Capitolo quindici

Thaylina chiuse gli occhi di fronte all’oscurità del cuore dell’uomo. Lottò per liberarsi della cappa verde, ma non era abbastanza forte. Il respiro caldo della bestia le sfiorò il collo. Thaylina strillò quando sentì i fanoni sulla sua morbida pelle.

«Lana?».

Mi metto a sedere.

E mi ribalto, atterrando sulla pancia con un lamento. L’amaca ondeggia sopra di me.

«Stai bene?». Sento la voce del signor Garner, anch’essa sopra la mia testa.

Mi scrollo di dosso la stanchezza che mi avvolge come una coperta ruvida e mi tiro su da terra. «Forse».

«Cosa ti è successo? Sono stato sveglio metà nottata a chiedermi dove fossi».

«Sono rimasta chiusa fuori», spiego aprendo gli occhi, combattendo lo sfinimento. Non ho dormito molto anche dopo aver trovato il dormitorio. E al contrario di quello che dicono tutti riguardo alla signora Seyer che dovrebbe essere sempre in giro, suppongo sia dura d’orecchi, visto che ho urlato e battuto contro la porta fino a spezzarmi i polsi. Ho deciso di dormire su un’amaca ma mi sono svegliata a ogni rumore. La parte razionale di me era ottenebrata dalla paranoia. La notte migliore di sempre, penso con sarcasmo.

«Mi si è scaricato il telefono».

Il signor Garner sospira. «Sono contento che tu stia bene, anche se sembra tu abbia passato una nottataccia».

Immagino solo che aspetto devo avere e non ho intenzione di scoprirlo.

«Che ore sono?», domando, riconoscendo ora quelle che prima erano solo ombre e sagome.

«Le cinque e mezza. Sono venuto a cercarti non appena è sorto il sole. La sicurezza ha fatto un giro intorno al perimetro, ma non controllano il Parco quando i monitor dei dormitori sono in funzione. O così mi hanno detto. Si preoccupano solo di tenere gli intrusi fuori e voi studenti dentro la scuola. Quando il tuo telefono non è apparso online, hanno controllato la tua ultima posizione e hanno capito che eri all’interno del campus, così non si sono posti il problema di cercarti. Ho discusso con loro per un’ora, ma hanno detto che stavi commettendo una violazione. E che spettava alla scuola sanzionarti una volta tornata online. Suppongo succeda spesso. Comunque, credo avrebbero dovuto cercarti nel Parco».

«Grazie», esclamo. Per fortuna qualcuno si è accorto che non c’ero. «Ma non so se mi avrebbero trovata. È impossibile vedere qualcosa di notte, figuriamoci trovare qualcuno che si sposta. Forse è per questo che non controllano il Parco».

«Ma non va comunque bene. Vieni, ti faccio entrare. Cerca di dormire un po’. E per quanto mi dispiaccia dirtelo, ricordati che più tardi hai lezione».

Crollo sul letto senza togliermi i vestiti o sistemare la borsa che ho usato per passare la notte fuori. Mi pento di non averlo fatto quando vengo svegliata dal suono del telefono, dopo quelli che mi sembrano pochi minuti di sonno. L’unica cosa che ho fatto prima di collassare, è stato metterlo in carica. Mi fanno male il collo e le ginocchia e ho qualcosa che mi punta sul fianco. Mi allungo e vedo che è un pennello che butto subito a terra.

Sollevo il cellulare e trovo un messaggio del signor Garner.

Ho pensato ti servisse una sveglia per arrivare in tempo a lezione. Eccola.

Perché sembra che io sia il suo unico lavoro?

Mi sforzo di alzarmi, dispiaciuta di non poter saltare il corso. La Blackwood non tollera le assenze, prendono tutto sul serio. Potrei perdere i miei privilegi fuori dal campus per tutta l’estate, incluso il lavoro al golf club. Se fossi confinata qui dentro per i prossimi due mesi, credo davvero che impazzirei.

