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Peccioli, una settimana dopo

Angelo Crespi aprì la porta, dopo aver controllato dallo spioncino. «Ah, è lei capitano. Rimpiango i tempi in cui non avevo bisogno di controllare. Gino era l’unico che veniva a bussare qui.»

«Ho sentito che migliora di giorno in giorno,» disse Mauro Rambaldi entrando e chiudendosi la porta alle spalle «ne sono felice.»

«Sì, è così. Incredibile per un uomo della sua età. Ha una fibra eccezionale.»

«Se lei non fosse arrivato in tempo, non ce l’avrebbe fatta.»

«Sì, già. Almeno qualcosa abbiamo salvato in questa storia.»

«Più d’una. Comunque sono venuto per salutarla. Vado a Roma per iniziare col mio nuovo incarico. Tornerò prima per testimoniare, ma non ha senso che resti qui.»

«Bene» disse Crespi annuendo. «Immagino che ci rivedremo allora. Ma si sieda un attimo, prego.»

Mauro Rambaldi non se l’aspettava e accettò con piacere.

«La ragazza e il bambino?» chiese Crespi.

«Daria è stata dimessa, è tornata a casa. Il piccolo è fuori pericolo. Spero che non serbi nessun ricordo di quanto è accaduto.»

«Se questa storia ci ha raccontato qualcosa, è che certi incubi sono difficili da cancellare.»

«Sì, è vero. Comunque, volevo chiederle cos’ha deciso di fare. So che ha avuto qualche noia con i giornalisti che sono venuti a cercarla. Resterà a Peccioli o pensa di cambiare città?»

«Mi hanno offerto un sacco di soldi, sa? Incredibile. Volevano l’esclusiva per un’intervista. Li ho mandati al diavolo e ho staccato il telefono. Riguardo alla sua domanda. No, non me ne andrò. Peccioli, ormai, è casa mia. Mi trovo bene e anche la gente… temevo che una volta saputo avrebbero preso le distanze. Un tempo avrei preferito che mi lasciassero in pace, ora, invece, sentirli dalla mia parte mi fa piacere. Leggo nei loro occhi la gratitudine. Tengono lontani i curiosi e gli avvoltoi, è come se mi proteggessero. E poi sono troppo vecchio per ricominciare di nuovo da capo.»

«Bene, ne sono felice. Saperla qui, in un certo senso, ristabilisce un ordine nelle cose. E magari, se non le dispiace, qualche volta passerò a farle visita.»

«Mi farà piacere, purché non mi coinvolga in un’altra indagine.»

Mauro Rambaldi sorrise. L’uomo che aveva davanti era così diverso da quello che aveva conosciuto quando aveva messo piede in quella casa per la prima volta. Non sembrava più lui. Quella tragedia gli aveva spezzato qualcosa dentro, infrangendo l’argine che Angelo Crespi aveva eretto per bloccare un fiume di sentimenti in piena. E adesso faticava a nasconderli. Appariva indifeso, bisognoso di riscoprire il contatto col mondo degli uomini, per tornare a sentirsi vivo.

«Ah, quasi me ne dimenticavo» proseguì il vecchio. «Ho una cosa per lei. Mi aspetti qui.»

Rambaldi annuì, mentre Crespi saliva la scala. Ne ridiscese qualche minuto dopo con una grossa busta di carta che conteneva una tela. «Una volta mi ha chiesto di vedere i miei quadri, ricorda?»

«Certo…»

«Ecco. Ne ho fatto uno per lei. Poco più che uno schizzo, ho avuto solo qualche giorno per lavorarci. Però ci tenevo a darglielo.»

Rambaldi prese la busta e con gesti misurati, con timore, estrasse la tela dall’involucro. Rappresentava un cavaliere a cavallo, in armatura, nell’atto di colpire a morte un drago. I colori erano accesi. Il bianco del cavallo, l’argento dell’armatura, il verde del drago e il rosso arancio del fuoco che sprigionava dalle fauci. Energia, sensazioni dinamiche, positive.

«San Giorgio…» sorrise il capitano, ricordando la chiesa dove tutto si era concluso.

«Già… Quello sul cavallo è lei. Immagino che risolverà tanti altri casi. Magari questo quadretto l’aiuterà a ricordarsi di Peccioli.»

Mauro annuì. Tese la mano e Crespi gliela strinse.

«È grazie a lei se ce l’abbiamo fatta.»

«Ma è anche a causa mia che questa storia è iniziata… e mi ha lasciato addosso una sensazione di, non saprei come dire… necessità, fato. Come se non potessi comunque sfuggire al mio destino. In realtà possiamo cercare di fare del nostro meglio, senza nasconderci. E se alla mia età ho capito questo… lo devo a lei, capitano Rambaldi.»

Mauro annuì. «Ora che la caccia è finita, si prenda cura della sua di anima.»

Alla stazione Carabinieri di Peccioli lo aspettavano per i saluti. A partire dal comandante, tutta la squadra indossava divise perfette. Il capitano Rambaldi strinse le mani e trovò parole per ciascuno di loro, sottufficiali e agenti allineati in piedi nella sala riunioni e visibilmente emozionati.

Quando fu il turno di Remo Varricchio, Rambaldi ebbe un flashback. «Qualche giorno fa avevi chiesto di parlarmi per un problema personale… Con tutti i casini che abbiamo avuto mi è passato di mente. Se vuoi, ora sono a disposizione.»

«Grazie signor capitano, non era niente di importante» rispose il giovane, emozionato. «Alla fine la cosa si è risolta da sola.»

