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Gli uffici della Fondazione Peccioli per l’arte, la cultura e la solidarietà erano in piazza del Popolo, accanto al maestoso campanile. Rambaldi si trovò a ragionare su quella strana collocazione, in attesa che qualcuno gli aprisse la porta. Di solito, le torri campanarie si trovano sul fronte o lungo la navata. Probabilmente era l’ingresso della chiesa a stare nel posto sbagliato. Non nella piazza principale del paese ma sul lato opposto, in una viuzza che dava sulla valle. Scegliendo quella posizione, forse, il progettista aveva voluto rimediare in qualche modo a questa anomalia.
Con lo scatto metallico della serratura elettrica, il portoncino si aprì su una ripida scalinata, in cima alla quale la dottoressa Agnese Sinibaldi lo attendeva, con le mani intrecciate e l’espressione ancora contrita.
«Venga, capitano. Andiamo nel mio ufficio.»
Rambaldi affrontò la prima rampa, cui facevano seguito una seconda e una terza, fino all’ufficio nel sottotetto. Era una stanza ampia, mansardata, con una scrivania e un tavolo ovale di vetro, circondato da sedie rosse.
«Si accomodi» lo invitò la donna, indicando la poltroncina di fronte alla sua. Dalle piccole finestre con persiane si intravedevano scorci di tetti coperti di coppi antichi e lo spicchio verde della valle. Alle pareti due stampe di nudi artistici.
«Conosceva bene la vittima? Lavorava da molto per voi?»
«Da quasi tre anni. Oltre a occuparsi del museo copriva dei turni nella nostra biblioteca e ci aiutava anche con l’Accademia Musicale.»
«Quanti siete nella Fondazione?»
«Io la dirigo e ci sono altre otto persone per quanto riguarda il personale a tempo pieno. Poi abbiamo una serie di collaboratori esterni che danno una mano nelle attività periodiche. In tutto siamo una quindicina.»
«Mi perdoni, una curiosità. Quindici persone che lavorano a progetti culturali in un paese di… quanti? Seimila abitanti?»
«Cinquemila. Vede, qui a Peccioli abbiamo fatto una scelta coraggiosa. Siamo un Comune che reinveste molte risorse nella valorizzazione del patrimonio artistico e culturale e nell’ammodernamento delle infrastrutture.»
«Capisco ma… Insomma, questi soldi… da dove arrivano?»
«Da un impianto di smaltimento rifiuti in località Legoli, che in parte è di proprietà del Comune. Assicura un flusso costante di entrate. La Fondazione è stata creata proprio per reinvestirle a beneficio della comunità. È nostra convinzione che valorizzando le eccellenze culturali e storiche del territorio si dia un impulso al turismo e ne benefici tutta l’economia della valle creando un circolo virtuoso.»
«Detta così sembra una specie di miracolo.»
«In parte lo è. Abbiamo tre musei, una biblioteca che propone eventi culturali per l’intero anno, un anfiteatro con un cartellone estivo da tutto esaurito, un’accademia musicale, laboratori di danza, di scrittura creativa, di attività per ragazzi. Insomma crediamo molto in quello che facciamo.»
«Sì, è chiaro. Se non le spiace, possiamo tornare alla ragazza?»
«Roberta Savio» precisò Agnese.
«Sì. È importante che mi dica quello che sa di lei. Chi frequentava, che tipo di persona era, le sue abitudini. Non si faccia problemi anche su aspetti della vita privata, se ne è al corrente. Resterà tutto tra noi. Adesso dobbiamo impiegare ogni briciolo di energia per catturare l’assassino, anche a costo di mettere da parte la privacy della vittima.»
«Vede dottore, il fatto è che Roberta era una ragazza molto tranquilla. Non saprei cosa dirle, cosa raccontarle. Non era fidanzata, non frequentava nessuno. Nei weekend tornava dai suoi a Pontedera. Viveva in paese ma era tanto riservata.»
«Cene, feste, pub, cose così? Era giovane.»