Quando faccio la doccia, fango, foglie e spine si ammassano intorno allo scarico. Mi fa male il corpo per la caduta e ho un livido scuro sul ginocchio sinistro. Ho anche dei taglietti superficiali sulle braccia e mi fa male la testa, come se l’avessi sbattuta, anche se non ricordo che sia successo. La misteriosa botta al capo potrebbe anche spiegare l’idea di aver sentito delle voci. Mi sembra solo uno strano sogno ora che ci ripenso, come se non fosse stato reale.

Il Parco è tornato al suo consueto e bizzarro aspetto quando lo attraverso, diretta all’edificio in cui si tiene la colazione. Poi perdo l’orientamento. Dove di solito giro a destra intorno a una fontana, ora c’è un sentiero dritto che conduce in un giardino pieno di sculture di arte astratta fatte di metallo.

Sto per gridare dalla frustrazione quando sento: «Buongiorno».

Brendan.

«Dov’eri ieri sera?», urlo.

Inarca un sopracciglio, la mia ostilità lo coglie alla sprovvista. «Nottataccia?»

«La peggiore del mondo», ringhio, serrando i denti per contenere le emozioni. «Ti ho lasciato un biglietto chiedendoti di venire in biblioteca. Ho legato il nastro al ponte»

«Non c’è, non ho mai visto il messaggio. Perché, cosa è successo?».

Scuoto la testa, voglio lasciarmi tutto alle spalle. «Lascia perdere».

«Cosa diceva il biglietto?», insiste.

Esito. Invece di cercare nella borsa la foto che avevo intenzione di mostrargli, incrocio le braccia sul petto. «Convincimi che posso fidarmi di te».

«Cosa?», ridacchia senza capire, come se gli avessi appena chiesto di stare a testa in giù e legarsi le scarpe.

«Convincimi che posso fidarmi di te», ripeto lentamente, pronunciando ogni parola tanto chiaramente da fargli leggere persino il labiale.

«Non posso», risponde semplicemente Brendan senza fare nemmeno uno sforzo. «Non c’è nulla che io possa dire o fare che ti convinca. Io e te non siamo gente fiduciosa. Ma questo non vuol dire che non possiamo sfruttarci l’un l’altra per ottenere quello che vogliamo».

«Vuoi ancora le informazioni?»

«Tra le altre cose, sì». Mi fa l’occhiolino.

Gli tiro un pugno sul braccio.

«Ahi, okay, okay. Scherzavo», si lamenta, massaggiandosi dove l’ho colpito. «Cosa vuoi, Lana?»

«La verità».

Ride ancora. Lo fulmino con lo sguardo, ne ho abbastanza del suo divertimento. «La versione di chi?»

«Quella reale», dico con impazienza. «Qualcuno mi sta prendendo in giro e non so perché. Pensavo che avesse a che fare con quello che è successo a Allie, ma ora non ci credo più».

«Lana, la verità reale non esiste. Tu dovresti saperlo bene. Purtroppo è sempre modellata dalle bugie di qualcuno. Posso provare ad aiutarti a capirci qualcosa, ma prima devi dirmi cosa succede».

Il mio telefono inizia a vibrare. È il signor Garner. Guardo Brendan, che mi fa cenno col capo di rispondere.

Il volto del signor Garner riempie lo schermo. «Ciao, volevo solo assicurarmi che fossi in piedi».

«Sto per prendere qualcosa da mangiare mentre vado a lezione», rispondo. Brendan si incammina accanto a me. Lascio che decida lui la strada nel nuovo giardino, visto che sembra sapere dove andare. Deve avere una sorta di Mappa del Malandrino che cambia insieme al Parco, perché non è possibile che si adatti così velocemente.

«Okay. Comunque oggi non puoi uscire dal campus. Mi dispiace, non ho potuto fare nulla, anche dopo aver spiegato cosa ti è successo. A quanto pare, sei responsabile della carica del tuo telefono».

