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Marra riemerse dal dormiveglia con la sensazione di essere passato dall’incubo a una realtà ancora più orribile. Era legato a una sedia di ferro, le braccia e le gambe bloccate da nastro adesivo marrone. Ne aveva un paio di giri anche intorno alla testa e alla bocca. Era in una stanza buia, vuota. Un garage forse. L’unica flebile luce trapelava dalle imperfezioni del telaio di una porta basculante in ferro, ed era la prova che ormai era mattina. A qualche metro da lui c’era l’Harley-Davidson. Il serbatoio ammaccato ma, tutto sommato, in buone condizioni.
Il locale era umido e freddo. Saverio aveva fame, sete e sentiva delle fitte ai muscoli e alla schiena, causate dalla immobilità forzata. La testa gli pulsava di un dolore intenso, insopportabile. La vescica aveva ceduto qualche ora prima e l’odore di urina gli provocava conati di vomito, ma sapeva che se fosse accaduto, con la bocca tappata dal nastro adesivo, sarebbe morto soffocato. La disperazione si scioglieva nelle lacrime che gli bagnavano le guance. Perché? Perché era uscito in moto prima dell’alba? Aveva imboccato la provinciale 64 con la rabbia in corpo e dopo due chilometri aveva sentito un suono potente alle sue spalle, un animale meccanico che lo braccava.
Il SUV lo aveva speronato a meno di un chilometro dal campo d’aviazione della Valdera. Era finito dentro a una cunetta procurandosi escoriazioni e lividi su tutto il corpo. Poi quella botta in testa che lo aveva mandato KO, regalandogli una commozione cerebrale. Era stato Sergio Turzi a colpirlo. Ricordava perfettamente la sensazione provata quando gli aveva strappato il passamontagna dalla testa, mentre lui gli sfilava il portafogli dalle tasche, pensando che fosse svenuto. Si era trovato davanti gli occhi neri di quel bastardo che incombeva su di lui, sorpreso di essere stato smascherato. Si chiese se la sua Harley fosse in grado di camminare o se avesse subito danni alla meccanica. Poi realizzò che al momento era l’ultimo dei suoi problemi. Che volevano? Perché rapirlo dopo averlo quasi ammazzato? Una vendetta se l’aspettava, ma questo… Forse Turzi non aveva messo in conto di essere riconosciuto, dato che indossava il passamontagna. Ma ora… lui e Baldacci non lo avrebbero lasciato vivo. Con quella certezza nel cuore, Saverio si ritrovò a ripercorrere tutta la vita in una manciata di secondi. Le umiliazioni da bambino, l’aspetto goffo e l’incapacità negli sport, il miraggio di diventare una rockstar, mortificato dagli scarsi risultati come cantante di una band speed metal. Ancora, la passione per moto che non poteva permettersi, infine la scoperta di un talento naturale per i romanzi rosa.
Era iniziato tutto per caso, quando trent’anni prima aveva letto di un concorso indetto dalla rivista femminile «Interludio» a cui era abbonata la madre. In bagno non c’era altro quel giorno e, dopo averci riflettuto su, aveva deciso di partecipare con uno pseudonimo. I mille euro di premio gli facevano gola, mentre della pubblicazione non gliene fregava nulla. Il suo Il vento caldo della passione arrivò primo e fu subito contattato dall’editore che gli propose di scrivere una serie di racconti per la rivista, a cadenza mensile. Saverio accettò e quelli furono i primi veri soldi che vedeva. Da lì al romanzo d’esordio passò meno di un anno e scoprì di avere un dono per la scrittura che non immaginava. Ma erano quelle storie che gli venivano benissimo, la sua fantasia volava sicura tra gli scenari esotici e le scene di sesso. Castigate quel tanto da incontrare il gusto semplice delle lettrici della rivista. In pochi anni divenne famoso, fu pubblicato all’estero, e da una sua serie di romanzi trassero una soap opera in Sud America (della quale non vide mai nemmeno una puntata). Grazie ai servigi di un agente letterario milanese, riuscì a mantenere l’anonimato sulla sua identità. Il nome d’arte che aveva scelto, H.D. Glide, gli ricordava la passione per le moto che, finalmente, poteva permettersi. Ma non provava soddisfazione a scrivere quella roba, d’altra parte non aveva velleità letterarie, né desiderava cimentarsi con romanzi mainstream. Voleva essere un motociclista, sentirsi libero come il vento.
Fu per quella passione anarchica che immaginò la sua crew, i Nómadas. Grazie a una cospicua disponibilità economica, attirò una decina di motociclisti spiantati che non avevano nulla da perdere. Fece realizzare le divise, prese in affitto una sede, provò a inventarsi una gerarchia in cui si era riservato il ruolo di capo in quanto socio fondatore. Quell’idea, però, dovette scontrarsi con la durezza della realtà. Le strade provinciali della Valdera non avevano nulla in comune con la route 66, e lo spirito del gruppo si affievolì in parallelo con il passaggio dalle bevute inaugurali a un progetto di vita romantico e strampalato. Quando alla fine si accorse che i pochi accoliti rimasti si erano dati allo spaccio, Saverio decise di tirarsene fuori. Lo smacco finale fu vedere il marchio dei Nómadas sulle spalle di un gruppo di bestie abituate a fare dentro e fuori dalle patrie galere. L’unica consolazione era la vita agiata, fatta di ozio e di viaggi all’estero, che gli era capitata in sorte e che lo portava in giro per il mondo fra un romanzo e l’altro della collana Lovely.
