Capitolo undici

«Guarda nei miei occhi e dimmi cosa vedi», la sollecitò l’affascinante uomo. «Cosa desidera di più il mio cuore? Quali sono le mie intenzioni?».

Thaylina faticò a muoversi sotto la cappa di seta. Ma nemmeno in quel momento ebbe paura di lui. Non finché non guardò nei suoi occhi e vi lesse la verità.

Esco dal letto appena in tempo per il mio appuntamento col coach. Dopo essermi lavata in fretta i denti, mi infilo un paio di pantaloncini e un top, poi lascio di corsa la stanza. Per fortuna sono veloce ad attraversare il Parco, altrimenti arriverei in ritardo.

Quando arrivo al secondo piano dell’edificio della segreteria, trovo una donna dietro a una scrivania in cima alle scale, nello stesso posto in cui, nei dormitori, c’è la sala comune. Il resto della stanza è pieno di sedie su cui sono seduti studenti in attesa. Dall’espressione pietrificata delle loro facce, sono nei guai, oppure sono nuovi.

«Salve, sono Lana Peri. Ho un appuntamento».

«Si sieda».

Esito un secondo per accertarmi che quella donna sia umana, visto quanto sembra distaccata e da quanto piatto risulta il suo tono. Non mi ha nemmeno guardata, ha tenuto gli occhi incollati allo schermo. Qualcuno odia il proprio lavoro. O la gente.

Non sono nemmeno arrivata alla sedia quando sento: «Lana?». E mi paralizzo. Conosco quella voce… fin troppo bene. Mi volto lentamente con un enorme sorriso incollato al viso. La regina preside sarebbe fiera di me.

«Signor Garner. Wow. Mi sta stalkerando?».

Lui esita. «Co-cosa? No». Ride forzatamente, sposta gli occhi sulla donna alla scrivania con fare nervoso. «Sei simpatica. Ora perché non mi segui?».

Sussurro passando accanto alla scrivania: «Sì che mi stava stalkerando». La donna mi guarda con sospetto e io sussulto per il suo sguardo aggressivo.

«Lana», mi chiama il signor Garner dalla fine del corridoio.

Lo seguo in un ufficio grande come una stanza del dormitorio. Non sono stati tanto originali nel progettare tutto questo, eh?

Non c’è assolutamente nulla appeso alle pareti beige e quasi nessun mobile, se non una scrivania e qualche sedia.

«Minimalista, chi l’avrebbe mai detto», esclamo guardandomi intorno.

«Non ho ancora avuto la possibilità di cambiare nulla. Sono arrivato ieri sera tardi. Sarà diverso la prossima volta che ci verrai».

«Perché sei qui, Isaac?», chiedo passando con insolenza al “tu”.

Il volto del signor Garner rimane inespressivo ma i suoi occhi si induriscono tanto da farmi capire quanto l’ho infastidito. Poi scuote la testa e si gratta il naso sotto gli occhiali, come se gli avessi già fatto venire il mal di testa. «Possiamo non cominciare così?»

«Cosa intende? Non abbiamo nulla a che spartire».

«Sai esattamente cosa voglio dire. Perché non ti siedi?»

«Non finché non mi avrà detto cosa ci fa qui. Non credo nelle coincidenze». Poi capisco. «Niall Harrison l’ha fatta assumere qui per controllarmi, vero?»

«Potrebbe avermi informato di un posto vacante e avermi fornito una lettera di raccomandazione. È una bella opportunità, quindi ho accettato l’offerta».

«Come conosce Niall?»

«Te l’ho detto, sono cresciuto a Oaklawn. È difficile vivere lì e non conoscere gli Harrison in qualche modo. Sua moglie era una delle mie professoresse alla Dartmouth. Sono molto…».

«Potenti?»

«Volevo dire che sono una famiglia influente, ma anche quello suona male. Sono… investitori».

«E su cosa investono? Su di me?»

«Suppongo di sì, credo tu sia una specie di investimento. Vogliono che tu abbia successo».

«Ma cos’hanno tutti con quella parola? Successo? E chi determina quando avrò successo? Quando avrò un diploma? Un salario a sei zeri? Che stronzate!».

«Non vuoi andare al college?»

«Non so cosa voglio. Ma sono stanca di persone che pretendono di conoscere il mio futuro meglio di me». A questo punto sono così nervosa che cammino avanti e indietro per la stanza.

«Hai ragione», commenta calmo.

Quella risposta mi fa fermare.

«Nessuno può farti fare qualcosa che non vuoi. Non possono costringerti a studiare e ad andare all’università. Spero che trovi qualcosa che ti appassioni e lo esplori. Ma solo se sei tu a volerlo».