«Va bene», replico rassegnata. Oggi sarei andata solo da Stefan, ma non sono dell’umore giusto per vedere nessuno, nemmeno Grant.

«Se senti il bisogno di prendere a pugni qualcuno, fammi sapere», offre il signor Garner con un sorriso empatico.

«A presto». Spengo lo schermo.

«Perché il tuo coach ti propone di prenderlo a pugni?».

Alzo gli occhi al cielo. «Prendo lezioni di boxe come parte del mio percorso di gestione della rabbia, o qualunque sia il ridicolo nome di quel programma».

«Non mi pare funzioni», commenta massaggiandosi il braccio. «Che lezione hai ora?»

«Chimica». Apro la porta dell’edificio principale.

«Ci vediamo nell’ingresso dopo il tuo corso».

Brendan non entra nella sala da pranzo con me, ma sparisce lungo il corridoio che porta a… non ho idea di dove conduca perché sono stata solo in questo salone.

Prendo un caffè freddo e un burrito prima di proseguire per la lezione, sperando che non compaia un nuovo giardino che mi faccia perdere l’orientamento. Già così, arriverò appena in tempo.

Quasi due ore più tardi, non ho imparato nulla. Il mio compagno di laboratorio probabilmente vuole uccidermi. E abbiamo il primo test venerdì. Come è possibile che ci sia già una verifica?

«La Blackwood offre un tutoraggio», mi dice dopo la lezione l’insegnante di chimica, di cui non ricordo il nome, mentre rivede il mio compito in classe. «Potrebbe servirti un po’ d’aiuto. Coinvolgiamo i migliori studenti della Printz-Lee durante i mesi estivi. Se vuoi, posso organizzarti un incontro con un tutor di chimica, domani».

«Certo», rispondo automaticamente, troppo stanca per pensare che è strano che abbia già bisogno di un tutor.

«A che ora?»

«Mmm». Non sopporto essere costretta a pensare adesso. «Domani mattina devo lavorare e poi ho due lezioni al pomeriggio. Si può fare alla sera?»

«Controllo. Se riesco a organizzare qualcosa, ti scrivo un messaggio».

«Come mai ci hai messo tanto?», mi domanda Brendan quando arrivo nell’atrio.

«Faccio schifo in chimica», gli spiego. «Mi serve già un tutor».

«Oh, Lana, non ti serve un tutor. Forse basterebbe stare sveglia a lezione». Ecco che arriva la predica. Sono tentata di strozzarlo.

Faccio una smorfia. «Ma piantala. Devo davvero mettere del nastro adesivo sulla videocamera e sul microfono del telefono quando non lo uso per impedirti di spiarmi?»

«Io lo faccio sempre», risponde sinceramente.

Certo che lo fa.

«Dove andiamo?»

«Nella mia stanza».

Quando arriviamo al ponte che conduce al dormitorio maschile, mi aspetto che mi faccia passare da qualche entrata segreta, invece entra dalla porta principale e me la tiene aperta.

«Da voi non c’è qualcuno che controlla?»

«Sì, ma durante il giorno dorme», spiega. «Non pensa che ci possiamo cacciare nei guai quando splende il sole. Che ingenuo».

Seguo Brendan fino al quinto piano. «Ma tu non sei all’ultimo anno».

«Mi è stata assegnata questa stanza quando sono arrivato qui l’anno scorso», esclama. «Ora mi rifiuto di cambiarla. Capirai il perché».

La camera di Brendan è ordinata quanto lui con un divano in pelle rodato, una chaise-longue e un’incredibile scaffalatura di libri che arriva al soffitto. Il suo letto è soppalcato come quello di Ashton e lascia più spazio all’arredamento. Questo spazio è chiaramente abitato da un uomo, ma ha un aspetto regale che non immaginavo. Ma è anche vero che Brendan si veste e mangia come un quarantenne. A quanto pare, anche lo stile di vita è quello di un uomo di quell’età.

