a me. Sono davvero ridicola.

«Non sapevo che dessi lezioni di nuoto», esclama Ashton facendomi spalancare gli occhi e arrossire.

«Cosa?», domanda Grant guardandoci.

«Oh, devo aver sentito male», conclude con il sorriso di chi la sa lunga. Grant sposta lo sguardo su di me, che non posso far altro che alzare le spalle in imbarazzo. Adesso la spingo giù dal cart.

«Ci vediamo alla nona buca», ci saluta Grant mentre io mi siedo, rivolgendogli un cenno della mano.

Quando siamo abbastanza lontane, Ashton inizia a ridere come una matta mentre io mi nascondo il volto tra le mani. «L’hai appena salutato con la mano. Non gli hai detto una sola parola. Hai solo salutato con la mano».

«Non ti dirò mai più nulla», la minaccio. «Non posso credere che tu l’abbia detto davvero».

«È stato divertente». Sta ancora ridendo quando arrivano i primi golfisti. Non posso fingere ancora di essere arrabbiata, perché in effetti è stato divertente. E io, patetica.

L’ho salutato con la mano.

Quando raggiungiamo il capanno della nona buca, ho la maglietta incollata al corpo e ciocche di capelli appiccicate alle guance. Fa incredibilmente caldo qui, tanto che credo mi sudino anche le ginocchia.

«Chiederò a Stefan di farci dei cocktail ghiacciati», mi dice Ashton quando chiudiamo il cart.

«Io vado a bermi un po’ di sudore in bagno».

Ride e si allontana.

Non vedo né Grant né Rhett quando entro nel capanno. Bene, ho bisogno di qualche minuto per rinfrescarmi e sistemare i capelli. Sono completamente fuori controllo a causa dell’umidità e della guida a scatti di Ashton. Conosce solo due velocità: o inchioda o va a tavoletta. Temo dovrò passare dal chiropratico del centro ricreativo prima della fine dell’estate.

Sono in equilibrio con un piede sul WC e l’altro sul lavandino, con la maglia sollevata per dirigere l’aria condizionata tra i seni, quando la porta si apre.

«È una sensazione pazzesca», dico a Ashton. Ma quando mi volto, non c’è Ashton, bensì Grant.

Mi guarda affascinato, come se non avesse mai pensato a quella posizione per rinfrescarsi. «Uh…».

Apro la bocca ma non emetto alcun suono.

«Scusa». Si volta per andarsene.

Sta per uscire dalla porta quando decido di dire la cosa più stupida di sempre. «Sono sobria».

Si ferma. Prima che si giri verso di me, abbasso in fretta la maglietta per coprirmi. Quando si gira, noto sul suo volto un mezzo sorriso, come se non credesse di aver sentito bene. Non ci credo nemmeno io.

«Sei anche in piedi sul WC nel bagno del capanno».

«Sì, vero», esclamo scendendo. «Dicevo solo che… sono sobria… in caso volessi saperlo».

Sorride. Poi fa un passo verso di me. Trattengo il fiato, incrocio le dita. «Ti bacerò Lana, ma non qui».

«Bene, credo». Mi mordicchio il labbro per non lasciarmi sfuggire un altro commento troppo sincero.

Grant ride di nuovo, divertito dalla mia assurdità.

«Si può scegliere tra mango e ananas o fragola e kiwi», annuncia Ashton in lontananza, ma so che sta arrivando. «Gli ho detto di non metterci alcol, così se Grant… oh, ciao, Grant».

Chiudo gli occhi e deglutisco.

«Non è un problema darci dentro col bere», le dice lui scherzando.

«Buono a sapersi», risponde inarcando un sopracciglio. «E per te, Lana, è un problema darti da fare?»

«Oh, ma dai, smettila!».

Grant e Ashton scoppiano a ridere. A quanto pare oggi sono la persona più simpatica del mondo.

«Prendo quello al mango», esclamo. Grant me lo passa dopo averlo preso dalle mani di Ashton, visto che lui è tra noi due.

«Ashton, ti dispiace aiutare Stefan al bar per il resto del pomeriggio?», le chiede Grant senza mai smettere di guardare me.

«Sì! Evviva, finalmente un po’ d’azione. Intendo, dietro il bancone. Sai, con i cocktail…».

«Abbiamo capito», dico per zittirla, perché è chiaro che entrambe diciamo solo cose stupide al momento.

Grant e io ci allontaniamo col cart delle bevande, lasciando Ashton e Stefan al bar della nona buca.

«Facciamo che eliminiamo le domande ovvie», esclama poco dopo aver messo in moto. «Ho diciotto anni. Sono all’ultimo anno alla Printz-Lee. Ho una sorella, Faith, di quattordici anni, e un fratello, Garrett, di undici. Abbiamo un golden retriever che si chiama Max. Mio padre è il preside di una delle scuole elementari locali, mia madre è un cardiochirurgo. Viviamo in una piccola città che non puoi conoscere, in Connecticut. Non ho idea di quello che vorrò fare nella vita se non viaggiare e vedere più posti possibili prima di dover essere costretto a crescere. Sono nella squadra di canottaggio e gioco a lacrosse. E basta, come biografia dovremmo esserci».

