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Rambaldi sospettava che Santamaria avesse un debole per la direttrice della Fondazione. Quando lei era presente o ne parlavano, vedeva accendersi, negli occhi del maresciallo, una specie di luce. Agnese Sinibaldi era una cinquantenne dal fascino discreto e con un’eleganza ricercata, il tipo di donna che può far girare la testa a parecchi uomini. Per questo decise di essere lui a sentirla e di lasciare a Santamaria l’onere di interrogare Giuditta Natale. Per evitare che le donne potessero concordare una versione dei fatti, o mettersi in guardia a vicenda, decisero che i colloqui si sarebbero svolti contemporaneamente.
Prima di lasciare la stazione Carabinieri, Mauro fece una domanda al maresciallo: «Mi dica una cosa, Santamaria… Il sindaco, Duccio Mascagni. Che tipo è?».
«Perché, ha qualche sospetto su di lui?»
«Ma no, è solo che… non so, mi sembra strano. Come se avesse paura di qualcosa. Questa sua fissa di essere tenuto al corrente di tutto quello che facciamo, mi suona strana. Ha chiamato Brogi per chiedergli di parlare con me, poi mi è sembrato reticente, come se volesse dirmi qualcosa ma non ne avesse il coraggio. Le risulta che abbia degli scheletri nell’armadio?»
«Be’, potrei raccontarle un pettegolezzo che in paese è sulla bocca di tutti… Ma non so quanto possa avere a che fare col caso.»
Mauro immaginò di cosa potesse trattarsi ma decise di fingere di non sapere. Preferiva tenere le rivelazioni di Daria per sé, glielo aveva promesso. «Non si preoccupi di questo. Ho bisogno di inquadrare meglio il tipo, mi dica quello che sa. Ovviamente resterà tra queste mura.»
«Mascagni è vedovo da undici anni» disse Santamaria. «È proprietario di un importante studio di fotografia pubblicitaria a Pisa. Ha due figli poco più che ventenni, uno studia all’estero, l’altro frequenta Medicina a Bologna.»
Mauro ascoltava, in attesa che il maresciallo arrivasse al punto.
«Pare che da qualche tempo abbia una tresca con una donna. Il problema è che lei non è libera. Anche se tutti dicono che tra lei e il marito sia finita da un pezzo. Insomma, che convivono come fratelli, ecco.»
«Vada avanti.»
«La donna in questione… è Paola Corsi, la moglie del professor Barani. Sono i due della visita al museo, ricorda il filmato?»
«Certo» annuì Rambaldi.
«Serse Barani, come le ho già detto, è primario di neurochirurgia della clinica universitaria di Pisa. Ma la cosa più imbarazzante di questa storia è che lui e il sindaco si conoscono e si frequentano da una vita. Capisce la situazione? Pare che Mascagni sia lacerato fra il sentimento di amicizia e quello d’amore. Comunque è una tresca nota a tutti, sono stati visti insieme parecchie volte fuori dal paese… è il classico caso in cui il marito è l’unico a non sapere.»
«O forse sa benissimo ma finge.»
«Ancora più probabile.»
«Perché non me ne ha parlato quando abbiamo visto il filmato?»
«Forse ho sbagliato, ma non volevo essere inopportuno. E poi, fino a prova contraria, sono voci… Insomma, io ’un l’ho mai visti dal vivo a trombare, quei due.»
«Va bene,» sorrise Rambaldi «la ringrazio. Forse è questa situazione personale difficile che rende nervoso Mascagni e lo spinge a comportarsi in modo strano. Noi ci rivediamo qui, dopo aver parlato con queste due. E tiriamo le somme.»
Mauro aveva chiesto alla Sinibaldi di incontrarsi negli uffici della Fondazione, senza spiegarle il motivo, mentre il maresciallo mandò i carabinieri Surricchio e Varricchio a prelevare la Natale impegnata con le prove dei piccoli allievi all’accademia musicale.
«Mi spiace disturbarla di sabato» esordì Rambaldi sedendosi di fronte alla scrivania della direttrice.
«Non si preoccupi capitano. Questa cosa di Roberta ci ha sconvolti tutti, ma abbiamo degli impegni, tante attività da portare avanti e dobbiamo trovare la forza per concentrarci.»
«C’è qualcosa di poco chiaro nelle ultime ore di vita della vittima. Abbiamo notato, dai filmati, che la mattina di lunedì lei era al museo con una sua collaboratrice.»