«Siediti», mi offre, aprendo l’armadio accanto al lavandino. Spinge la mensola così che le bottiglie d’acqua ruotino e scompaiano, sostituite da una sfilza di liquori nascosti in uno scompartimento segreto. «Bevi qualcosa?».

Scuoto la testa.

Brendan tira fuori dello scotch e se ne versa un po’.

«Non sei la persona che sembri, vero?», domando con una risata per nulla divertita.

Mi sorride. «È così evidente?»

«Magari sei un mutaforma», penso ad alta voce. «Dimostri sedici anni ma tutto di te è…».

«A parte la mia resistenza». Mi fa l’occhiolino.

«E la tua maturità. Ma anche i folletti sono egoisti e civettuoli. Forse dovresti tornare a vivere sotto la tua collina. Devi mancare molto alle tue amiche fatine».

«Mi stai per raccontare una delle tue storielle, princip…». Brendan si interrompe da solo, sorridendo in segno di scuse.

È il momento di cambiare argomento.

«Ecco come…». Non finisco la frase perché una fotografia incorniciata attira la mia attenzione.

«Lana?».

Mi alzo e attraverso la stanza, diretta alla libreria, rovinata da macchie di caffè, che occupa l’intera parete. C’è una scrivania a scomparsa che si può sfilare dai ripiani e, per quanto mi sorprenda, anch’essa è piena di libri. Ci sono anche dei tocchi personali: foto, trofei di golf, soprammobili.

Prendo la foto di due ragazze, forse un po’ più grandi di quanto siamo noi ora e la fisso. Sono sedute alla prua di una barca, le facce coperte da occhiali da sole enormi, ma con i sorrisi brillanti come il sole.

«Chi sono le due nella foto?»

«La ragazza sulla destra è mia madre a diciotto anni. L’altra non so chi sia. Ma mi piace questo scatto perché lei sembra felice».

«Quella sulla sinistra», inizio, ma devo fermarmi per prendere fiato, «è mia madre».

«Sul serio?». Brendan ride divertito. «Pazzesco».

Ma quando mi volto, è tornato serio. Lo sapeva.

«Le nostre madri erano amiche?», domando, quando mi rendo conto che tutto questo non lo sorprende.

«A quanto pare». Manda giù il resto dello scotch.

Con la foto ancora in mano, mi siedo sul divano, mentre Brendan rimane in piedi, appoggiato al bancone accanto al lavandino.

«Ho ricevuto tre messaggi da quando sono qui. La prima notte, ho trovato scritto sul muro “Io so” con la vernice che si illuminava al buio. Il secondo biglietto era nell’armadietto del golf club il primo giorno di lavoro. L’hai visto. E l’altra notte ne ho ricevuto un altro. Era nella mia borsa, l’ho trovato quando sono tornata da casa di Lily». Frugo nella borsa e porgo il foglietto a Brendan. «All’inizio ho pensato fossero minacce riguardanti la notte in cui Allie è stata spinta dalle scale, perché mi sembrava il segreto più ovvio su cui far leva, anche se i messaggi non hanno mai davvero avuto senso. Ma ora…».

Brendan fissa la foto. «Credi che abbia a che fare con le nostre madri?»

«Forse. Ma ancora non ho capito il significato dei messaggi», esclamo. «Tu ne hai ricevuti?». Scuote la testa e volta l’immagine per leggere la scritta. «Quindi, chiunque sia ce l’ha con me. E ieri notte, dopo aver trovato quella foto, ho iniziato a pensare che forse si trattasse di avvertimenti e non di minacce. Se non fosse che…».

Brendan mi guarda perché mi sono interrotta.