«Bene… allora meglio così.»

«Signor capitano» disse il maresciallo Santamaria. «A nome di tutti i ragazzi voglio ringraziarla per averci proposto per un encomio. Lavorare con lei è stato un onore e un piacere.»

«Onore mio, maresciallo. Siete una bella squadra.»

«Sicuro che non vuole fermarsi a pranzo? Mia moglie c’è rimasta male, sa…»

«Si vede che non era destino. La ringrazi per me.»

«In fondo cosa le costa partire un’ora dopo? Si perde una calamarata che nemmeno a Posillipo.»

«Mi dispiace, mi creda. Ma ho un ultimo impegno e non posso assolutamente arrivare tardi.»

L’agente Remo Varricchio chiuse a chiave la porta della sua stanza. Alloggiava in caserma, insieme a Surricchio, mentre gli altri colleghi vivevano in paese, con le rispettive famiglie. Si sedette sul letto ed estrasse il portafogli dalla tasca. La foto, plastificata, era di otto anni prima e lo ritraeva con l’ex fidanzata. Era il periodo in cui aveva provato a laurearsi all’università di Pisa, facoltà di Lettere antiche con indirizzo Archeologia. Non ce l’aveva fatta. Quel fallimento gli era costato una crisi personale devastante e un periodo di depressione che lo aveva profondamente cambiato. L’aveva obbligato a ricalibrare, al ribasso, tutti gli obiettivi, le aspettative, i sogni che aveva coltivato sin da ragazzo. Anche la storia d’amore ne aveva risentito. La mortificazione nei confronti di lei, che otteneva risultati sempre più brillanti negli studi, li aveva allontanati. Quando aveva capito che il sentimento che li legava era minato in maniera irreparabile, Remo aveva scelto di lasciarsi alle spalle quell’esperienza. Si era arruolato nell’arma dei Carabinieri per dare un taglio netto al ricordo di ciò che aveva sperato di essere. Aveva bisogno di cercare nuovi stimoli, nuove risposte alle domande sul senso dell’esistenza che lo affliggevano da sempre.

Il trasferimento a Peccioli era stato un caso. Era lì che si erano rivisti, quattro mesi prima. Lei voleva provare a ricucire la storia con lui. Ma i loro nuovi rapporti, le lunghe telefonate serali nel corso delle quali ripercorrevano le fasi della loro storia d’amore e provavano a capire se ci fossero ancora spazi per un futuro insieme, si erano interrotti quasi subito. Remo Varricchio pensava dipendesse dal fatto che ormai erano troppo diversi, che gli obiettivi e le passioni comuni che li avevano avvicinati fossero appannaggio di un passato impossibile da riesumare. In questi ultimi, drammatici giorni, aveva scoperto che il motivo di quel distacco era stato un altro. Una persona malvagia l’aveva plagiata, l’aveva fatta innamorare e condotta a una fine tragica.

L’unica consolazione che gli restava, era di aver contribuito, seppur in minima parte, a fare giustizia. Lacrime silenziose solcarono le sue guance. Il giovane pensò a come le scelte della vita, anche quelle che ci sembrano meno importanti, possano condizionare il futuro, nostro e degli altri, fino a causare eventi irreparabili. In quel momento si assunse la responsabilità di ciò che era accaduto a Roberta Savio e giurò a sé stesso che avrebbe vissuto cercando di espiare quella colpa.

Daria Del Colle aveva sbrinato il frigorifero, chiuso il gas e abbassato le serrande. Aveva fatto per tre volte quello che la sua amica Lara chiamava «il giro del coglione». Lo aveva imparato da quando stava con quel musicista, che se la portava dietro in tutti gli alberghi d’Italia. Era l’ultimo giro nelle stanze, prima di riconsegnare la chiave, per accertarsi di non aver lasciato niente. Seguiva un rituale preciso: sotto il letto, nei cassetti, fra le lenzuola, nel bagno, nell’armadio. Lara le aveva trasmesso quella usanza che lei, ora, applicava tutte le volte che doveva allontanarsi da un luogo dove aveva soggiornato. Certo, era la prima volta che lo faceva a casa sua, e questo le creava una certa ansia. Decise di averne abbastanza. Si mise il borsone in spalla, afferrò il voluminoso trolley e il trasportino duplex dei suoi due gatti. Chiuse la porta con un calcio e ripose tutto sul pianerottolo per riequilibrare i pesi e chiudere a doppia mandata. Ebbe un attimo di smarrimento che ricacciò subito indietro.

Sotto casa, Mauro l’aspettava con la Jeep Renegade, il motore acceso e il portellone aperto.

«Preso tutto?» le chiese.

«Speriamo» rispose. «Ho fatto il giro del coglione per ben tre volte.»

«Cosa?» chiese Rambaldi.

«Niente… una cosa tra me e Lara.»

L’ufficiale sistemò i bagagli incastrandoli con i suoi. «E loro due?»

«Loro vengono davanti, con me.»

«Te lo avevo detto che sono allergico al pelo di gatto, vero?»

«Non ti preoccupare, niente che un buon antistaminico non possa sistemare» rispose con un sorriso luminoso e aperto che si trasformò in un bacio sulle labbra. Mauro accolse quel bacio e alzò gli occhi al cielo.

«Ah, a proposito» disse Daria. «Ho portato qualche cd per il viaggio.»

«Scordatelo» rispose lui ingranando la marcia e accendendo l’autoradio. Le note di Get Lucky dei Daft Punk si diffusero nell’abitacolo.