«Sì, certo. Ne avevamo parlato. Ero con Giuditta Natale, abbiamo sistemato i nuovi dépliant con il programma del festival della Valdera.»
«A proposito dei filmati, c’è un particolare che riguarda il tablet della vittima.» La frase era quella che in gergo si chiamava esca. Mauro l’aveva lanciata per sondare la reazione della donna. La comunicazione non verbale, per lui, era la parte fondamentale di un interrogatorio.
«Il tablet?» rispose lei spostandosi appena sulla sedia. «Cosa intende? Non capisco.»
«Lo sa che Roberta Savio ne aveva uno?»
«Veramente… Tutte le collaboratrici della Fondazione ce l’hanno, lo forniamo d’ufficio, per uso lavorativo. Qualche volta l’ho anche vista usarlo, ma non ci giurerei. Perché me lo chiede?»
«Cerchi di ricordare. Quella mattina, lei ha visto Roberta con quel tablet?»
«Oddio, mi faccia pensare. No, credo di no. Quando siamo arrivate, si è messa subito a disposizione per darci una mano. Abbiamo spostato un po’ di roba e abbiamo controllato del materiale informativo da buttare e sostituire con quello nuovo.»
«Dottoressa Sinibaldi, abbiamo motivo di credere che durante la vostra permanenza al museo il tablet di Roberta Savio sia stato rubato.»
«Rubato? E da chi?». Di colpo s’irrigidì. «Voglio sperare che lei non pensi… cioè, mi sta dicendo che sono sospettata di furto?»
«No. Ma ho bisogno di fare chiarezza grazie alla sua collaborazione. Mi aiuti a capire cosa può essere accaduto. Magari ha visto, ha notato qualcosa del quale, sul momento, non si è resa conto ma che oggi, a mente fredda, può contestualizzare.»
«Aspetti, ho capito bene? Vuole sapere se ho visto Giuditta prendere il tablet di Roberta?»
«Dottoressa, se avessi dubitato di lei ora sarei a fare queste domande a Giuditta Natale. Invece sono qui, per darle modo di essere la prima a rilasciare una dichiarazione. Ci pensi bene. E se domani fosse la sua collega ad affermare di aver visto lei fare qualcosa di strano? Glielo ripeto, ha notato qualcosa di anomalo quella mattina?»
«Non capisco» balbettò Giuditta Natale. «Devo chiamare un avvocato?»
«Avvocato?» ribatté il maresciallo Santamaria fingendosi stupito. «Cosa dice? Non la sto mica interrogando. Lei non è accusata di niente. Ho solo bisogno di informazioni che riguardano i suoi ultimi contatti con la vittima. I miei uomini le hanno detto che non era costretta a seguirli, vero?»
«Sì, me l’hanno detto» rispose la donna «ma hanno detto anche che era importante e che lei sarebbe stato molto grato.»
«E infatti lo sono. La ringrazio per questa chiacchierata.»
Erano seduti nell’ufficio del maresciallo, alla stazione Carabinieri di Peccioli. Giuditta Natale indossava un vestito nero di maglia e sneakers bordeaux. I suoi trent’anni si riassumevano tutti nei capelli castani raccolti in una treccia e in quell’aspetto un po’ trasandato. Santamaria si ritrovò a pensare che con un look diverso e un po’ di cura personale sarebbe stata una ragazza attraente.
«Ecco, in realtà, guardando i filmati dell’ultimo giorno di vita di Roberta Savio, abbiamo notato un particolare.»
«Cioè?» lo incalzò la Natale.
«Il tablet della vittima. Le è stato sottratto sotto lo sguardo delle telecamere.»
Santamaria fissò la donna negli occhi, sperando che la pausa la costringesse a tradirsi.
«Le telecamere. Vuol dire che hanno ripreso il ladro?»
«Non esattamente. Sappiamo per certo, però, che prima del vostro arrivo al museo il tablet c’era e quando siete andate via non c’era più.»
Giuditta Natale sembrava confusa. «Ma, maresciallo, vuol dire che siamo sospettate? Io e Agnese?»
«Non sto dicendo questo, vorrei invece sapere cosa ricorda lei di quel tablet. Ha visto Roberta che lo usava? L’ha vista che lo lasciava da qualche parte? Lei è forse entrata in contatto, involontariamente, con quello strumento? Faccia uno sforzo di memoria, ogni particolare, ogni ricordo, può esserci utile.»
«Io… Non ricordo. Quando siamo arrivate, Roberta ci ha accolte e si è messa a disposizione per aiutarci. Alla fine ci siamo salutate, prima di andare via. Siamo state insieme per tutto il tempo.»