«Ieri notte sono rimasta chiusa fuori dal dormitorio perché avevo il telefono scarico. Ho passato quasi tutto il tempo a vagare per il Parco. Potrei giurare che con me ci fosse qualcuno, anche se ora ho dei dubbi. Magari me lo sono immaginato. Ma chiunque lasci questi biglietti sapeva che ero fuori ieri, perché ha lasciato questo».

Brendan legge il messaggio accartocciato. «È per questo che volevi capire se ti puoi fidare di me?»

«È qualcuno che frequenta questa scuola e sa chi sono. E che aveva accesso alla mia borsa a casa di Lily. Non ci sono molte persone tra cui scegliere. E ognuno di loro dovrebbe essere un amico».

«La scritta riguardo agli amici è stata fatta solo per non farti parlare, ne sono certo».

«Forse hai ragione».

«Non è detto che sia uno di noi. Questa persona ha solo bisogno dell’accesso alla tua stanza, quindi è qualcuno che può entrare nel campus. Bisogna includere gli insegnanti, gli amministrativi e…».

«I coach», mormoro. Il signor Garner è stato assunto quasi solo per tenermi d’occhio e ha un legame con gli Harrison. Forse sta cercando di mettermi in guardia. Ma in un attimo cancello quell’ipotesi, non è il tipo da fare gesti tanto teatrali… credo. «Potrebbe essere chiunque».

«Credo che dovremmo concentrarci sul perché, più che sul chi». Mi guarda negli occhi. «Non dirlo a nessun altro».

«Credo che Joey possa sapere da dove proviene questa foto. Mi ha detto di averne trovate altre di noi da piccoli, prima che fossimo abbastanza grandi da ricordarcene. Potrebbe conoscere gli altri presenti nello scatto, o almeno sapere a quando risale».

«Non dirgli dei messaggi. Farò una copia della foto così che non veda la scritta sul retro. Credo sia meglio tenerlo per noi».

«Perché?»

«Non so, istinto», replica come se fosse una ragione valida.

«E lo segui sempre?», domando.

«Quasi», ammette senza sarcasmo. «Sono molto perspicace e di solito è così che mi tengo fuori dai guai. Sono i vizi che tendono a rovinarmi».

«Quali? L’hackeraggio, lo stalking e il sesso libero?».

Ride quasi di gusto. «La terza è vicina alla realtà. La mia percezione è distorta quando si tratta di donne a cui tengo. Fatico a capire quali siano le loro intenzioni fino a quando non è troppo tardi. È come essere cieco ai loro errori finché non mi travolgono. Quindi, per ora non mi impegno. Penso solo al sesso, non alle emozioni. Così non mi faccio fottere, scusa il doppio senso». Sorride malizioso.

Alzo gli occhi al cielo. «Parlami dei problemi di fiducia».

«Ti ho detto che siamo simili. E, a quanto pare, abbiamo in comune più di quanto pensassimo». Si versa ancora da bere. «Ti dirò una cosa che nessun altro sa. E non perché me ne vergogni, ma perché sono cazzi solo miei. Alla Blackwood sono riuscito a non dirlo a nessuno perché sono tutti molto riservati, non fanno domande».

Beve un lungo sorso del suo drink. «Sono cresciuto a Nantucket. La mia famiglia aveva una piccola libreria. Non eravamo ricchi, non eravamo di certo di quelli che arrivano a bordo degli yacht ogni estate. E nemmeno che diventano studenti della Blackwood. Niall ha fatto in modo che mi ammettessero qui all’inizio dell’anno scorso, come ha fatto con te. Non vuole dirmi chi paga la retta per me, dice che è una borsa di studio, una cosa concordata con la scuola. Quando presenta dei candidati con del potenziale, la Blackwood li accetta a certe condizioni. È una buona pubblicità per loro poter dire che hanno aiutato studenti con diversi background sociali a diventare dei geni; Niall ricopre il ruolo dell’eroe che salva le nostre vite. Ma so che sono tutte stronzate. Ricevono dei soldi per le nostre rette. Ho visto i loro conti».

