Capitolo diciannove

Col passare degli anni, Thaylina divenne più forte. E più veloce. Non assomigliava più alla gentile e bellissima ragazza che era un tempo. Era diventata una cacciatrice, decisa a difendere chiunque cadesse vittima del fascino di qualcuno o delle promesse di una canzone.

Quando ritorno al dormitorio, la porta è aperta. Cammino rasente al muro, chiedendomi se finalmente troverò lo psicopatico in azione.

Perdo tutto il mio entusiasmo quando trovo il signor Garner che constata i danni con le mani sui fianchi.

Si volta verso di me. Non capisco se è arrabbiato, preoccupato o entrambi. «Ma cosa succede, Lana?». Quando non rispondo subito, continua: «Ho ricevuto un messaggio dalla signora Seyer che diceva di essere preoccupata per te e Ashton, che ieri notte avete fatto festa in camera tua. E poi trovo questo macello». Con i palmi aperti indica il cataclisma che era la mia stanza; i suoi occhi sono spalancati per lo stupore. «O voi due avete una strana concezione di festa, o qualcuno ti perseguita».

Piego la testa di lato, incerta su cosa dire, perché Ashton e io eravamo davvero fuori di testa ieri.

«E cosa ci fai tu qui?», domanda il signor Garner con lo sguardo alle mie spalle.

Brendan è sulla porta. «Do una mano a pulire». Solleva un mucchio di sacchi dell’immondizia.

«Trovato!», esclama Ashton, ancora in corridoio. «Questo è il letto perfetto per la tua…». Il suo entusiasmo scompare quando vede il signor Garner. «Ho il permesso!», dichiara, tirando su il tablet sul cui schermo compare un sito di mobilio.

Il signor Garner sospira. «Perché lo sanno tutti tranne me? Lana, dovresti venire da me quando succedono cose del genere».

«Sapevo che si sarebbe preoccupato», gli dico. «E infatti è così, quindi avevo ragione».

Sospira ancora. «Andiamo». Mi accompagna fuori dalla stanza. «Sono venuto anche per portarti al tuo primo controllo tossicologico».

Brendan scoppia a ridere. Ride a crepapelle. Gli voglio tirare un pugno in faccia. Per lo meno Ashton, che sta dalla mia parte, è abbastanza gentile da fare una faccia terrorizzata. Anche se credo che nemmeno questo mi aiuti molto…

Spero davvero di ottenere un lasciapassare e che usino questo test come riferimento, come il signor Garner aveva detto che forse avrebbero fatto. Sinceramente non ho idea di cosa possano trovare nelle analisi, soprattutto dopo ieri sera. Il signor Garner mi accompagna in silenzio nell’infermeria che c’è all’interno dell’edificio della segreteria; anche se non dice una parola, so che vorrebbe parlare o farmi delle domande.

Alla Blackwood non si scherza quando ci sono in ballo i test tossicologici. Mi è evidente quando vedo la provetta accanto al laccio emostatico. È praticamente impossibile nascondere l’utilizzo di droga in un esame del sangue.

«Ci vediamo nel mio ufficio quando hai finito», esclama il signor Garner, poi scompare oltre la porta, lasciandomi con un’infermiera impassibile.

Non dice nulla se non qualche direttiva. Non mi avvisa nemmeno quando sta per inserire l’ago. E per essere ancora più accurata, mi somministra anche un test della saliva. Ho sempre solo fatto esami delle urine nel carcere minorile e quelli si scambiano facilmente. Quindi questa è una roba seria. Suppongo che dovrò restare pulita per i prossimi cinque mesi.

Automaticamente penso a Grant e la sobrietà non mi sembra una brutta cosa. Per nulla.

Credo che l’infermiera pensi che sono fatta. Sono seduta immobile, con lo sguardo sognante e un sorriso stupido stampato sul viso quando ha finito.

«Puoi andare», mi dice, strizzando gli occhi mentre mi osserva con fare inquisitorio.

L’ufficio del signor Garner non è più lo spazio cavernoso in cui ero entrata settimane prima. Sembra quasi la stanza del dormitorio di un ragazzo con bei mobili, un canestro da basket appeso dietro la porta e delle foto del signor Garner con altre persone: ci sono scatti in cima a una montagna, a bordo di un kayak in quella che sembra una giungla e altri in posti esotici. Però c’è la scrivania al posto del letto.

«Be’, buongiorno, signor Garner», esclamo ammirando la stanza. «Chi l’avrebbe mai detto che lei è un vero essere umano?».