«Sono colpita, signor Garner», dico, prendendo posto di fronte a lui. «Ha imparato questa frase in una delle lezioni del professor Harrison?».

Ride. «In realtà questo è il copione», posa la mano su uno spesso fascicolo, «che un coach della Blackwood deve imparare. Sono due settimane che cerco di memorizzarlo e, detto fra noi, non ci riesco proprio. Per ora, sei la mia unica studentessa. Sto andando a braccio. Quindi non farti mandare spesso nel mio ufficio o inizieranno a mettere in dubbio i miei metodi».

«Continuo a dire che io cerco di starmene lontana».

«Forse qui gli insegnanti saranno più preparati per la tua… sincerità».

«Lo spero».

«Voglio rivedere il tuo piano di studi e fornirti il programma per il corso estivo». Apre un altro raccoglitore ad anelli che è spesso quasi quanto quello del “copione del coach”. Post-it colorati spuntano dalle diverse sezioni. Mi sporgo in avanti per leggerne un paio. Docenti, salute, legalità… Mi scosto quando il signor Garner trova la pagina che stava cercando e torna a guardarmi.

«Visto che questo ultimo arresto è stato per possesso di droga, sarai sottoposta a dei test a sorpresa. Se non dovessi superarli…».

«Non li supererò almeno per i prossimi trenta giorni».

Chiude gli occhi e sospira. «Grazie per aver ammesso che hai fumato, ma così non ci aiuti, Lana».

«Sto solo dicendo che non ha senso sottopormi a un test ora, perché non sarò pulita per un po’. Cerco solo di dare una mano».

Preme le labbra una contro l’altra per non sorridere. «Non sono io a decidere quando faranno i test. Ma vedrò cosa posso fare. Questo non vuol dire che ne sarai esentata per i prossimi trenta giorni. Potrebbero fartene comunque fare uno per avere dei dati di partenza e aspettarsi così che risulterai positiva al THC, visto che credo che sia per liberarti da quello che ti servono i trenta giorni».

«Conosce proprio tutti i dettagli», esclamo con tono insolente.

Non reagisce. «Visto che hai avuto diversi richiami per risse negli ultimi tre anni, sarai assegnata a un gruppo di terapia che si concentra sull’espressione sana dell’emotività. Incomincia in autunno».

«Riesce davvero a dirlo senza ridere? Perché non la chiama “gestione della rabbia” come il resto del mondo?».

Il signor Garner si mordicchia il labbro inferiore, di nuovo per trattenere il sorriso. So che ritiene tutto questo ridicolo quanto me. «Dovresti anche partecipare», deglutisce prima di continuare, «ad attività fisiche stancanti o a pratiche di meditazione e rilassamento».

«Vogliono che faccia sesso?».

Il signor Garner solleva la testa di scatto, ha il collo e le guance arrossate. «Iscriviti a qualche club sportivo. Fai qualcosa che ti aiuti a sfogarti e a restare calma. Ma che non implichi droghe, risse o… sesso».

«Quindi sta dicendo che non posso fare sesso?».

Si toglie gli occhiali e chiude gli occhi, sfregandoli con le dita. «Non posso e non voglio consigliarti di fare sesso. Ma ti chiederò di stare attenta e usare qualsiasi forma di protezione tu voglia».

«Non è contento di aver accettato questa posizione, signor Garner? Pensi a tutti i consigli che mi sta dando».

«Sinceramente, credo che potresti darmene tu».

Rido. «Quindi lei non fa sesso, signor Garner?»

«Lana». La sua voce è tornata severa. Quella che conosco troppo bene. Quella che è un avviso, che mi dice che sto per superare il limite. Ma entrambi sappiamo che vuol dire che l’ho già oltrepassato.

Dopo aver respirato a fondo dal naso, chiude il raccoglitore e sposta l’attenzione su di me. «Ho letto diversi file su di te. So perché sei qui. Ma non mi sembra di conoscerti davvero. Ti nascondi dietro al sarcasmo e a un candore scioccante. Ma io sono qui… per te. Per qualsiasi cosa. Spero che tu sappia che quello che mi dirai rimarrà tra noi. A meno che, ovviamente, non metta in pericolo te o qualcun altro. Lascia che ti comprenda, Lana».

Non rispondo. So che ogni sua parola è sincera. Ma non so se io sono pronta a essere così tanto onesta.

Mezz’ora dopo, con il mio programma delle lezioni in mano, lascio il signor Garner. Ho bisogno di un Prozac e di un po’ di whisky. Seguo solo tre corsi ma, considerando che è estate, sono già troppi. Ovviamente sono le materie in cui andavo peggio alla Sherling High: chimica, diritto americano e francese.