«Ma non sai chi paghi? Non credi sia Niall?»

«Una retta alla Blackwood per tre persone, una alla Printz-Lee e una all’Università di New York? Ne dubito. Ho pensato che forse la sua azienda potesse aver organizzato una specie di fondo perché sicuramente siamo sulla lista dei loro clienti pro bono. Ma non ho trovato nulla nei registri».

«Non avrei mai detto che non sei ricco. Ti comporti come se questo fosse il tuo posto, come se appartenessi a questo gruppo di privilegiati».

«Perché è così», esclama con un ghigno. «Non sono meglio o peggio di noi. Infatti, sono sicuro di avere un rapporto migliore io con mia nonna che molti di loro con i propri genitori. I soldi non c’entrano nulla. Sono cresciuto nella classe media e sono sempre stato testimone dei piani alti. Facevo il caddy sull’isola. Ho ascoltato molte cose e ne ho imparate di più. Ho manipolato e sedotto le persone giuste per ottenere quello che volevo, poi mi hanno beccato. E non era nemmeno la figlia di un miliardario. Era la moglie trofeo del dannato preside della scuola. Che stupido».

«Provavi qualcosa per lei?».

Alza le spalle. «Ho imparato la lezione. Ma a che prezzo…».

Sorrido, conosco quella sensazione. «Pare che sia l’unico modo per imparare».

Brendan sorride prima di tornare a concentrarsi sulla foto. «Quindi le nostre madri erano amiche. Ma come fanno a conoscere gli Harrison?»

«Non so nemmeno perché mia madre fosse a Nantucket», esclamo, sorpresa da quante cose non sappia su di lei. «Sicuramente non poteva permetterselo da sola».

«Se glielo chiedessi, te lo direbbe?»

«Posso provare. Ma se voglio che mi dica la verità, devo parlarle faccia a faccia. Diventa molto… sensibile quando menziono qualcosa legato a mio padre. E credo che in quel periodo – quello della foto – fosse incinta o che lo sarebbe stata di lì a poco».

«Mia madre era incinta di me, di circa tre mesi, in questo scatto». Spalanca gli occhi. «Porca puttana, tutte le donne presenti sono in dolce attesa tranne una. A meno che non lo sia anche lei ma non si veda ancora».

«Cosa?», domando, allungando una mano per prendere la foto. Ha ragione. La donna dai capelli scuri, quella col volto coperto, è visibilmente incinta. La foto in bianco e nero rende difficile notare la pancia perché indossa un vestito scuro. «Riconosci qualcun altro?»

«La bionda non incinta sembra familiare, ma non capisco di chi si tratti. Non so nemmeno chi sia l’altro uomo e la donna dai capelli scuri è impossibile da identificare. Devi anche pensare che c’è qualcuno pure dietro la macchina fotografica».

«E qualcuno tagliato», dico piano, strizzando gli occhi su una figura sfocata sulla sinistra. Brendan si siede accanto a me. «Lo vedi? Il braccio e le gambe? Sembra quasi che stia correndo per stare nell’inquadratura».

«Che fotografo penoso», nota Brendan. «Mi chiedo se ci sia un’altra foto dove ci sono tutti e in cui si vedano chiaramente i volti».

«Chiunque stia facendo tutto questo è matto. Non capisco cosa voglia, non ha senso». Mi volto verso Brendan e gli rivolgo la domanda che fino a ora avevo posto solo una volta e solo a me stessa: «Tu… sai chi sia tuo padre?».

Scuote la testa. «Mia nonna dice che era un turista. È stato lì un’estate e poi non l’hanno più visto. Mia madre non sapeva nemmeno come contattarlo per dirgli che aspettava un figlio. Mia nonna pensa che fosse sposato».

«Quanti anni aveva tua madre quando sei nato?»

«Venti».

«Quindi qui ne aveva diciannove. E hai detto che ne aveva diciotto nell’altra foto in barca con mia madre. Questo vuol dire che si conoscevano almeno da un anno».