«Chiudi la porta, Lana», mi dice, sedendosi dietro la scrivania. Obbedisco. «Dimmi cosa succede. Hai avuto un bel po’ di inconvenienti nel poco tempo che hai trascorso qui».

«Di cosa parla, esattamente?». Mi innervosisce l’idea di quello che potrebbe pensare o di quello che le telecamere potrebbero aver registrato.

Inizia a contare sulle dita. «La seconda notte hai quasi infranto il coprifuoco. Una settimana più tardi sei rimasta chiusa fuori dal dormitorio perché il tuo telefono era scarico. E ora la tua stanza è stata distrutta da qualcuno che chiaramente hai fatto arrabbiare. Cos’altro dimentico? Oh! Giusto, le droghe che credi troveremo nel tuo sistema dopo essere stata qui un weekend. Non mi farò dire dove le hai prese, ma dai, Lana! Qualche rissa da confessare, già che ci siamo?».

Abbasso lo sguardo.

«Sul serio?», esclama esasperato. «Chiaramente sto facendo malissimo il mio lavoro».

«Questo non ha niente a che fare con lei», protesto. «Non c’è nulla che non vada a riguardo. Il fatto che mi trascini giù dal letto all’alba per farmi fare boxe o cercare la mia pace interiore mi sta aiutando moltissimo, giuro. Non voglio che lei perda il lavoro per colpa mia».

Il signor Garner chiude gli occhi scuotendo la testa. «Non è questo che mi preoccupa. Essere qui doveva essere la tua opportunità di provare una situazione migliore, non di portarti dietro tutto il tuo caos».

«Forse il mio caos sono io», propongo con un’alzata di spalle. «Mi segue ovunque vada».

Si passa una mano sulla fronte. «Sei estenuante».

Trattengo un sorriso. «Potrei dire lo stesso. Non mi sveglio all’alba per nessun altro, signor Garner».

«Sai chi ti ha preso di mira?», domanda con un sospiro, ignorando la mia risposta sarcastica.

Scuoto la testa.

«Devi dirlo ad alta voce».

«No», esclamo… in caso il suo ufficio fosse pieno di microfoni. Forse per questo ha insistito per farmelo dire ad alta voce.

«Parlerò di nuovo con gli addetti alla sicurezza riguardo i giri all’interno del campus. Forse metteranno qualcuno agli ingressi dei dormitori che si affacciano sul Parco».

«Buona fortuna», gli dico, alzandomi perché penso che sia finita qui.

«Chiamami se succede qualcosa di strano o se ti trovi in una situazione che non gioverebbe al tuo curriculum. Telefona a qualsiasi ora e indipendentemente da dove ti trovi. Verrò a prenderti. E se potrò, lo terrò tra noi». Si alza per accompagnarmi fuori. «Sono davvero qui per aiutarti, Lana. Sei tu il mio lavoro».

«Triste, vero?», commento con un ghigno.

«Esci», replica con un sorriso. «E non fare niente di stupido».

Mi arriva un messaggio dall’insegnante di chimica mentre sto tornando al dormitorio.

Tutoraggio di chimica spostato alle diciannove di giovedì.

Questa giornata continua a peggiorare. Ma suppongo che cambiare gli orari abbia senso. Non abbiamo avuto lezione dopo i test e non c’era altro materiale su cui concentrarsi. Non vedevo però l’ora di vedere Grant, magari di baciarlo… se me l’avesse permesso. Ma sono proprio la sua integrità e la sua dedizione a far sì che… esiti. Come volevo finire quella frase?

Lo rispetti. Ecco. Ecco cosa volevo dire. Vorrei prendermi a pugni. Ma dov’è Ashton quando serve?

Vieni nella mia stanza.

C’è un Post-it appeso alla mia porta. Suppongo sia di Ashton e non di Brendan. Quando entro nella sua stanza, mi stupisce trovarci anche Lance e Brendan.

«Vi ha lasciato salire la signora Seyer?», domando.

«Siamo parte del team devastazione», spiega Lance con un sorriso astuto. Ha i piedi appoggiati a un pouf rosa di pelle ed è sdraiato sul divano che gioca a qualche videogioco.

«Il cosa? Va be’, non fa niente».

«Andiamo», annuncia Ashton. «Sistemiamo il casino e spostiamo le tue cose qui da me prima che arrivi Serge, domani».

«Chi?»

«Il mio designer. Lui e la sua squadra vengono per trasformare la tua stanza domani».

