Capitolo dieci

«Ho deciso di cantare per te», disse a Thaylina una volta entrato in casa sua.

Thaylina ridacchiò deliziata, non sperava in nulla di meglio.

«Ma prima, dovrai fare una cosa per me». Si slegò la cappa di seta e la sistemò intorno alle spalle della ragazza. Era pesante per la sua esile corporatura.

«Cosa vuoi?», domandò Thaylina, più curiosa che spaventata.

È strano entrare nella sala principale e trovare gente seduta ai tavoli per cena. Mi ero abituata alla tranquillità del campus durante gli ultimi due giorni. Ma era anche un po’ inquietante.

Trovo Lance seduto al tavolo nell’angolo che di solito scelgo io, insieme a Ashton e Brendan.

«Come è andata al The Grille?», domanda Ashton quando mi accomodo.

«Un casino», rispondo facendola ridere. «E tu cosa hai fatto oggi?»

«Ho fatto shopping… online. Mi è stato concesso il privilegio di usare internet, così ho cercato qualcosa da mettere per il ballo».

«Ah, già, il ballo», sospiro con un’espressione addolorata. «Sembra strano chiamarlo così. Non si può dire solo che è una festa?»

«Se vuoi sì, ma potresti offendere la commissione».

«Non so chi siano, quindi a loro non lo dirò. Quand’è la prima festa

«Il diciannove agosto». Ashton prende un boccone di mousse al cioccolato con il cucchiaino, poi se lo gira in bocca e lo assapora come fosse un lecca-lecca.

«Ti vesti da principessa?», scherza Brendan, appoggiandosi allo schienale della sedia e incrociando una caviglia sul ginocchio. Sembra così arrogante; vorrei calciargli via la sedia da sotto il sedere per vederlo cadere. Rispondo alla sua idiozia alzando il dito medio. Non dovrebbe essere sorpreso dalla mia ostilità ogni volta che mi rifila quel nomignolo. Sono quasi certa che lo dica solo per infastidirmi.

«Forse sarebbe meglio da folletto arrabbiato», ridacchia Lance. «Così parti avvantaggiata».

«Ti conviene iniziare a cercare il travestimento», aggiunge Ashton.

«Abbiamo due mesi», replico, non comprendendo l’importanza di trovare il costume adatto per uno stupido ballo.

«Passeranno in un batter d’occhio».

«Non mangi?», domanda Brendan con un ghigno. Non so mai cosa sa o cosa finge di non sapere per chissà quale contorta ragione. Mi manda fuori di testa. Sono convinta che voglia stuzzicarmi fino a quando non sarò costretta a ucciderlo.

«Ho già mangiato».

«Non dirmi che ti sei fermata alla mensa», commenta Ashton con un’espressione terrorizzata.

«No, ho mangiato fuori».

Lance sposta l’attenzione su di me. Lo sa. Prima che Ashton o Brendan possano chiedermi con chi sono uscita – una domanda che vedo balenare negli occhi della mia amica – Lance domanda: «Hai aperto il regalo di tua madre?»

«Mmm», lo guardo sospettosa. «Non ancora, ma lo farò quando tornerò in stanza».

Ashton e Brendan ci guardano, cogliendo il messaggio non tanto privato che Lance sta cercando di lanciarmi riguardo la scatola che Niall mi ha consegnato stamattina. Ora sono praticamente sicura che tutti sappiamo che non è un regalo da parte di mia madre.

«Allora», esclamo per cambiare argomento. «Cosa si fa domani? Andate da Stefan?»

«Vero!», commenta Ashton con occhi emozionati. «È la prima festa dell’estate! E i suoi party sono sempre fantastici». Si abbandona sulla sedia, il suo entusiasmo si è spento tanto in fretta quanto era esploso. «Ma non so come potremo arrivarci. Di solito chiedo un passaggio a qualcuno del golf club».

«Posso chiedere a Lily», propone Lance. Mi mordo l’interno della guancia per non sorridere come un’idiota ora che so che domani vedrò Grant. Sul serio, ma che cosa mi succede?