«Vi siete trattenute al museo poco più di mezz’ora. È sicura, in quel lasso di tempo, di non aver mai perso di vista Roberta? O la direttrice?»
«Oddio, non lo so. Ricordo che Agnese è andata in bagno, mi pare. E Roberta ha risposto a una telefonata. No, aspetti. Ha detto che doveva fare una telefonata urgente. Ma sono rimaste via tutt’e due solo per qualche minuto.»
«Giuditta, non si preoccupi di coinvolgere altre persone o di correre un rischio. In questa stanza ci siamo solo io e lei, stiamo parlando ufficiosamente, senza verbalizzare nulla. Se ha visto o intuito qualcosa che adesso non le torna, me lo dica. Le assicuro che non sarà coinvolta.»
«Maresciallo, io vorrei aiutarla, davvero, ma non so nulla di questo tablet.»
Più tardi, rimasta sola, Agnese Sinibaldi selezionò un contatto dalla rubrica del cellulare.
«Pronto? Giuditta? Dove sei?»
«A casa, sono appena tornata. Il maresciallo mi ha mandata a prendere in accademia, mi ha chiesto del tablet di Roberta. Mi stava accusando, o mi stava spingendo ad accusare te. Di averlo rubato. Agnese che sta succedendo? Ho paura!»
«No, devi stare calma, non farti prendere dall’ansia, ragiona. Hanno fatto lo stesso con me, è stato qui il capitano Rambaldi. Giuditta, vogliono che ci accusiamo a vicenda, non dobbiamo cadere nella trappola.»
«Trappola? Io non… perché pensano che abbiamo fatto qualcosa di male? Che prove hanno, che motivo c’è di trattarci in questo modo?»
«Nessuna prova e nessun movente. Le indagini girano a vuoto e loro cercano un capro espiatorio. L’importante è che manteniamo il sangue freddo e continuiamo a dare la stessa versione. Non sappiamo niente di quel tablet, non l’ho preso io, non l’hai preso tu. E non abbiamo visto nulla l’una dell’altra che possa far pensare il contrario. Mi hai capito bene? Nulla.»
«Sì, sì, ho capito. Non abbiamo fatto e visto niente.»
«Ecco, brava. Mantieni il controllo. E non contraddirti quando sei con loro, è chiaro?»
«Sì… sì, è chiaro.»
«E d’ora in poi evitiamo di parlarne al telefono. Se ci sono novità ci messaggiamo e ci diamo appuntamento qui alla Fondazione per discuterne di persona. Va bene?»
«Va bene. Ho capito.»
Agnese Sinibaldi chiuse la comunicazione. Era certa che quella del tablet fosse una scusa di Rambaldi per portarla a tradirsi su un’altra questione. Ma come avrebbe potuto scoprirlo? Era a Peccioli solo da pochi giorni… No, era impossibile. Doveva restare calma. Nessuno avrebbe scoperto il suo segreto. Mai.
Giuditta posò il telefono sul tavolo del piccolo soggiorno cucina e rimase a osservarlo per un minuto. Girò per la stanza, tormentandosi le mani mentre fissava il vuoto con gli occhi spalancati. Cercò di raccogliere le idee, di diradare la nebbia che le offuscava la mente. Sentiva il bisogno di chiamare qualcuno per essere rassicurata, ma non poteva farlo. Perché quella persona, forse, nascondeva dei segreti che avrebbero potuto metterla in pericolo. Era proprio lei la causa delle sue paure.
Lentamente, come al seguito di una processione, Giuditta si spostò verso la sua stanza da letto. Il comò antico, quello della mamma, con il piano di marmo. L’unico mobile di pregio in quell’appartamento in affitto, arredato con un mix tra Ikea e mobili usati. Un traguardo ambito, l’indipendenza, che si era trasformato in disillusione. Perché quando, finalmente, era riuscita a stare da sola, si era accorta che ciò che desiderava davvero era essere amata. Giuditta quell’amore l’aveva trovato, o almeno così pensava. Perché dopo i fatti degli ultimi giorni, non ne era più tanto sicura.
Con entrambe le mani afferrò le maniglie in ottone dell’enorme cassetto e lo tirò a sé. All’interno la sua biancheria, ripiegata con ordine. Spostò una pila di slip e delle calzamaglie nere. Era rimasto lì, dove lo aveva riposto, sul fondo del cassetto.
Il tablet bianco di Roberta Savio.