A volte mi dimentico che Ashton è super ricca. È anche vero che emana una certa aura di prestigio. Ora che ci penso, forse è più un’aura glamour, come se il vento le muovesse i capelli ed esplodessero tutte le lampadine ogni volta che mette piede in una stanza. E sotto tutto questo, è abbastanza normale. Non è né stronza né altezzosa. Non è pretenziosa, non ha un atteggiamento di superiorità. Così, quando parla del suo designer e del suo team è come se mi tirassero in faccia una secchiata di acqua ghiacciata, un promemoria non troppo delicato del fatto che proveniamo da background diversi, anche se al momento ci troviamo nello stesso posto.

Passiamo il pomeriggio a ripulire la mia stanza. Vorrei essere triste, ma non sentivo mie queste quattro mura. Mi infastidisce che il pazzo abbia staccato la testa alla zebra di peluche che mi aveva dato Joey e strappato le foto delle mie amiche e della mia famiglia. Sembra così poco sensato… cosa posso aver fatto per farmi odiare tanto? Perché è questo che sembra, odio.

Non sono qui da abbastanza tempo per tirarmi addosso questo livello di disprezzo. Quindi devo essermelo portato da casa. Tutti quelli che conosco alla Blackwood, a parte Ashton e Sophia, sono in qualche modo legati alla mia vita; qualcuno da ancora prima che nascessi. E questo include Brendan e il signor Garner. Non posso credere di dover sospettare anche del signor Garner. È incredibile che debba usare il verbo sospettare.

E se non è qualcuno della scuola, come dice Brendan, allora sono proprio in alto mare. Non avevo mai conosciuto gli altri prima di arrivare qui. E a meno che non abbia fatto qualcosa senza sapere di inimicarmi qualcuno… Be’, questo è possibile. Il mio candore non viene sempre apprezzato. Ma quando analizzo i messaggi che ho ricevuto e quella foto… torno a essere confusa.

«Odio i giochetti mentali», mormoro frustrata. «Dimmi quello che vuoi e facciamola finita!».

Si fermano tutti.

«Ma se il melodramma è la parte migliore», commenta Brendan.

Gli lancio addosso un cuscino quasi del tutto sventrato.

«Ne vuoi uno?», domanda Ashton con gli orsetti gommosi in mano. «Almeno ci divertiamo».

Lance ne prende uno, Brendan scuote la testa.

«Non posso», le dico dispiaciuta. «Sono il nuovo testimonial della sobrietà».

«Deve proprio baciare benissimo allora», scherza Ashton come se mi invidiasse.

«Parlate di Grant?», chiede Lance. «Cosa succede tra voi? È una cosa seria? Mi lascerai ogni volta che usciamo dal campus, da adesso? Perché là fuori sono responsabile per te. E le serate come quella del luna park non possono ripetersi».

«Perché voi due non fate i test tossicologici?», domando, sviando da quello che stava per trasformarsi in un interrogatorio iperprotettivo. Lance sta davvero prendendo il suo ruolo di accompagnatore troppo sul serio. «Entrambi siete qui proprio per gli stupefacenti».

«I miei non lo permettono», spiega Ashton. «Non vogliono che finisca sui giornali in caso la mia storia dovesse diventare nota».

«Nemmeno mio padre lo permette», le fa eco Lance. «Non vuole che venga potenzialmente usato contro di me».

«Ma io invece devo farlo?». Non è che mi servano per forza le droghe, ma non sopporto che venga controllata ogni mia mossa… sia da Lance sia dalla scuola. Non mi serve che nessuno mi dica cosa è meglio per me, che mi chieda dove vado e con chi.

«Il tuo l’ha ordinato il tribunale», esclama Brendan.

«E perché tu lo sai?», gli chiede Lance. «Inizio davvero a chiedermi se dovremmo fidarci di te».

«Smettetela», intervengo subito.

Brendan scuote la testa. «È una conclusione ovvia. È l’unica con dei precedenti di noi e sono certo ci fossero delle condizioni legate alla sua sentenza».

«Direi che abbiamo finito», annuncia Ashton guardando la stanza e cercando di smussare la tensione crescente.

«Grazie dell’aiuto», dico a tutti. Loro non replicano nulla, annuiscono solo imbarazzati. Ashton sceglie di abbracciarmi e schioccarmi un bacio sulla guancia.

Ashton e io trasportiamo le uniche due sacche di vestiti sopravvissuti all’attacco, mentre i ragazzi se ne vanno con i rifiuti.

Quella sera, mentre sono sdraiata sul divano di Ashton, lei mi chiede: «Dimmi di nuovo tutte le maledizioni di ognuno. Qual è quella di Brendan?»

«Intuito. Lui vede tutto».

«A parte quello che provo per lui».

«Anche quello fa parte della maledizione. Non vede le cose più importanti per lui, per questo alla fine il suo intuito lo rovinerà».

