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La prima sensazione fu un dolore acuto. Al collo, ai polsi, alle braccia, alle caviglie. Era immobilizzata in una posizione strana, contro una enorme tavola di legno. Ogni tentativo di muoversi le costava altro dolore. Il filo di ferro che la imprigionava scompariva nel supporto, attraverso piccoli fori di trapano. Daria sembrava una Barbie fissata alla confezione di cartone con le fascette di plastica. Ma stavolta non sarebbero bastate le forbici della mamma a liberarla.

Si guardò intorno, spostando solo gli occhi. Il luogo della prigionia era illuminato da due lampade a gas appoggiate a terra. Lo riconobbe subito, benché gran parte dell’ambiente fosse in penombra. Le colonne marmorizzate, il pavimento a quadri. Era la chiesa di San Giorgio a Cedri. Da ciò che vedeva, immaginò che la tavola contro la quale l’avevano legata fosse, più o meno, davanti all’altare.

Alla sua sinistra c’era un’impalcatura che arrivava al soffitto, le panche erano state accatastate e coperte con un telo di plastica. C’erano polvere di cemento e attrezzi da muratore ovunque. Daria si sforzò di ricordare. Nella chiesa erano in corso lavori di ristrutturazione per la Festa del ritorno, un evento che si teneva ogni anno a giugno e che portava centinaia di persone nel piccolo borgo che contava trenta abitanti. In Fondazione aveva sentito dire che i lavori sarebbero stati ripresi e ultimati il mese successivo nell’attesa di un’autorizzazione della Soprintendenza ai Beni Culturali.

Daria cercò di scacciare la nebbia e lo sgomento che le offuscavano il cervello. Era stata drogata di nuovo. E l’avevano vestita. Indossava una veste di seta rosa arabescata e un grande mantello di velluto blu che le avvolgeva tutto il corpo e le ricadeva intorno con morbide balze. Cos’era quella mascherata? La risposta giunse con un brivido di orrore. Era l’ultima messinscena del Mostro di Peccioli.

La chiesa di Cedri era famosa perché nel 1791 la famiglia Alessandri, feudataria del piccolo borgo, aveva donato alla comunità un dipinto del 1423 attribuito al Beato Angelico: la Madonna dell’Umiltà. Non era l’unica rappresentazione sacra di quel genere. Di Madonne dell’Umiltà ne esistevano tante, era un soggetto diffuso all’epoca del Beato Angelico al quale ne erano attribuite più di una. Quella di Cedri era esposta presso il Museo Nazionale San Matteo di Pisa, ma quell’anno una copia commissionata dal Comune di Peccioli sarebbe stata nuovamente collocata nella sua sede originaria, proprio in occasione della festa. Per questo fervevano i lavori per rendere quello spazio degno di accogliere e custodire una grande opera d’arte, benché si trattasse solo di una pregevole copia.

Daria si riscoprì vestita come la Madonna del Beato Angelico. E la sua posizione, contro il pannello in legno, era quella che aveva la vergine sul dipinto. Mancava solo il bambino Gesù tra le braccia.

Il grande pannello di legno, pitturato con vernice dorata, era montato su una specie di cavalletto regolabile. Dovevano averla fissata a quelle tavole in posizione orizzontale per poi sollevarla fino all’attuale angolazione, quasi verticale. Era seduta su un piccolo supporto, una tavoletta sporgente, celata dal grande mantello. Se così non fosse stato, il peso del suo corpo l’avrebbe trascinata in basso e il filo di ferro che le avevano passato intorno al collo per immobilizzarle la testa, l’avrebbe strangolata. Le forze la abbandonarono e di colpo Daria si sentì alla mercé di quella follia. Lacrime di rassegnazione le bagnarono il viso stanco e provato.

«Allora che ne dici della mia opera d’arte?»

La voce risuonò all’improvviso. Giungeva dal fondo della chiesa, una zona completamente in ombra. Daria si sforzò di aguzzare la vista. Riusciva a malapena a scorgere una sagoma scura con un fardello fra le mani. «Ti prego» urlò mentre la voce uscì fioca «non ti ho fatto niente di male, perché mi fai questo?»

La figura fece un solo passo e si fermò.

La voce di Daria uscì di nuovo, stridula e incerta. «Ti prego… aiutami.»

«Sei tu che aiuterai me. Sei il mio progetto più ambizioso e sarai il più ammirato, credimi! Meglio di Isadora con i suoi ninnoli e la sua cintura.» La voce adesso era più forte. La sagoma scura si avvicinava. Quando arrivò a pochi metri di distanza, la luce fioca delle due lampade la illuminò, dal basso verso l’alto, rendendola più minacciosa. Daria si accorse che il fagotto che teneva fra le mani era un bambino, nudo e privo di sensi. Era morto? Mio Dio, no! Un sentimento di pietà infinita per quella creatura la vinse trasformandosi in un pianto isterico, disperato, interrotto da grida di paura. Aveva perso il controllo.

L’unica cosa che notò con chiarezza, prima di sprofondare in una voragine di disperazione, furono i suoi occhi. Gli occhi neri dell’uomo che adesso la guardava sorridendo. Non lo aveva mai notato, ma le sembrò che in fondo allo sguardo di Rodolfo Marcellini si celasse un abisso oscuro e insondabile.