«Diteci a che ora», aggiunge Brendan e la mia gioia evapora perché mi rendo conto che ci sarà anche lui.

«Lance… posso parlarti?», domando.

«Certo», risponde con voce incuriosita. Si alza e lo seguo fuori dalla sala. «Cosa succede?»

«Sai delle regole che mi riguardano per le uscite dal campus, vero? Che devo essere con te o uno dei tuoi fratelli?»

«Sì, mio padre me l’ha detto».

«Spero che non ti metta a disagio. Ma vedo te più spesso degli altri e sei l’unico tra i tuoi fratelli che riesco a sopportare».

Lance ride. «Non c’è problema. Tanto andiamo comunque quasi sempre negli stessi posti. Sono sicuro che ci inventeremo qualcosa, se non dovesse essere così. Mio padre si fida di me, ma sono alla Blackwood per un motivo».

«Perché hai coperto tuo fratello».

«Esatto. Quindi se avessi bisogno di qualcuno che ti copra, io sono un esperto».

Sorrido. «Non ti metterò nei guai, non è questo che volevo dire. È solo che non abbiamo modo di comunicare senza telefoni. Io e te non abbiamo nessuna lezione insieme e tu non lavori al golf club, quindi… come ci organizziamo per uscire dal campus?»

«Ah, giusto». Lance riflette per un attimo.

«Potreste nascondere dei bigliettini», suggerisce Ashton oltre la siepe, tagliata a forma di cappello.

«Ashton, cosa non ti è chiaro di “stai zitta e ascolta”?», la rimprovera Brendan. I due compaiono da dietro i cespugli. Incrocio le braccia sul petto e fulmino Brendan con lo sguardo.

«Cosa c’è?», si difende Ashton. «Non è che gli stia dicendo qualcosa che non sapessimo già. E poi, posso aiutare. È una cosa che ho sempre voluto fare da quando sono arrivata qui, ma tutti quelli a cui l’ho proposto, l’hanno reputato stupido. Preferiscono passarsi i bigliettini, come negli anni Novanta».

«E nasconderli ci riporta proprio indietro di un altro secolo», commenta Brendan con un sospiro esasperato.

«Ma in questo modo, li leggeremo tutti», aggiunge Ashton guardando Brendan con aria divertita. «Come un messaggio di gruppo. Soprattutto perché spesso andremo insieme alle feste. Per domani, per esempio, Lance può lasciare un bigliettino per dirci a che ora ci passa a prendere Lily… sempre che possa venire».

Lance mi guarda in cerca di approvazione. «È sempre meglio di niente».

«Dove?», domanda Lance a Ashton. Il suo sorriso brioso compare sul viso e capisco che ha già in mente un posto.

La seguiamo nella foresta di betulle. Non posso definirmi sorpresa da tutto questo. E non mi stupisco nemmeno quando tira fuori la sigaretta elettronica e una scatolina da un buco nel tronco di un albero. È una piccola apertura e Lance riesce a malapena a infilarci la mano. E proprio per le dimensioni ridotte, si confonde con gli altri segni scuri sul legno. Ma è anche un incavo profondo e qualsiasi cosa venga nascosta, è protetta da occhi indiscreti.

«Come fai a ricordarti che albero è?», domanda Lance, guardando tutte le betulle che ci circondano, con i loro tronchi bianchi e neri.

«Ricordo il numero cinque», spiega Ashton.

Tutti la guardiamo confusi e lei continua: «Il secondo della terza fila cominciando a contare dall’altalena».

«Io… va be’», commenta Lance, a cui non è chiara la situazione. Io sorrido, perché solo Ashton se lo ricorderebbe così. E proprio perché è una scelta tanto arbitraria, non la dimenticheremo mai.

«Ho un vecchio portagioie in cui i bigliettini staranno alla perfezione. Possiamo metterli lì».