«Già», sbadiglia. «E Lance?»

«Lance è maledetto dalla Nobiltà. È un bravo ragazzo ma potrebbe non farsi sempre avanti per difendere le persone giuste».

«Lance mi piace», mormora. «Dimmi qualcos’altro».

Elenco tutti e le loro maledizioni fino a che non siamo troppo stanche per parlare.

Il signor Garner mi sveglia al mattino presto per la lezione di yoga e meditazione, seguita da una sessione di disintossicazione (parole sue) in sauna. Ashton decide di unirsi a noi e io odio entrambi perché riescono a stare in equilibrio su un piede solo, con gli occhi chiusi, nella posizione dell’albero. Io sembro più un ramoscello d’edera che ondeggia nel vento, che un albero. Ancora una volta, non ho trovato la mia pace interiore. Ma il calore della sauna mi ha aiutata a espellere un po’ di tossine dal corpo. Non mi sentivo così bene da anni.

Grant non sta lavorando quando arriviamo al golf club. Probabilmente dovrei chiedere a Sophia una copia dei suoi turni. O magari chiederla direttamente a lui, ma forse sarebbe strano.

No, lo chiederò a Sophia. Anche quello è strano, ma non così tanto.

Finisco il turno al The Deck e incontro Grant che timbra il cartellino mentre io torno negli spogliatoi.

«Ehi», mi saluta. Io sorrido come se avessi appena inalato dell’elio. «Cosa ti è successo ieri?».

Aggrotto la fronte. «Cosa?»

«La lezione. Non sei venuta».

Una scarica di panico mi attraversa il corpo. Ho letto male il messaggio? «Ho ricevuto un SMS dal mio insegnante che diceva di aver spostato l’incontro a domani».

«Ah, sì?».

Annuisco. «Perché non mi hai chiamata?»

«Non ho il tuo numero. Almeno finché non mi chiami tu, così lo salvo».

«Mi dispiace». Ora devo trovare un motivo per chiamarlo. Non ricordo l’ultima volta in cui ho chiamato un ragazzo per chiacchierare. Forse perché non è mai successo.

«Strano che a me non sia arrivata nessuna notifica», esclama preoccupato.

«Ma ci vediamo domani, no?», domando, sperando che non abbia già un altro impegno.

«Mmm, sì, domani». Sembra ancora infastidito dal cambio di programma.

«Tutto bene?»

«Ero preoccupato… temevo stessi prendendo di nuovo le distanze da me. Lunedì ci siamo… detti molte cose».

«Me lo ricordo», dico, rivolgendogli un sorriso dolce.

«Tutto?»

«Sì», replico. «Anche se ero nel Paese delle Meraviglie. Mi sembra di guardare i ricordi da trecento metri, come se volassi sopra di loro. Ma mi ricordo tutto».

Sembra pensieroso ora, quasi sofferente, come se faticasse a trovare le parole per farmi una domanda di cui lo spaventa la risposta. Quindi mi sollevo sulle punte dei piedi e lo bacio, sperando di rispondere ai suoi dubbi. La sua bocca si distende in un sorriso prima ancora che mi scosti.

Qualcuno si schiarisce la voce.

Ci voltiamo e troviamo Cary alle mie spalle. «Per quanto sia un fan dell’amore tra ragazzi, dovrò purtroppo chiedervi di evitare le effusioni sul lavoro».

Mi mordicchio il labbro e sento le guance infiammarsi.

«Non siamo…», sbotta Grant, spostando gli occhi nervosi su di me. «Non è…».

«Rilassati, Grant. Non ti sto rimproverando come fossi tuo padre, non sei nei guai». Prima di andarsene, Cary aggiunge: «Sono contento per voi».

Grant chiude gli occhi e fa una smorfia. «Mi dispiace, non sapevo cosa dire per evitare che pensasse…».

«Non ti preoccupare, non possiamo mica controllare i pensieri degli altri. Finché io e te sappiamo cosa siamo uno per l’altra, va tutto bene».

Grant si rilassa leggermente, ma un velo di preoccupazione gli offusca lo sguardo. Non so se è perché siamo stati beccati da Cary o per quello che ho detto. «Okay. Ci vediamo domani allora?».

Annuisco e lo guardo allontanarsi. Suppongo sia un po’ complicato stare insieme ma non essere fidanzati. Ma è proprio questo il punto: la nostra relazione non è etichettabile. Più ci pensiamo, o rimuginiamo su quello che ne pensa la gente, più sarà complicato. E non lo è… o non dovrebbe esserlo. Ora… sono di nuovo confusa.