«Che io sappia non amava la vita mondana, per quanta ce ne possa essere a Peccioli. Le poche volte che abbiamo fatto qualcosa tra noi colleghi, ecco, restava sempre ai margini, non era una che socializzava troppo.»
«Sicuro che non frequentasse nessuno? Non le risultano fidanzati, amanti…»
«Guardi, le assicuro… Però posso parlare con le ragazze, chiedere se ne sanno di più. Può darsi che con qualcuna di loro Roberta si fosse aperta.»
«Le ragazze?»
«Le mie collaboratrici, saranno qui a momenti. Mio Dio, come faccio a dirglielo!» Agnese Sinibaldi si coprì il viso con le mani, tirò un gran sospiro e iniziò a singhiozzare.
«Agnese, stia tranquilla. Lo faccia per me. Ho bisogno che mantenga i nervi saldi e che mi dia tutta la collaborazione possibile. Più tardi manderò il maresciallo a sentire le sue ragazze.»
«Va bene, capitano.»
«Un’ultima cosa. Mi consigli un albergo in paese. Ho lasciato l’appartamento a Pisa e ho bisogno di un posto per pochi giorni, fino alla fine delle indagini.»
«Capitano,» disse rialzando lo sguardo «la Fondazione dispone di due appartamenti uso foresteria. Siamo felici di metterne uno a sua disposizione.»
«Grazie, non posso accettare. Un albergo andrà benissimo.»
«Niente affatto» adesso era risoluta. «Sono alloggi vuoti per buona parte dell’anno. Li usiamo per ospitare gli artisti durante la stagione estiva. Faccio sistemare subito uno dei due e le mando le chiavi nell’ufficio del maresciallo Santamaria.»
Alla fine Rambaldi fu costretto ad accettare. Lasciò gli uffici della Fondazione per ritrovarsi in piazza del Popolo e constatare che una pioggia fitta e fastidiosa aveva iniziato a flagellare il paese.
Cazzo… ci mancava pure questa.
Alzò il bavero del giubbotto. Sotto ai portici di un antico palazzo, che faceva da spartiacque alle due strade che si addentravano nel paese, c’era un bar. L’idea di un caffè e un cornetto non gli sembrava da scartare, visto che aveva saltato la colazione.
Guardò l’orologio al polso, erano quasi le 11.
Con poche falcate raggiunse il portico e schivò i tavolini, occupati perlopiù da anziani che leggevano quotidiani sportivi. In quello all’angolo più lontano notò un uomo, poteva avere fra i sessanta e i settant’anni. Aveva barba e capelli cortissimi, bianchi, e sembrava in buona forma fisica. Sorseggiava un caffè con lo sguardo basso, ma Rambaldi si era accorto che lo stava osservando da quando era uscito dagli uffici della Fondazione. Poi i loro occhi si erano incontrati e l’uomo aveva distolto lo sguardo fingendo indifferenza.
«Un caffè macchiato e un cornetto alla marmellata, per favore» disse l’ufficiale alla giovane dietro al bancone.
«Subito.»
«Me li porta fuori?»
«Certo, si accomodi.»
Allo specchio dietro alla cassa, Rambaldi notò un gagliardetto della AS Roma e una fotografia autografata da Francesco Totti. Era strano per un paese in provincia di Pisa. Erano passati almeno vent’anni, dal baretto a Tor Tre Teste, il suo quartiere tra la Prenestina e la Casilina. Palazzine di edilizia popolare ammassate una sull’altra a ridosso del raccordo anulare. Anche allora c’erano le immagini del capitano.
Sorrise alla cassiera, e se non fosse stato per il tipo al tavolino le avrebbe chiesto il perché di quella foto. Ma c’era qualcosa che lo aveva messo in allarme negli occhi di quel vecchio. Uscì dal bar per trovare un posto che gli permettesse di osservarlo, ma il suo tavolino ora era vuoto. Rambaldi si sporse oltre le colonne del portico, sotto la pioggia. Dalla piazza si diramavano diverse strade.
Dell’uomo, però, non c’era traccia.