Ashton e io ci sediamo sull’altalena, dividendoci la sua sigaretta elettronica e organizzando i dettagli dello scambio di bigliettini tramite l’albero. Non avevo idea delle complessità legate al segnalare la presenza di un messaggio, del capire chi l’ha scritto e di comunicare agli altri di leggerlo. Ma alla fine risolviamo tutto e sembra abbastanza facile da ricordare. Anche se è abbastanza triste dover ricorrere a questi stratagemmi per comunicare. Ma meglio che tirarsi i sassolini contro la finestra.

Quando torniamo sulla strada principale, mi fermo davanti ai tralicci con le rose a guardare Brendan e Lance che proseguono verso il loro dormitorio. Ashton è già andata in biblioteca. Brendan probabilmente sente i miei occhi addosso, perché si volta a osservarmi un attimo prima di scomparire. Qualche secondo dopo torna, senza Lance.

«Risponderò a cinque delle tue domande se tu risponderai a cinque delle mie». Forse è l’effetto dell’erba che mi rende così accomodante, perché all’inizio avevo intenzione di rispondere solo a tre.

Sorride. «Perché cinque?»

«Mi ha ispirato il discorso di Ashton», rispondo ridacchiando involontariamente.

«Queste domande non possono essere lasciate dentro il tronco di un albero», sottolinea. «Si esternano solo di persona».

«Ovviamente», replico, come se fosse inutile farlo notare. «Non vorrei mai farlo sapere agli altri, tantomeno metterlo per iscritto».

«Bene», commenta sollevato. «Allora penserò a dove incontrarci e ti dirò».

«Okay».

«Perché hai cambiato idea?»

«Perché la verità mi attrae molto».

«Ed è l’unica cosa che valga la pena sapere». Mi fa l’occhiolino e scompare dietro l’angolo.

La prima cosa che faccio quando arrivo in stanza è rovesciare i miei effetti personali sul letto, sperando che ci sia anche il mio telefono e Niall non l’abbia visto. Ovviamente non c’è. L’oggetto che ha più valore è la mia giacca di pelle che sono contenta di riavere. Sono stupita dal trovare alcune monetine chiuse in una bustina di plastica. Sollevo la fede nuziale dalla pila di anelli e bracciali che indossavo quella notte.

«Bastardo». Intendo l’uomo, non l’anello. Mi chiedo come Nick abbia spiegato alla moglie l’assenza della fede. E questo mi fa pensare a mia mamma.

E anche se – o forse proprio per questo – sono fatta, la preoccupazione che mi coglie sembra pesante come nuvole cariche di pioggia. Mia madre non è un’inetta, ma nemmeno una persona responsabile. Badavamo una all’altra. Mi calma quando io sono furiosa, il che è spesso provocato da qualcuno che l’ha ferita. E io faccio il possibile per impedire che le venga fatto del male.

Ora… lei soffre e io non sono al suo fianco.

Sono bloccata qui, non posso guarire il suo cuore. Non può sentire le mie parole quando le dico che lei è meglio di molte delle persone che popolano la sua vita. Che questi non si meritano la sua gentilezza o il suo perdono. Che vorrei che non fosse tanto ingenua. E in risposta, lei direbbe che mi vorrebbe più fiduciosa. Che dovrei permettere a più gente di avvicinarsi a me, per poter dimostrare loro quanto sono buona e amorevole. Poi io mi scrollerei di dosso le sue parole, permettendo alla rabbia di infiammarmi fino al punto di scatenare una rissa con chiunque dica la cosa sbagliata, si prenda uno spazio che non gli appartiene o tocchi una parte di me che non ha diritto di toccare.

Mia madre mi aspetterebbe con del ghiaccio e un’espressione triste. Ma non mi direbbe mai quanto è delusa. Non ce n’è bisogno. I suoi occhi mi dicono di più. Mi dicono che incolpa sé stessa per la persona che sono diventata e questo non fa altro che alimentare la mia ira. L’essere in questo posto peggiora le cose perché non posso starle vicina. E ora ho proprio bisogno di lei, forse tanto quanto lei ne ha di me.

La pesantezza che sentivo prima si dissipa in fretta. Emetto un urlo di frustrazione e lancio la montagna di cuscini che trovo sul letto per tutta la stanza.

«Questo non è il mio posto!». Le mie parole sono piene di rabbia, disperazione e impotenza.