Non mi è permesso vedere la mia stanza fino a quando Serge non ha completato la trasformazione. Lui e Ashton hanno trascorso quasi tutto il martedì insieme. Mi hanno chiesto di unirmi a loro, ma dopo dieci minuti del suo gesticolare esagerato e del suo parlare tanto in fretta da sembrare che parlasse una lingua sconosciuta, ho detto loro di dover andare in biblioteca per lavorare a una relazione per il corso di diritto americano.

Prima di arrivare in biblioteca ricevo un messaggio.

Hai una visita nell’edificio della segreteria.

Quando ci arrivo, trovo Parker ad aspettarmi. Mi sorride non appena i suoi occhi azzurri si posano su di me. Sospiro, mi disturba che mi affascini ancora.

«Ciao», lo saluto, sorpresa di trovarlo a Kingston. «Pensavo fossi a Nantucket con la tua famiglia».

Aggrotta la fronte. «Come fai a sapere che loro sono lì?».

Merda.

«Tuo fratello», replico cercando di far finta di nulla. Non so quale accordo abbia con Joey e non voglio essere il motivo per cui continuano la loro stupida diatriba. Quindi credo sia meglio che Parker non sappia che sono stata in contatto con Joey.

Annuisce. «Giusto. Quest’anno Lance non è potuto venire a causa delle lezioni». Poi continua: «Sono tornato prima. Ho scoperto una cosa e volevo renderti partecipe».

«Non dovevi venir via prima per me», esclamo, non sapendo nemmeno cosa abbia scoperto, ma stupita che sia venuto fin qui per vedermi.

«Invece sì», dice, quasi emozionato. «L’abbiamo trovata». Si guarda intorno, accorgendosi che siamo ancora nell’atrio. «C’è un posto dove possiamo parlare in privato?».

Lo porto nella stanza dove ho incontrato Niall quando sono arrivata.

«Trovato chi?», domando appena chiudo la porta.

«Mara, la ragazza delle scale».

Fatico per un attimo a formare delle parole. «C-c-come?», balbetto.

«Uno dei miei soci è uno che se ne intende di informatica. È bravissimo. Ha creato lui la nostra prima app e si occupa di esaminare tutti i contatti. È riuscito a trovarla. Ha triangolato la posizione e ha fatto qualche controllo incrociato… insomma, non ricordo. Ma ovviamente sa il fatto suo, perché l’ha rintracciata».

«Sa perché la stavamo cercando?». All’improvviso mi preoccupa che altra gente sappia della mia presenza sulle scale.

«Sono stato vago. Ovviamente sapeva della ragazza che è caduta».

«Allie», gli ricordo, insistendo che la chiami per nome.

«Allie», ripete. «Scusa».

«Quindi come faccio a parlarle?», chiedo impaziente.

«Tu?», sbuffa Parker. «Non ci parli».

«Ma devo spiegarle quello che è successo. Non voglio che pensi che ho fatto del male alla sua amica».

«Non dirà nulla».

«Come lo sai?». Non mi piace la piega che sta prendendo questa discussione. È evasivo.

«Perché le ho parlato. Capisce cosa c’è in ballo».

«E cosa sarebbe?»

«Non ti preoccupare».

Il mio cuore salta un battito alla sua risposta. «Sarà meglio che tu non l’abbia minacciata, Parker!».

Ride della mia reazione. «Ti ho detto che ti avrei aiutata. L’ho fatto. Chiuso». Abbassa gli occhi sull’orologio. «Devo tornare a New York, meglio che vada».

«Sei venuto fin qui solo per dirmi questo?», domando sospettosa, perché si sta comportando in modo davvero strano.

«No, non proprio».

Aspetto che spieghi, ma non aggiunge nulla. Vorrei urlargli in faccia di dirmi cosa diavolo succede.

«Mi accompagni fuori?». Accenna alla porta.

«Ti rendi conto di quanto sia strana questa situazione, vero?»

«No», risponde sincero. «Mi importa quello che ti succede. Amici o no, terrò sempre a te».

Cerco di non fare una smorfia e accusarlo di dire stronzate, perché il mio istinto mi suggerisce che c’è qualcosa che non va. Mi considero un’esperta nel cogliere le persone in fallo e di certo lui sta nascondendo qualcosa.

Lo accompagno sui gradini fuori dall’edificio.

«Vieni qui», mi dice aprendo le braccia. Lascio che mi abbracci, appoggio la testa al suo petto.

«C’è qualcosa che non mi torna, Parker. Non mi stai dicendo tutto».