Sbatto le palpebre. Lui mi guarda in attesa. «Tocca a te».

«Sono Lana. Nient’altro di importante, oltre a questo».

«Dai», mi sprona. «Niente fratelli? Sorelle?». Scuoto la testa. «A che anno sei?».

«Secondo». Poi, quando lui annuisce per incoraggiarmi, aggiungo con riluttanza: «Vivo con mia madre in una cittadina che non puoi conoscere in Massachusetts. Non ho cani, ma un gatto randagio viene sempre a far pipì sui gradini di casa nostra, causando un fetore tremendo». Lui ride. «Non ero mai uscita da Sherling fino a venerdì scorso, quando sono arrivata qui». Inarca un sopracciglio. «Mia madre fa il necessario per prendersi cura di entrambe e io anche. Non amo gli sport di squadra e non faccio sport».

Anche questo lo diverte.

«Perché sei qui per l’estate?», gli domando prima di raggiungere il gruppo di golfisti.

«Mio padre ha pensato che fosse giusto farmi fare esperienza, sai, sul lavoro», mi dice. È a disagio. «Lo so, sembra terribile detto così. Ma non è che io non volessi lavorare, è che preferirei farlo durante l’anno scolastico, ma non me lo permettono. Gli altri anni, durante l’estate, facevamo sempre qualche viaggio».

«Oh. Io lavoro da quando avevo tredici anni».

Il cart si ferma un po’ troppo bruscamente di quanto volesse lui. Mi guarda sconcertato quando i golfisti si avvicinano.

Dopo poco ripartiamo e io decido di aggiungere: «Non sono una da scuola privata. Non sarei qui se qualcuno non pagasse per me. La mia non è una famiglia ricca. E non ho idea di cosa fare della mia vita, ma la cosa non mi preoccupa».

Sorride. «Mi piace tutto di te».

«Tranne la sincerità, immagino».

«Soprattutto quella». Dopo esserci fermati ad aspettare un tizio che sta completando l’ultima buca e ci fa segno di andare avanti, Grant prosegue: «E per quanto cerchi di evitarlo, a volte mento. Ma a te non mentirò mai. Mi sembra corretto così».

«È la tua maledizione a farti parlare in questo modo», scherzo.

«Tu e le tue maledizioni», esclama ridendo. «Dovrai spiegarmi questa storia, prima o poi».

Fermiamo il cart accanto a un gruppo di giocatori più giovani degli altri di almeno quarant’anni. Direi che potrebbero essere alla soglia dei trenta. Ma si comportano come se fossero ancora al liceo, sparando stupidaggini e spintonandosi.

«Vorrei un Johnny Walker Black con ghiaccio», ordina uno dei golfisti dall’aria più pomposa, rivolto a Grant, «e una bottiglietta d’acqua». Poi sposta la mano sui miei pantaloncini per palparmi il sedere.

Mi paralizzo.

Grant deve sentire la mia tensione, perché si ferma per guardarmi. Stringe gli occhi, nota che qualcosa non va, anche se dalla sua posizione non vede cosa.

Poi il ragazzo stringe la mano sulla mia natica.

Vengo pervasa dalla furia. Immagino sia evidente, dato lo shock che leggo negli occhi di Grant. Ma prima che lui reagisca, allungo la mano dietro di me, afferro il pollice del golfista e lo torco come se volessi metterlo al tappeto usando solo quel dito. Tutto il suo corpo si contorce, cerca di trovare sollievo dalla distorsione. Si scosta con una smorfia di dolore.

«Vedi questo corpo?», gli ringhio nell’orecchio con i denti serrati.

Lui si lamenta quando giro ancora un po’ il pollice.

«Non lo puoi toccare».

«Ma che succede?», grida uno dei suoi amici quando si rende conto di quello che sta accadendo.

Lo lascio andare. Lui scuote la mano vigorosamente. «Stronza». Sorrido con gli occhi iniettati di cattiveria.

Grant non si è mosso nei pochi secondi che è durata la scena. Lo guardo e mi rendo conto di come deve essere stato, ai suoi occhi, questo episodio. Merda. Gli rivolgo un sorriso timido, sapendo che la mia rabbia incontrollabile può risultare strana. Forse mi servono più lezioni di boxe.

«Ragazzi, per il resto della giornata non avrete più da bere», esclama Grant con voce autoritaria, che non lascia spazio a repliche. «Se avete qualche problema, parlate col manager, ma io non vi servo. Andiamo, Lana».

«Dici sul serio?», fa incredulo un ragazzone dall’aspetto rozzo.

Ce ne andiamo prima che possano fare una scenata. O anche peggio.

«Io…».

«Stai bene?», mi chiede, interrompendo le mie scuse riguardo quel lato del mio carattere. Ma non certo per aver quasi strappato il pollice a quel tizio.