Crollo sul letto e grido contro il cuscino con tutta la forza che ho. Continuo a farlo fino a che non ho più fiato e dalla gola non mi esce alcun suono. Non mi rendo conto di piangere fino a quando non sollevo la faccia e noto le lacrime sul tessuto bagnato.

Qualcuno bussa alla porta. «Lana?», mi chiama Ashton. «Posso entrare?».

Mi asciugo le guance e respiro a fondo per riprendermi prima di rispondere.

Un’espressione di dolore è dipinta sul suo volto quando entra e, prima che mi renda conto di cosa succede, mi si avvicina e mi abbraccia. Praticamente mi soffoca nel suo abbraccio deciso, il mio viso preme contro gli angoli ossuti della sua spalla. Sono troppo scioccata per fare altro, se non restare immobile con le braccia lungo i fianchi. Quando capisco che non ha intenzione di lasciarmi, rispondo all’abbraccio.

«Il mio cuore ne aveva bisogno», mi dice Ashton con un sorriso dolce quando lascia la presa. «Grazie».

Come si risponde a una frase del genere? E poi, chi dice una cosa così?

«Nessun problema».

«E se mai avessi bisogno di urlare di nuovo – e parlo di grida vere – conosco il posto perfetto. Dimmelo la prossima volta, okay?».

La guardo sbattendo le palpebre. «Hai un posto designato alle urla?»

«Tutti dovrebbero averne uno».

Sorrido, mi fa piacere che sia qui ora. «Potrebbe servirmi».

«Andiamo, dai». Non ribatto e la seguo.

Ashton non mi chiede cosa non vada o se io voglia parlarne, ma mi prende per mano e mi trascina con sé. Penso che forse sia abituata a nascondere la sua verità al mondo, quindi le sembra di non avere il diritto di fare domande a un’altra persona. E, visto che sembra una persona che tiene molto alla verità, mi dispiace che sia costretta in una vita artificiosa. Sta imparando, a modo suo, a interagire sinceramente. Questo spiega i suoi commenti incomprensibili e il candore; sta lasciando vedere al mondo sé stessa, quella che è sotto i vestiti e la bellezza. Ed è in quel momento che capisco: la sua maledizione è l’autenticità. Forse per questo motivo mi sento all’istante legata a lei, anche se è strana. Entrambe cerchiamo la stessa cosa, essere oneste con noi stesse. Spero solo di non dover assistere alla sua distruzione quando la sua maledizione verrà a chiederle il conto.

Quando raggiungiamo l’ingresso, superiamo le porte dell’entrata principale, che devo ancora utilizzare. Scendiamo i gradini di pietra e attraversiamo il sentiero di ciottoli che troviamo fuori dal cerchio che formano gli edifici. Mi fermo per ammirare quello che ci si para davanti.

Un enorme campo si estende e all’improvviso digrada. Quello che vedo oltre è solo acqua, chilometri e chilometri d’acqua.

«È il lago della Blackwood. È lo stesso su cui si affacciano le case di Lily e Stefan. Solo che quelle si trovano più a nord», mi spiega. «A Kingston, tutti vivono in riva al lago o sulle montagne. Nel mezzo c’è il centro del paese. Noi, ovviamente, siamo sul lago».

«Ho sempre pensato che intorno ci fossero solo boschi. Ma è anche vero che non mi sono mai spinta tanto oltre il Parco».

«Questo è uno dei miei posti preferiti. Forse perché non ci viene nessuno. Sembra che si dimentichino di qualsiasi cosa ci sia fuori dagli edifici una volta che ci entrano».

Il campo è più esteso di quanto pensassi e ci mettiamo un po’ a raggiungerne il limitare. Scopro che è proprio come sembra: pare che un bambino abbia preso le forbici, sollevato il prato e l’abbia ritagliato con poca precisione, lasciandosi alle spalle rientranze profonde e improvvise su una scogliera rocciosa.