Mi bacia la testa e mi rassicura di nuovo: «Non hai nulla di cui preoccuparti».

Quando mi scosto dalle sue braccia, vedo con la coda dell’occhio Grant e Lily che camminano sul sentiero che porta alla biblioteca. Devo spiegare a Grant la scena che potrebbe aver appena visto tra me e Parker. Ma… ce n’è davvero bisogno? Non stiamo ufficialmente insieme. I parametri del “non fidanzamento” sono… confusi.

«Quindi la tua regola con lui non vale?». Parker indica Grant con un cenno del capo proprio mentre quest’ultimo esce dal campo visivo.

«Cosa vuoi dire? E come fai a sapere di Grant?»

«Vai a scuola con mio fratello e sei amica di mia cugina. E loro due uscivano insieme».

«Lance e Lily?», domando inorridita. «Ma sono matti? Sono parenti!».

«Lily e Grant!», mi corregge Parker. «Si sono frequentati per un annetto. Era una cosa seria. Non una cosa così come tra me e Nina. E tu non vuoi uscire con me, ma con lui sì? Perché mi hai riempito di stronzate riguardo il non frequentare un ragazzo con cui è stata una tua amica? Bastava che dicessi che non eri interessata».

Non ho intenzione di discutere con lui di semantica perché gliel’ho detto che non ero interessata. Forse ho incluso l’informazione nella regola dell’amicizia. Ma… che cazzo ha appena detto? «Sono usciti insieme? Per un anno?»

«Sì», risponde in tono empatico. «Si sono lasciati lo scorso inverno. Ma io ho sempre avuto l’impressione che non fosse una rottura definitiva. Come se avessero intenzione di tornare insieme».

«Chi l’ha detto?»

«Lily. È lei che ha chiesto una pausa», mi informa.

«Non Grant?», insisto.

Scuote la testa.

«Oh», mormoro. Sono scioccata. Una scossa di panico percorre il mio corpo. «Devo andare».

Non sento nient’altro di quello che Parker dice mentre mi allontano, seguendo lo stesso sentiero su cui camminavano Lily e Grant diretti in biblioteca. Mi suona il telefono e, con fare assente, lo tiro fuori dalla borsa.

Sessione di tutoraggio spostata nell’aula studio D.

Cerco di calmarmi. Anche perché… per quale motivo devo essere agitata? Non è mio, non dovrebbe importarmene. Ma il mio cuore non mi ascolta. A lui importa e vuole risposte. Ora.

Quando entro in biblioteca, cerco con gli occhi Grant o Lily. Li trovo insieme in una zona in fondo alla sala. Mi avvicino a loro, che sembrano parlare di qualcosa di serio. Quindi faccio quello che farebbe Brendan (ha una pessima influenza su di me) e mi sposto nel tavolo accanto al loro per origliare. Lo so, andrò all’inferno. Ma almeno Brendan… sì, non è che questo mi aiuti.

«Non sapevo fosse una cosa seria», dice piano Lily.

«È… complicato», spiega Grant abbassando gli occhi come a scusarsi. «Ma io vorrei che lo fosse».

«Oh», commenta lei. «Pensavo che vi steste solo divertendo, non avevo capito che…».

«Pensavo che fosse questo il tuo obiettivo», esclama lui con la fronte aggrottata.

Lei gli sorride con affetto. «Lo è». Il sorriso si accende. «Sono felice per te. Mi ha solo stupito vedervi insieme lunedì».

«È per questo che volevo dirtelo… per essere sincero riguardo quello che provo per lei». Sbatte le palpebre, aspetta la reazione di Lily.

«Be’, grazie, lo apprezzo. E sono felice per te». La sua espressione sembra sincera, il sorriso non vacilla mai. Ma non vedo i suoi occhi dal mio tavolo, nonostante mi sporga per fare capolino tra i libri.

Grant la osserva per un attimo, forse vede qualcosa che lo spinge a non crederle. Ma poi sorride. «Quindi siamo a posto? Io e te? Terrò sempre a te, Lily. Sempre. Sono qui se hai bisogno».

«Tutto a posto», replica lei, continua a sorridere con affetto. Grant la abbraccia. Riesco di sfuggita a vedere gli occhi di Lily, sono umidi di lacrime. Non è tutto a posto. Ma cazzo, mente davvero bene.

Mi sento una persona terribile dopo aver ascoltato la loro conversazione. Sono proprio una creatura vile.

Vado in anticipo in aula studio per riprendermi e cercare di capire cosa ho intenzione di fare. Perché Grant non mi ha detto di lui e Lily? Più ci penso, più mi sento frustrata. Quando arrivo nel sotterraneo, sto preparando il mio discorso arrabbiato.