Il primo bigliettino nascosto mi aspetta mentre passo nel bosco di betulle e noto il fiocco rosso legato all’altalena. E visto che nessuno ha segnato il proprio simbolo dietro il foglietto, so di essere la prima a leggerlo.

L ci viene a prendere all’una. Se qualcuno ha bisogno di più tempo, lo scriva.

Lance lascia una mezzaluna come firma. Abbiamo pensato ai simboli perché se qualcuno dovesse scoprire la scatolina, non vogliamo che si sappia a chi appartiene, così lasciamo un segno quando mandiamo un messaggio e quando lo riceviamo. Prendo il pennarello e disegno il simbolo dell’infinito sul retro del biglietto per far capire che l’ho letto.

Dopo aver fatto la doccia ed essermi vestita per andare a lezione, prendo una Mountain Dew e un pacchetto di popcorn per colazione, visto che non ho tempo di andare nella sala principale. Poi vado a seguire il corso di chimica, che si svolge il lunedì e il mercoledì. Devo usare la piantina di Sophia per capire dove devo andare e finisco per perdermi un paio di volte durante il mio tragitto nel Parco. Una delle strade che imbocco mi porta in uno strano giardino pieno di statue di marmo. Mi fermo all’improvviso, come se fossi salita su un palco e fossi sotto i riflettori. Ma il mio pubblico è composto solo da qualche statua inquietante e sbeccata, sistemata in fila con le altre. Torno indietro e svolto all’ultimo, come se avessi paura che una delle statue potesse seguirmi. Ritorno quasi correndo sul sentiero su cui camminavo prima di sbagliare strada. Non mi abituerò mai a questo posto.

Finalmente trovo l’ingresso dell’edificio di scienze, due pilastri di marmo in stile greco alti almeno tre metri e ricoperti di edera.

L’interno è simile a quello degli altri edifici in cui sono stata, fatta eccezione per le scale, coperte da una moquette blu scuro; i muri invece sono decorati da quadri di arte astratta. Mi sembra, a primo impatto, che la Stanza del Silenzio al primo piano ricordi un’aula studio di una biblioteca, con le sue file di tavoli su cui sono sistemate delle piccole lampade. Dall’altra parte dell’atrio, dove si trova la nostra sala da pranzo, scorgo delle porte chiuse sulle quali sono affisse delle targhette, ciascuna con un nome sopra.

Quando arrivo in aula, ci sono solo tre studenti. E non manca nessuno, siamo proprio solo quattro. Ci vengono consegnati dei tablet che si attivano con la nostra impronta digitale. E per la seguente ora e mezza, cerco di non addormentarmi sul banco.

Quando possiamo andarcene, vengo colta da uno slancio di energia, come se mi sentissi finalmente libera. E cerco di trattenere uno stupido sorriso quando penso che più tardi vedrò Grant.

Mi fermo nella sala principale e prendo qualcosa da mangiare mentre mi sposto, così da poter andare a prepararmi per la festa. Mentre rovisto tra i vestiti, tento di convincere me stessa a non essere tanto entusiasta. Qualsiasi sensazione mi invada ogni volta che penso a lui deve cessare. Rivoglio indietro il controllo delle mie emozioni.

Lily ci sta aspettando sul vialetto a bordo di un SUV Lexus grigio quando usciamo. I suoi capelli biondi e lisci come la seta sono tenuti indietro da uno spesso cerchietto color corallo, che le conferisce un’aria ancora più raffinata del solito. È un’acconciatura che non sono mai riuscita a riprodurre perché i miei capelli non stanno in piega, indipendentemente da quanto prodotto usi o quante volte li piastri. Infatti oggi li ho legati in uno chignon laterale.

Quando arriviamo alla festa, ci sono persone ovunque. La casa di Stefan sembra uno chalet, con travi di legno, un enorme camino di pietra e un primo piano con le camere da letto. È uno spazio grande, aperto e facile da girare, anche perché è un’unica ampia sala; fanno eccezione la cucina e la sala da pranzo, ma anche gli ingressi a quelle due stanze sono molto spaziosi.

Sono tutti fuori dall’edificio per un buon motivo. La casa è su una collina che si affaccia sul lago. Ha un enorme giardino con una serie di scaloni in legno che la collegano a una spiaggia privata. La prima cosa che penso è che mi ricorda un parco giochi. C’è gente che gioca a Cornhole, a freccette, a football e a bocce sul prato, mentre sulla sabbia è in corso una partita di beach volley. È un ambiente pazzesco e ne ho la conferma quando noto il trampolino gonfiabile che galleggia in acqua e persone che ci saltano sopra per poi tuffarsi nel lago.