«Sì», rispondo come se nulla fosse. «Lavoravo in un pub, questo è niente, credimi».

«Niente? Non ne sono tanto sicuro. Ma potresti avergli rovinato la mano che usa per il golf, che è il minimo che si merita». Mi guarda con un sorriso e con ammirazione. «Sei diversa da tutte le ragazze che ho incontrato».

«Forse avrei dovuto aggiungere che sono cattiva nella mia biografia».

Grant ride fragorosamente e i golfisti lì vicino gli rivolgono sguardi infastiditi. Questo è davvero uno sport stupido.

«Non cambiare mai», continua, cercando di placare le risa mentre ci fermiamo. Poi mi si avvicina proprio mentre sto per scendere per servire altri giocatori. Il suo respiro mi scalda il collo. «Non vedo l’ora di baciarti».

«Sono ancora sobria, eh», sottolineo, con le guance tese in un sorriso smagliante.

Passiamo il resto del pomeriggio a farci mille domande su quello che ci piace, su cosa non ci piace, sui libri preferiti, sui film che abbiamo apprezzato, sui cibi che non mangiamo volentieri e persino sui desideri espressi spegnendo le candeline il giorno del compleanno. È stato come un primo appuntamento… sul lavoro. Se solo io fossi una da appuntamenti. Ma non mi ha mai baciata, nonostante le varie occasioni. Io avrei voluto davvero che lo facesse.

Quando mi sono cambiata negli spogliatoi, Cary mi chiede di raggiungerlo nel suo ufficio. «Ho sentito quello che è successo alla dodicesima buca».

«Oh, mi dispiace tantissimo», esclamo prima di lasciarlo continuare. Sono in preda al panico e non riesco a frenare le parole. «Sta bene? Gli ho rotto il pollice? So che non avrei dovuto aggredire un membro del club, mi dispiace. Non succederà mai più».

«Lana», prosegue Cary con calma. Premo le labbra una contro l’altra per non aggiungere altro. «Mi dispiace che sia successo e volevo assicurarmi che stessi bene».

«Cosa?», domando confusa. «Io?»

«Sì. Quello che è successo è molto grave. Nessuno, non importa che sia un membro del club o il Presidente degli Stati Uniti, ha il diritto di sfiorarti. Voglio che tu ti senta al sicuro quando lavori qui. Al ragazzo sono stati revocati temporaneamente i privilegi, così che capisca che, qui dentro, un comportamento del genere non è tollerato».

Spalanco la bocca stupita. Alla fine riesco a balbettare: «Si è preoccupato per me?».

Sorride calorosamente. «Fai parte della famiglia KCC, certo che mi sono preoccupato».

«Grazie», mormoro. «Sto bene».

«Bene. Allora ci vediamo venerdì».

Sono ancora sconvolta quando esco dall’ufficio e per poco non vado a sbattere contro Grant, che è in piedi di fianco all’ingresso del personale.

«Eri di nuovo sovrappensiero?», scherza.

«Eh?», domando, spostando l’attenzione su di lui. «Hai detto tu a Cary quello che è successo?»

«Sì, doveva saperlo. Non è stato un episodio normale, anche se dovessi aver slogato il pollice di quel ragazzo. Impressionante, tra l’altro. E poi, volevo essere sicuro che nessuno degli altri barman servisse da bere a quei ragazzi per oggi».

Nessuno mi aveva mai difesa, se non Tori e Nina. Ma loro sarebbero al mio fianco a tirare pugni e calci, non penserebbero al mio onore.

Stringo le braccia intorno al petto di Grant perché sono troppo bassa per arrivare al collo e lo abbraccio prendendolo alla sprovvista. Dopo lo shock iniziale per il mio gesto, risponde all’abbraccio con decisione. «Grazie», mormoro con la voce ovattata dal suo corpo.

Mi stringe ancora una volta prima di scostarsi.

«Mmm, come è andata la giornata?», domanda Ashton alle mie spalle.

Sorrido come una matta. «Ho spaccato i culi e dato da bere agli assetati. E la tua?»

«Ho baciato Stefan e ho bevuto troppo».

Grant e io ridiamo sorpresi. «A proposito di confidenze», esclama Grant. «Credo che ci vedremo…». Esita. «Mmm, lunedì, se riesci a venire da Stefan». Aggrotta la fronte e io faccio lo stesso. «Non posso credere che manchino così tanti giorni».

«Venerdì non ci sarai?»

«Viene mio padre in città e vuole passare il weekend con me».

«Oh», commento senza nascondere il disappunto. «Allora ci vediamo lunedì». È come se il mio corpo si sgonfiasse mentre lo guardo allontanarsi verso il parcheggio del personale.

«Oh, non ti ha baciata, vero?», domanda Ashton, cingendomi le spalle con un braccio e incamminandosi verso la navetta. Con riluttanza, sposto lo sguardo dalla schiena di Grant che se ne va.

«No, non mi ha baciata».