Sono distratta e mi rendo conto troppo tardi di aver bisogno che il bibliotecario mi apra la porta. Ma quando arrivo alla fine del corridoio, trovo la porta dell’aula D aperta. Accendo la luce ed entro per aspettare Grant. Lascio la porta aperta.

Non riesco a stare seduta, quindi cammino avanti e indietro. E penso… fin troppo.

Lily ovviamente prova ancora qualcosa per lui. E con me è stata sempre molto gentile. È la persona più dolce del mondo. Quindi lui che diavolo ci fa insieme a me? Nel senso, non proprio insieme a me, ma… va be’. Prova qualcosa per me? Qualcosa di tanto serio da sentire il bisogno di dirlo alla sua ex?

Mi porto le mani alla testa e sospiro frustrata. Ma cosa sto facendo? Oltre a innamorarmi di lui…

«Porca puttana», esclamo ad alta voce, poi mi copro la bocca con una mano, scioccata. “Porca puttana. Porca puttana. Porca puttana”, continuo a ripetere nella mia mente.

«Mi sto innamorando di lui!», sussulto.

“Non doveva andare così!”, urlo al mio cuore, alla mia anima o qualsiasi parte di me abbia deciso di innamorarsi di Grant senza il mio permesso. La teoria di Scoiattolo sull’amore è un po’ confusa ora.

La porta si chiude di botto. Mi volto aspettando di vedere Grant. Non c’è nessuno.

«Ma cosa cazzo…?», mormoro, avvicinandomi alla porta per aprirla. È chiusa a chiave.

Le luci si spengono.

«Ehi!», urlo, tirando dei pugni sulla porta. «Ci sono io qui dentro!». Aspetto. Nessuna risposta. «Ehi! Aprite la porta!». Colpisco il legno, cerco di abbassare la maniglia. Niente.

Non vedo nulla. È così buio qui che mi sembra di essere chiusa in una tomba.

Il cuore batte all’impazzata e il respiro diventa affannoso.

Insisto con la maniglia e i colpi sulla porta. «Fatemi uscire!», grido con tutto il fiato che ho. «Per favore! Fatemi uscire!». Le ultime parole diventano un singhiozzo spaventato. «Per favore!».

Sento la testa leggera e mi sembra di svenire. Sfioro il muro con la mano. Ci appoggio la schiena e mi chino come mi ha insegnato Brendan, cerco di inspirare ed espirare lentamente. Ma non riesco a immagazzinare aria nei polmoni. Il cuore batte forte. Non riesco a respirare. Oh, no, non riesco a respirare.

Mi accascio a terra, lottando per un po’ d’aria.

«Smettila!», grido, ma le risate fanno capire che non dico sul serio.

Si allunga sopra di me, il petto sfiora il mio mentre tengo il telecomando fuori dalla sua portata. Ma non si sta impegnando davvero per prenderlo. Potrebbe togliermelo facilmente di mano se volesse. La sua bocca è così vicina alla mia. Deglutisco a fatica.

Mi sposto sul divano, squittendo quando le sue mani mi afferrano e mi solleticano. Ho una cotta per lui da tantissimo tempo. Spero che questa volta finalmente mi baci. So che è più grande di me, ma io finalmente ora sembro un’adolescente e non più la bambina a cui lui bada quando mia madre lavora fino a tardi e mia nonna deve fare il turno di notte in farmacia. Per lui sono sempre stata solo “la bambina del piano di sopra”. Voglio dimostrargli che non lo sono più.

Mi sposto sul pavimento. «Non guarderemo quello stupido programma». Cerco di scappare dalla sua presa, continuando a ridere, senza rendermi conto che la gonna si è sollevata e che mi si vedono le mutandine.

«Da quando porti le mutandine di pizzo?».

Mi volto di scatto e abbasso la gonna, arrossendo.

«Adesso porti anche il reggiseno?». I suoi occhi si spostano sulle mie curve. Ho i seni più grossi di tutte le ragazze della mia classe. È imbarazzante. Cerco di nasconderle con delle magliette larghe. Ma oggi indosso un top. Non è difficile accorgersi che non sono più una bambinetta. Volevo che lui se ne accorgesse. Ma ora che è successo, mi sento male.

Mi raggiunge. C’è qualcosa di diverso. Il mio cuore non batte più per l’emozione ora, ma per la paura.

Si china per baciarmi ma io volto la testa. «Non farlo».

«Cosa? Non vuoi?»