Il profumo del barbecue riempie l’aria, mentre un ragazzo sistema del cibo su due grosse griglie nere. La musica rimbomba nelle casse sul porticato. È molto diversa dalla festa di Lily. È allegra, piena di risate e grida sportive. Non c’è nulla di pretenzioso qui.

«Prendiamo da bere», propone Lily guidandoci in cucina prima che io possa soffermarmi troppo a osservare le facce dei presenti. Credevo di cavarmela abbastanza bene non pensando a lui, fino a quando non ho ammesso che in realtà non ho mai smesso. Non vuol dire che mi piaccia quello che provo, ma prima o poi me la farò passare.

«Limonata?», offre Lily sollevando una brocca. «Volete che ci aggiunga della vodka?»

«Perché no», rispondo. Lei mi porge un bicchiere dopo averlo corretto. «Grazie». Bevo un sorso e per poco non sputo tutto.

«Cosa c’è?»

«Credo che ci fosse già della vodka dentro», spiego con un brivido.

«Oh, mi dispiace», si scusa Lily mordicchiandosi un labbro. «Vuoi buttarla?»

«No, va bene, ci aggiungo del ghiaccio, così magari la annacquo». Prendo dei cubetti dal freezer e li metto nel bicchiere. Cerco di sforzarmi con un altro paio di sorsi fino a quando l’iniziale sensazione di ribrezzo non scompare. Non ci vuole molto perché senta la testa girare.

Brendan e Lance sono spariti poco dopo il nostro arrivo, quindi Lily, io e Ashton restiamo in piedi sul porticato a osservare la gente che pratica sport. E in quel momento lo vedo. Gioca a football con un gruppo di ragazzi e ragazze, quasi tutti corrono scalzi a petto nudo o col bikini. Lui è uno dei pochi che ancora indossa la maglietta, per fortuna. Osservo mentre gli passano la palla e lui corre verso la meta, placcato all’ultimo minuto da una ragazza che gli si lancia addosso a braccia aperte

Sento un dolore in mezzo al petto. «Cazzo».

«Che succede?», domanda Ashton cercando di seguire il mio sguardo, ma io mi volto e appoggio il sedere alla balconata.

«Odio il mio corpo in questo momento, tutto qui».

«Perché?», domanda Lily come se si fosse offesa per me. «Hai uno dei fisici migliori che abbia mai visto, sul serio».

«Oh, non intendevo quello. Ma grazie». Non sono mai stata troppo attenta al mio corpo. Sono bassa e forse un po’ troppo rotonda nella parte superiore per la mia altezza, ma il resto di me entra nei vestiti, quindi non mi faccio troppi problemi. Non seguo nessun allenamento se non correre tra i tavoli al ristorante. Be’, e la boxe, ma non con regolarità. Ogni tanto mi portava Javier, il fratello maggiore di Tori, ad allenarmi. Diceva che tanto avrei fatto a pugni lo stesso, quindi tanto valeva farlo bene. E se devo essere sincera, mi piaceva.

«E allora cosa c’è?», chiede Ashton.

«Niente, lascia stare», le dico, ma non mi volto. Devo controllarmi perché mi sembra di impazzire.

«Ciao!», sento dalle scale. Ci voltiamo e vediamo Stefan che viene a salutarci. «Sono contento che ci siate tutti. Servitevi pure senza problemi. Giocate con qualsiasi cosa – o con chiunque – vogliate…», aggiunge con un sorriso malizioso. «E… divertitevi». Abbraccia e bacia sulla guancia ognuna di noi. Se qualsiasi altra persona avesse fatto o detto le stesse cose, l’avrei reputato inquietante. Ma c’è una genuinità nel modo di comportarsi di Stefan che lo salva.

«Grazie», risponde dolcemente Lily. «Promettiamo di comportarci bene».

«Forse», commenta Ashton con un ghigno.

Stefan ride e si allontana per cercare altre persone da salutare e abbracciare.

«Volete andare un po’ sui galleggianti?», propone Ashton.

«Sì», replica Lily entusiasta.

«Mmm, ci vediamo lì sotto», rispondo io, che non sono ancora pronta a fare il bagno.

Le ragazze spariscono sul prato che digrada verso l’acqua. Io bevo ancora un po’ del mio drink, di cui quasi non sento la vodka. Non è un buon segno. Ma forse mi aiuterà a calmarmi e comportarmi in modo normale. Questo pensiero regge fino a quando Grant non attraversa il giardino e sale le scale per salutarmi. «Ce l’hai fatta!».

Maledetto lui e il suo sorriso pazzesco.