«Questo weekend non era il primo che tua madre passava sull’isola allora, perché mia madre non l’ha mai lasciata. Nemmeno una volta».

«Sul serio?»

«Così mi hanno detto».

Mi accascio sul divano. «Ha qualcosa a che fare con gli Harrison. Lo so». Sollevo lo sguardo per incontrare gli occhi cupi di Brendan. «Hai detto che Niall sa chi ha ucciso tua madre. Cosa intendevi? Non è stato un suicidio?»

«Non credo di essere ancora pronto a parlarne». La sua voce è calma ma noto una sfumatura di rabbia profonda e minacciosa. Annuisco comprensiva. «Iniziamo col capire come le nostre madri si conoscessero e quali fossero i loro rapporti con gli Harrison».

Si alza e appoggia il bicchiere vuoto sull’elegante tavolino in onice. «Vieni, voglio mostrarti una cosa».

«Cosa?»

«Il motivo per cui questa è la mia stanza».

Brendan si avvicina alla libreria e fa pressione su una parte di essa. Il mobile si apre scostandosi dal muro.

«Quanti passaggi segreti ci sono in questa scuola?»

«Molti», risponde, poi scompare nell’apertura.

«E di quanti sei responsabile tu?». Forse la stanza non aveva già questa libreria quando lui è arrivato.

Accende una fila di lampadine che illuminano il suo tipico sorriso arrogante, poi sale una scala. È uno spazio stretto. Deglutisco a fatica prima di seguirlo, ricordando a me stessa di continuare a respirare normalmente mentre salgo. Per fortuna non proseguiamo a lungo prima di trovarci in una stanza. O meglio, l’anfratto di una soffitta. Brendan deve chinarsi per non battere la testa contro le travi sporgenti. Preme un altro interruttore e lo spazio si riempie di un ronzio elettronico.

«Quindi è qui che fai le tue cose inquietanti», esclamo guardandomi intorno.

Una vecchia scrivania e un tavolo, insieme a diversi armadietti a due cassetti ricoprono il perimetro della camera. Ogni superficie possibile è coperta da tastiere, schermi o dischi rigidi. Una libreria a tre piani è piena di piccoli monitor. Quando osservo quelli che sono accesi, riconosco l’inquadratura. È il confine esterno della Blackwood.

«Pensavo mi avessi detto che i tuoi non sono ricchi…», sottolineo con tono d’accusa. Non che capisca qualcosa di quello che vedo, ma l’attrezzatura sembra nuova e costosa.

«Non ho detto che non guadagno bene», replica.

«Mi fai paura».

«Oh, non hai nemmeno idea», risponde, sempre con quel sorriso arrogante sul viso che mi fa rabbrividire.

Cerco di convincermi che confidare in Brendan sia la mia unica possibilità se voglio delle risposte. Ma non sono certa di potermi fidare di lui. La sua maledizione è l’Intuito. Non è per nulla chi appare, ma a quanto sembra riesce a leggere benissimo il prossimo. È così fissato con lo scoprire la verità che quasi mi mette a disagio. Ma d’altronde, come ha detto lui, la verità può essere facilmente manipolata dalla… percezione. Ognuno ha la propria versione.

Ora sto iniziando a spaventarmi e a pentirmi seriamente di averlo coinvolto.

Potrebbe esserci proprio Brendan dietro tutto questo. Forse accusa mia madre per la morte della sua. È difficile credere che non abbia notato quanto le somiglio nella foto che ha sulla libreria. Sono identica a lei quando era un’adolescente, anche se lì mia madre indossava gli occhiali da sole. Non si è sorpreso quando ho rivelato l’identità della donna della foto, lo sapeva già. Brendan mi ha cercata e mi è entrato nella testa fin dal primo giorno, facendomi domande di cui sapeva già le risposte.

Non posso fidarmi di lui.