«Porca miseria», commento. Un leggero senso di vertigine mi fa battere il cuore. Non c’è una ringhiera, nessuna barriera protettiva. Se qualcuno dovesse proseguire oltre questo punto, cadrebbe nel vuoto e atterrerebbe di sotto. Guardo in basso per vedere l’acqua del lago che lambisce dolcemente i massi.

Ashton, inaspettatamente, fa un passo in avanti e il mio cuore salta un battito. Mi è sembrato che avanzasse nel nulla, ma visto che la vedo ancora, dal ginocchio in su, deve esserci qualcosa lì sotto. Devo arrivare proprio sul bordo per vedere le rocce sparse alla rinfusa. Ognuna delle sporgenze si protrude nel vuoto e sembra poter crollare da un momento all’altro. Insieme formano un sentiero tortuoso che porta fino all’acqua.

Ashton cammina sul cornicione fino ad arrivare al punto più lontano che si affaccia sul lago. Solo guardarla lì in piedi mi fa venire le palpitazioni.

Notando che io non ho lasciato la sicurezza del prato, ride. «Forza, non è così spaventoso come sembra».

Con cautela avanzo sulle rocce. Mi concentro su ogni passo, temendo che anche il minimo movimento possa farmi precipitare verso la morte. Alzo lo sguardo e vedo Ashton. Una leggera brezza sale dall’acqua e le fa ondeggiare i capelli.

«Questo è il “Posto delle Grida”, il luogo dove sfogarsi».

«È così che si chiama?»

«Ora sì. Da oggi. Abbiamo bisogno che lo sia». Mi prende la mano. «Pronta?».

Guardo verso la luce che scintilla sull’acqua scura, come se il lago stesse cercando di catturare ogni singolo bagliore prima che il sole tramonti. Chiudo gli occhi e trovo quel posto dentro di me che è sempre infuriato. Quello che odia la mia maledizione. Quello che vuole che Allie viva. E che Vic bruci. Quello che vuole far del male a qualsiasi uomo abbia mai ferito mia madre. O toccato ciò che non era loro. E ogni persona che abbia mentito quando affermava di amare. Non devo cercare a lungo dentro di me, quelle emozioni sono sempre pronte a esplodere.

Apro gli occhi e guardo quelli di Ashton, color zaffiro. Annuisco.

Ci voltiamo verso l’acqua e respiriamo a fondo, dando fiato alla nostra rabbia, frustrazione e tristezza prima di scatenarci nell’urlo più forte che sia mai stato lanciato da questa scogliera. È liberatorio. Più di quanto pensassi. Lascio che il mio dolore prenda il volo, lo libero nella luce del sole che tramonta e lascio che sparisca all’orizzonte.

E non rimane altro a gridare, solo un sorriso raggiante. Ashton e io ci guardiamo, ancora mano nella mano e ci mettiamo a ridere. È una risata vera e sentita, perché abbiamo condiviso qualcosa di sacro. Se qualcuno fosse qui a vederci, ci crederebbe matte. E forse è proprio la follia dentro di noi a rendere la risata profonda e rumorosa, a farla durare fino a quando non devo asciugarmi le lacrime che mi sgorgano dal lato degli occhi.

«Grazie, Ashton», le dico mentre ci incamminiamo sul prato. «La mia anima ne aveva bisogno».

Mi rivolge un sorriso più luminoso del sole e io rispondo allo stesso modo. E, senza ombra di dubbio, capisco che lei è il miglior genere di amica che si possa avere; è una di quelle che ti troveranno sempre un “Posto delle Grida” e una ragione per abbracciare, per smussare il dolore.

Quando arrivo alla porta della mia stanza, vedo che c’è un Post-it appeso ad aspettarmi. “Apri la scatola!”.

«Cavolo», mormoro, rendendomi conto che ho dimenticato di scartare il regalo perché troppo presa dalle mie stesse urla.

Quindi lo faccio appena entro. E dentro la scatola trovo un telefono. Sorrido. «Grazie, Lance», dico ad alta voce, prendendo il bigliettino piegato sotto il cellulare.

Non accenderlo quando sei all’interno del campus. Lo troveranno. Non appena puoi, CHIAMAMI. Joey.