«Sì», esclamo, rivolgendogli un sorriso radioso.

«Dov’è il tuo accompagnatore?»

«Non ne ho idea», rispondo cercando Lance.

«Questo vuol dire che potresti finire nei guai?»

«È una proposta?». Il lato della mia bocca si tende con aria ammiccante.

Ride.

«Stavamo per iniziare una partita di Wiffle Ball, vuoi giocare?».

Lo guardo terrorizzata.

«Hai mai giocato?».

Scuoto la testa.

«Non te lo faremo pesare. Vieni». Mi offre la mano e io la prendo, sentendo il petto stringersi al suo tocco. «Conosci le regole generali? Sono quasi le stesse del baseball».

«Credo di sì».

«Allora te la caverai». Raggiungiamo l’altra parte del giardino dove un ragazzo sta sistemando a terra delle basi di gomma e un gruppo di giocatori aspetta di cominciare. Grant mi presenta a tutti per nome ma lascia che tutti mi vengano a stringere la mano singolarmente.

Per fortuna sono nella sua squadra e tocca a noi battere per primi. Osservo i battitori e gli altri, mentre Grant mi dà dei suggerimenti. Sono stata costretta a giocare a softball per quella che ora mi sembra un’eternità, quindi conosco il concetto generale di far roteare la mazza per colpire la pallina, anche se questa, in plastica, è davvero leggera. In più, i lanci sono imprevedibili ed è quindi difficile colpire la palla. Arrivo alla base un paio di volte, meritandomi così gli applausi della mia squadra. E riesco persino a raggiungere casa base perché un enorme ragazzo della nostra squadra colpisce la palla così forte da farla finire fuori campo (la palla viene dichiarata fuoricampo quando supera i cespugli di azalea). Il resto della squadra ci aspetta per darci il cinque mentre superiamo casa base e Grant intreccia le dita alle mie quando batto la mano sul suo palmo.

«Non male», esclama tirandomi a sé.

«Potrebbe essere la vodka», gli spiego. «Mi rende più brava, succede anche col biliardo. Un paio di drink e miglioro».

«Oh», commenta sorpreso e forse un po’ deluso. «Non avevo capito che bevessi».

«Tu no?», domando. La sua frase mi ha stupita. So che non è astemio, l’ho visto con una birra da Lily.

«Non ancora, ma mi prendo una birra. Vuoi qualcos’altro?».

Il mio bicchiere è rovesciato sul prato. Non restava comunque molto da bere. «Sì, grazie».

Ci incamminiamo verso la casa cercando di non passare in mezzo alla gente che gioca.

«È divertente», commento guardandomi intorno.

«Lo dici come se fossi sorpresa».

«Non sono mai stata a una festa così prima. Vengo da una piccola città. La maggior parte della gente non ha un giardino».

«Anche io vengo da un piccolo paese, ma i giardini ci sono. Così come i pettegolezzi. E lo status conta tantissimo. Ho sempre ammirato l’anonimato di una città, per quanto piccola».

«Ti senti giudicato?», domando con leggerezza.

«Sento il peso delle aspettative», risponde serio, aprendo un frigo sul porticato e tirando fuori una birra.

Proseguiamo in cucina e io lo guardo oltre il bancone mentre mi verso dalla brocca la limonata con la vodka, evitando però di aggiungerne altra. «Ti senti obbligato a essere perfetto? Hai la reputazione di essere un bravo ragazzo».

Ridacchia e lo vedo arrossire leggermente. «Lo dici come se fosse negativo. Spero davvero di essere un bravo ragazzo, ma sicuramente non sono perfetto. E tu? Immagino senta la pressione delle aspettative in quanto studentessa della Blackwood. Non è semplice entrare in quella scuola».

Vorrei ridere, ma mi trattengo dal dire: “Più facile di quanto pensi, basta essere pieno di problemi, oppure, come nel caso di Lance e me, coprire qualcuno che ha combinato un guaio”. «Sì, direi di sì. Ma si fottano le loro aspettative, io faccio quello che mi pare».

Grant mi sorride. «Non sono sicuro di capire, ma mi piace».

Io e Grant ci perdiamo di vista per un attimo, dato che lui deve scendere nel seminterrato a prendere altro ghiaccio e io devo andare in bagno. Ritrovo le ragazze che sono sedute sui galleggianti in acqua, mentre io scelgo di sedermi sul molo senza bagnarmi. Questo fino a quando Lance non compare alle mie spalle, mi solleva e si tuffa con me.