«Sì», mormoro. Ma non lo penso più davvero. Sento il suo respiro caldo sulla guancia, il suo corpo in equilibrio sopra il mio come se stesse facendo le flessioni. «Non so».

«Sai che lo vuoi». Si abbassa. Io mi giro prima che mi schiacci, cerco di spostarmi da sotto di lui. Mi tiene ferma contro il tappeto, le mani appoggiate sotto le mie spalle. Mi dimeno. «Sì, sai che lo vuoi».

«Togliti», esclamo. «Non riesco a respirare».

Il suo corpo è pesante. Cerco di alzarmi, di spostarlo, ma non sono abbastanza forte. Lui preme ancora di più il suo petto contro il mio. Non riesco a prendere aria. «Non respiro, smettila».

Una mano mi sfiora le cosce, mi palpa il sedere.

Gemo. «Togliti!». Mi contorco, cerco di muovermi, ma lui è molto più grosso di me. E più forte. Mi sta schiacciando. Devo andarmene. «Levati!».

Struscia i jeans contro di me; lo sento. Afferra l’orlo delle mie mutandine. Le tira. Io gemo di nuovo.

«No, no, no», singhiozzo. Mi manca il fiato, non ho più aria.

«Cosa cazzo stai facendo?», grida mia nonna.

Lui si alza subito. La pressione sul petto diminuisce, ma fatico ancora a respirare.

«Esci da casa mia!». Lo segue fuori dall’appartamento fin sulle scale. «Pezzo di merda! Mi fidavo di te!».

Sento parole ovattate dietro la porta, seguite da un tonfo tanto forte che sembra che stia saltando giù dalle scale per fuggire. Poi solo silenzio. Rimango accoccolata sul tappeto che mi ha graffiato ginocchia e gomiti. Piango finché non respiro più.

Mia nonna non torna. Capisco che è morta in fondo alle scale solo quando, più tardi, sento mia madre urlare. Io non mi sono ancora mossa.

«Lana?».

Apro gli occhi. Le luci sono accese. Sono sul pavimento con le ginocchia strette forte al petto.

Grant è accovacciato di fronte a me. Mi guardo intorno in un lampo. Il suo viso. La porta aperta.

Con delicatezza mi appoggia una mano sulla spalla.

«Non toccarmi!», strillo spingendolo via. Lui barcolla. «Non toccarmi, cazzo!».

Brendan è sulla porta. La sua espressione è dura, illeggibile.

Mi alzo. «Non toccarmi», urlo ancora. Grant solleva le mani, mi concede spazio.

Mi affretto verso la porta. Brendan si scosta per farmi passare.

Lance è nel corridoio. Si appiattisce contro il muro mentre gli passo di corsa davanti.

«Lana!», sento Ashton gridare più lontano. Salgo in fretta le scale e la sento dire: «Lasciate fare a me».

Non riesco a muovere i piedi abbastanza in fretta. Trattengo a stento i singhiozzi. Mi sembra di stare per esplodere. Attraverso il Parco, i rami delle piante mi graffiano le braccia. Barcollo con passo incerto sul ciottolato. Non mi fermo fino a quando non raggiungo l’altro lato del dormitorio femminile e il prato. Mi metto a correre.

Salto giù dalla scogliera, atterro sulle ginocchia sulla superficie ruvida. Ci sbatto il pugno più volte. Non sento il dolore nemmeno quando la pelle si apre e il sangue macchia le pietre. Soffoco tra i singhiozzi che finalmente lascio liberi di uscire.

Sollevo la testa e urlo. Quel grido viene da un posto molto profondo, un posto sepolto, lo sento nei meandri della mia anima. Si allunga sull’acqua e raggiunge il sole che tramonta, dove ogni terribile urlo viene catturato e portato via nell’oscurità. E poi finisce tutto. I miei demoni vengono spazzati via dal vento.

Crollo a terra.

La mia testa cade in grembo a qualcuno. Delle braccia forti mi confortano nella mia debolezza. Sono avvolta dal calore del suo corpo che mi protegge. Mi culla, mi consola. Assorbe il mio dolore e lo fa suo.

«Mi dispiace per quello che ti è successo», sussurra nel mio orecchio. «Per quello che ti ha fatto». Lei lo sa. «Anche io a volte grido il suo nome».

Il nome che lei urla potrebbe essere diverso dal mio. Ma lui è la stessa persona. Quello che non ci ha sentite dire no. Quello che ha scatenato in me la voglia di fare a pugni. Quello che ha portato via quello in cui credevo. Quello che mi ha assegnato la mia maledizione.

«Mi fidavo di te». Le ultime parole di mia nonna. E quella fiducia l’ha uccisa.