Mi tolgo il top e i pantaloncini per farli asciugare e raggiungo le mie amiche sul gonfiabile. Tiriamo l’acqua addosso a Lance e ad altri ragazzi che cercano di farci ribaltare. Alla fine torniamo in casa per prendere qualcosa da mangiare quando scende la sera. Il bacio del sole mi fa tirare la pelle e spero di non essermi ustionata, anche se ho messo più volte la crema. Per fortuna i miei pantaloncini si sono asciugati sul molo, così posso rimetterli; scelgo invece di non infilare il top e di rimanere con il mio bikini rosa acceso.

«Hai ricevuto altri biglietti d’amore?», domanda Brendan sedendosi accanto a me sulla coperta che abbiamo steso a terra, mentre gli altri stanno ancora riempiendo i piatti di cibo.

E proprio quando pensavo di poter passare una giornata senza preoccuparmi di chi possa rovinarmela, Brendan mi riporta alla realtà. «No, a meno che tu non me ne abbia nascosto uno che devo ancora trovare».

«Ti dico che non sono stato io», esclama sollevando le mani con fare innocente. «Non ti preoccupa un po’ tutto questo?»

«Forse se sapessi a cosa si riferisce…». E intanto mi viene in mente una cosa. «Torno subito». Mi alzo, lasciando il piatto sulla coperta e andando in casa in cerca della mia borsa, che avevo sistemato sotto il porticato che si affaccia sul vialetto.

Visto che mi sembra un posto isolato, rimango ferma lì quando tiro fuori il telefono dalla borsa e lo accendo. Quello di Joey è l’unico contatto in rubrica. Penso di scrivergli, ma so che abbiamo bisogno di parlare.

Risponde al secondo squillo come se aspettasse la mia chiamata. «Ciao, Lana».

«Ciao», rispondo piano.

«Sono contento che tu abbia telefonato». Il tono basso della sua voce mi scatena un brivido lungo la schiena. Me lo scrollo di dosso. «Ero in pensiero».

Chiudo gli occhi, trattenendomi dal riattaccare perché solo sentire la sua voce mi emoziona. Che fastidio. «Dov’è Vic?»

«In Europa per l’estate. È partito il weekend scorso».

«Tornerà alla Printz-Lee?»

«Non lo so, sei preoccupata?»

«Solo per Allie», gli dico.

«Lo so», replica con calma. «Anche io. È ancora in coma».

«Come lo sai?»

«Perché controllo ogni giorno. Lana, dopo che mi hai detto la verità riguardo a quello che è accaduto quella notte, ho controllato tutti gli ospedali per trovarla. Non sapevo cosa fare. Non sopporto l’idea di essere impotente e non poterle dare una mano».

«Anche io. Ma non abbiamo altra scelta finché non si sveglia».

«Lascia che dica a mio padre del supermercato».

«No», affermo decisa. «E poi, ora non conta più. Non prova che Vic abbia aggredito Allie».

«Ma se viene arrestato per rapina a mano armata, almeno non sarà libero».

«Credi che succederà davvero?»

«Non lo so». Noto il suo tono sconfitto.

Sospiro. «Non parliamone, okay? Preferisco concentrarmi su Allie. È lei che ha bisogno di noi».

«Cosa facciamo?».

Mi gratto la fronte. «Non so, ma deve esserci un modo per provare che è stato lui, anche se lei non si sveglia». Il pensiero che possa non riprendersi mi fa venire la nausea.

Dall’altra parte del telefono, solo silenzio.

«Non farà del male a nessun altro. Glielo impedirò a qualunque costo».

«Non sai di cosa è capace», gli dico, ricordando lo sguardo di Vic prima che spingesse Allie dalle scale. Era spietato. Mi ha sorriso quando ho gridato, come se si divertisse. «Non posso parlarne ora». Riattacco prima che risponda e spengo il cellulare.

Vado avanti e indietro per un po’ sul vialetto, cercando di fermare le mani che tremano. Entro in casa e mi verso di nuovo da bere, sperando mi aiuti. Non avrei dovuto chiamare Joey. Ma dovevo sapere che Vic non era qui.

Le ombre si allungano sul prato mentre il sole comincia a scendere sul lago. Risalgo i gradini per tornare alla festa.

«Eccoti qui!», esclama Ashton, lanciandomi un braccio intorno alle spalle quando salgo sul porticato. È ubriaca.

«Come ha fatto a bere così tanto?», domando a Brendan che è di fianco a lei.

«Qualcuno continua a dimenticarsi che la limonata aveva già la vodka dentro». Brendan cinge le spalle di Ashton che si appoggia a lui. «Torniamo al campus».

«Oh», esclamo. Ora mi spiego la sbronza inaspettata. «C’è qualcuno che vi dà un passaggio?»

«Sì, un altro ragazzo della Blackwood». Prima di accompagnare dentro Ashton, mi dice: «Non perderti, Lana». E poi si abbassa per mordicchiare il collo della mia amica, facendola ridere. «O, se vuoi, puoi venire con noi».

Proprio quando pensavo che fosse un essere umano… gli rivolgo un’espressione disgustata.

Li lascio e mi sposto sul prato. Un ragazzo sta mettendo della legna nel falò che si sta accendendo e intorno noto altre persone con delle chitarre. Altri si avvicinano. Trovo una sedia, la avvicino e mi fermo ad ascoltare.

Dopo poco sono avvolta dalle voci armoniose che cantano musica rock-folk, incantata dalle fiamme che danzano. Ho la mente affollata da pensieri che non mi piacciono.

«Vuoi fare una nuotata?».

Mi volto e vedo Grant accovacciato di fianco a me. Mi rendo anche conto che è buio, non so come sia venuto così tardi.

«Certo», rispondo con un sorriso.

Mi prende la mano e mi fa alzare, senza mai lasciare la presa mentre ci incamminiamo sulla spiaggia. L’aria è ancora calda, ma senza il sole l’acqua sembra più fredda di oggi pomeriggio. Quando entriamo, mi vengono i brividi.

La falcata di Grant è ben più ampia della mia e in pochi passi è bagnato fino alla vita e si tuffa. Riemerge e mi fermo a osservare il suo corpo scintillante. In realtà tutto si ferma dentro di me. Il respiro. Il cuore. I pensieri. Rimango immobile a fissarlo.

«Entri?», mi chiama, nuotando all’indietro con larghe bracciate pulite. Sembra nato per stare in acqua, come se si muovesse senza sforzo.

«Non sono bravissima a nuotare», confesso, continuando a camminare fino a che l’acqua non arriva al petto. Siamo gli unici in acqua; le voci e le chitarre della festa sfumano mentre ci allontaniamo.

«Riesci a fare il morto? Così guardiamo le stelle».

«Non ho mai provato».

«Vieni». Mi porge la mano. Sollevo i piedi dal fondale quando la stringo, lasciando che mi porti più al largo. «Sdraiati. Ti tengo io».

Lo faccio, il viso è rivolto verso il cielo. Mi escono i piedi dall’acqua ma il sedere continua ad andare a fondo. Grant mi tiene una mano sulla schiena e l’altra sulla coscia. «Rilassati. Solleva un po’ i fianchi». eseguo. «Respira a fondo». Lentamente scosta le mani e io rimango a galla. «Ce l’hai fatta».

Lo sento a malapena con le orecchie piene d’acqua. Chiudo gli occhi e dimentico tutto. I miei pensieri. Le mie paure. Il mio senso di colpa e la vergogna. E mi lascio andare. Sorrido quando sento le sue dita sulla mano intrecciarsi alle mie. Apro gli occhi ma non mi volto, spaventata all’idea di perdere l’equilibrio e annegare. Il cielo è pieno di stelle, non ne ho mai viste così tante in vita mia. Rimango a bocca aperta.

Sento l’acqua muoversi vicino a me. L’altra mano di Grant mi sfiora la pancia all’altezza della vita. Sollevo la testa, lui è in piedi e mi guarda. Appoggio le mani alle sue spalle per restare a galla, visto che siamo al largo. Lui mi afferra i fianchi per tenermi vicina a sé. Ma siamo comunque distanti, come due ragazzini imbarazzati al ballo delle medie.

Mi guarda negli occhi e io cerco di avvicinarmi, voglio coprire la distanza che ci separa. Lui però tende le braccia, resiste. «Vorrei baciarti, ma non posso».

So che legge sul mio viso il dispiacere. Non sono mai stata molto brava a nascondere le emozioni. Sposto le mani e cerco di allontanarmi, ma lui non mi lascia.

«Ho… promesso a me stesso che non avrei più fatto nulla con una ragazza se uno dei due avesse bevuto. Anche solo un drink. Mi sono detto che non l’avrei nemmeno baciata».

«Oh», sospiro. «Per questo prima, quando ho menzionato la vodka, sembravi deluso».

«Sì», sorride. «Non volevo fare allusioni su quello che poteva capitare tra noi, quindi non potevo di certo chiederti di non bere. Cioè, io sapevo cosa volevo, ma non sapevo se tu provassi lo stesso. Non abbiamo parlato molto prima di oggi».

«Vero. Ma sì, sono quasi certa di volere quello che vuoi tu. Maledetta limonata».

Ride, l’acqua si muove intorno al suo petto.

«Quindi non conta se io mi sento sobria?».

Scuote la testa. «Non dovrebbero esserci dubbi sul consenso, non voglio che sia un rimpianto».

«Wow. La tua maledizione allora è proprio l’Integrità».

Grant ridacchia. «Maledizione? Non l’ho mai intesa come una cosa negativa».

«Tutti abbiamo una maledizione», gli dico, cingendogli gli avambracci con le mani.

«E la tua qual è?». Sento che i suoi muscoli si rilassano, lascia che mi avvicini leggermente.

«La Sincerità».

«Lo vedo». Il suo sorriso brilla nella penombra. «Non è una cosa negativa nemmeno questa».

«Ma se è una maledizione un motivo ci sarà», ribatto debolmente. Non ho voglia di spiegare.

«Be’, almeno saprò che dirai sempre la verità».

«Anche quando non la vorrai sentire», aggiungo come ad avvisarlo. Ma non faccio altro che farlo ridere.

«Vorrò sempre conoscere la verità».

Questo momento in cui sono sola con Grant, a mollo nell’acqua a rivelare i nostri segreti sotto le stelle, è forse il migliore della giornata. Sarebbe il migliore dell’anno se… mi baciasse. Ed è proprio in quel momento che il mio cervello decide di accendersi. È buio. Lo è da un po’. «Oddio, che ora è?». Il panico mi avvolge.

«Cosa?»

«Farò tardi». Se non lo è già. Mi scosto e nuoto verso la riva. «Non sai dove sia Lance, vero?»

«No», esclama Grant seguendomi. «Perché? A che ora devi tornare?»

«Ventidue e trenta».

«Oh, merda», mormora mentre io prendo i vestiti e corro su per i gradini. Non mi ricordo dove ho lasciato i miei sandali gioiello, ma a questo punto andrò scalza.

Corro nel giardino con Grant alle spalle. «Hai bisogno di un passaggio?»

«Mmm, dovrebbe portarci Lily».

«Se n’è andata».

«Cosa?». Ora sono proprio disperata. Mi fermo di fronte a una ragazza che avevo visto parlare con Lance nel pomeriggio. «Sai dov’è Lance?»

«È andato dentro con Stefan».

Proseguo in casa.

«Ti do io un passaggio», esclama Grant dal porticato mentre io inizio a chiamare Lance.

Salgo le scale che conducono al piano di sopra e apro le porte che trovo. «Lance!». Alla terza porta, lo trovo… con Stefan… sul letto. Chiudo in fretta. Non me l’aspettavo. «Merda». Spero non se ne siano accorti. Sembravano troppo occupati per rendersi conto che c’ero. Per fortuna, erano ancora quasi del tutto vestiti.

Corro giù dalle scale ed esco dalla casa, cercando la mia borsa sotto il porticato.

«Lana?», sento Grant che mi chiama.

«Sì?», rispondo. E intanto la trovo.

«Sei sotto il portico?»

«Sto prendendo la borsa». C’è qualcosa che si illumina di rosso all’interno. «Cazzo». Tiro fuori il cellulare e trattengo il fiato mentre rispondo. Il volto del signor Garner riempie lo schermo.

«Dove sei?»

«Sto tornando. Mi dispiace. Sono con Lance e…».

«Lance può stare fuori la notte, tu no». Ora capisco. Avrei voluto saperlo… oh, un paio di ore fa almeno, quando Brendan e Ashton se ne sono andati.

«Scusi, non lo sapevo, ho perso di vista l’ora».

«Ti posso coprire per la prossima mezz’ora. Quando richiamo, sarà il controllo ufficiale del coprifuoco. Fa’ in modo di essere in camera».

«Grazie, signor Garner». Rimetto il telefono in borsa. Sopra la mia testa, Grant è in piedi di fianco a una ragazza con un bel prendisole blu.

«Lei è Talia. Stava per andarsene e può riaccompagnarti alla Blackwood. Verrei anche io, ma lei sta andando a casa».

«Va bene». Mi dispiace davvero di scappare da lui ora. Guardo la ragazza. «Pronta?». Ha già le chiavi in mano perché ha notato la mia espressione agitata.

«Andiamo», esclama, percorrendo il vialetto verso una Honda Accord parcheggiata a poche auto da noi. «Fidati, so tutto riguardo al mancare il coprifuoco».

«Ciao, Lana!», sento Grant urlare, ma non mi volto.

Mi infilo al posto del passeggero e mi abbandono sul sedile mentre Talia fa manovra e si butta sulla strada a tutta velocità, come se cercasse di riportarmi a casa prima dell’ultimo rintocco della mezzanotte. Che non è poi tanto lontano dalla realtà.

Odio avere un coprifuoco. E odio scappare. Odio davvero scappare.