La porta basculante si aprì e Saverio si risvegliò da quel sogno a occhi aperti. Due uomini entrarono e la richiusero. Li aveva riconosciuti. Erano le ultime persone che si sarebbe aspettato di rivedere prima di essere ucciso.
Sergio Turzi e Massimo Baldacci giunsero nella frazione di Ghizzano, in via di Mezzo, poco prima delle nove. Era una strada in salita con le facciate delle case dipinte di recente nei toni caldi del giallo, del verde e del marrone. Quella scala cromatica creava uno strano effetto sui vecchi edifici, un piacevolissimo contrasto fra moderno e antico. Tutto il borgo era stato riqualificato su delibera dall’amministrazione comunale di Peccioli per ospitare un’esposizione permanente di installazioni d’arte contemporanea, realizzate da artisti provenienti da tutto il mondo.
Dopo aver portato Marra nel garage e averlo immobilizzato, i due Nómadas si erano allontanati a bordo del SUV e avevano discusso a lungo sul da farsi. All’inizio la loro idea era quella di dare una lezione a Marra, rubargli la moto, per rivenderla, e saccheggiargli la casa. Contavano di piazzare la Harley a un carrozziere di Scandicci, che trafficava auto rubate, a un terzo del valore di mercato. Avrebbero diviso in parti uguali. L’arresto di Guido Ponziani e Alberto Rubini, gli altri due Nómadas fermati alla chiesa di San Giorgio a Cedri per spaccio cinque giorni prima, era stato un duro colpo. Era Ponziani a tenere i contatti con i fornitori e con lui fuori dai giochi sarebbe stato difficile continuare a spacciare. C’era poi quel carabiniere, il capitano Rambaldi, che gli teneva il fiato sul collo. Dovevano sparire, cambiare zona, scordarsi dei Nómadas e di tutte le cazzate che si portavano dietro. Ricominciare da un’altra parte, prendendo ciascuno la propria strada per far perdere le tracce.
E poi c’era la questione degli omicidi. Si sa come funziona in questi casi, quando non trovi il vero colpevole è comodo scaricare le colpe sui primi che capitano a tiro.
Dal momento che Marra li aveva scoperti, strappando il passamontagna a Turzi, le cose erano precipitate. Ora, fare fuori quel ciccione era l’unica possibilità di uscirne puliti. Non era una buona idea, questo lo sapevano entrambi. Sarebbero stati da subito i principali indiziati. Per questo dovevano occultare il cadavere nel modo migliore possibile. Niente corpo, niente processo. Lo avrebbero soffocato, fatto a pezzi, infilato in quattro buste di plastica e sepolto sotto un paio di metri di terra, vicino alla discarica di Legoli, una zona non edificabile dove nessuno lo avrebbe mai più dissotterrato. Con un po’ di fortuna, la scomparsa di Marra sarebbe stata interpretata come una fuga, un’ammissione di responsabilità per gli omicidi di Peccioli. Forse il piano aveva qualche lacuna ma era il migliore che i due bikers erano riusciti a mettere in piedi, dopo oltre due ore di discussione. Si sarebbero occupati subito di Marra, per poi disfarsi del suo corpo di notte, al riparo da sguardi indiscreti. Mentre Baldacci controllava che in via di Mezzo non passasse nessuno, Turzi aprì la basculante ed entrò, trascinando un pesante borsone di tela. Baldacci lo seguì e si richiuse la porta alle spalle. Quando accesero la luce, si accorsero che il prigioniero non aveva più il nastro adesivo sulla bocca.
«Ma che cazz…» esclamò Turzi.
«Buongiorno stronzi» li salutò Mauro Rambaldi. Lo stesso fece la sua semiautomatica.
«Non vi muovete» gli fece eco il brigadiere Corda che imbracciava un mitragliatore Beretta PM12 «o lo Stato si risparmierà le spese di processo e detenzione».
La basculante si aprì di nuovo ed entrò l’appuntato Bruno Galassi che la lasciò aperta. Anche lui aveva un PM12 puntato sui due motociclisti.
«Schifosi» urlò Sergio Turzi. «Siete bravi con le armi in mano, tre contro due…» Rambaldi non aspettava altro. Porse la pistola a Galassi e si avvicinò a Turzi. «Che hai detto, coglione?»
L’uomo non se l’aspettava. Provò a scagliare un pugno a Rambaldi che lo schivò e lasciò partire una testata al mento. Turzi sentì le gambe scomparirgli da sotto il corpo e cercò di rimanere su. Con un montante allo zigomo destro, Rambaldi lo buttò per terra. Baldacci assistette alla scena con le braccia larghe, sotto la mira incrociata di Corda e Galassi.
Rambaldi si accovacciò e aprì la chiusura lampo del borsone. Conteneva sacchi di plastica, corde, nastro adesivo e due seghe ad arco. Alzò lo sguardo verso Baldacci e scosse il capo. «Spiegami una cosa, coglione numero due. Come pensavate di fare per i cinque litri di sangue di Marra? Non lo immaginate nemmeno il lago che fa un corpo umano tagliato a pezzi.»
Baldacci scosse la testa, gli occhi spalancati. Non sapeva che dire, era nel pallone. Rambaldi si rialzò e gli si fece vicino. «Allora? Ci avevate pensato o no?»
Prima che potesse aprire la bocca, un gancio lo centrò nello stomaco spezzandogli il fiato e piegandolo in due. L’uomo cadde in ginocchio tenendosi le mani sul ventre, incapace di urlare per il dolore.
«Le manette» disse Rambaldi ai suoi. «Portateli a Peccioli. Io accompagno Marra all’ospedale e vi raggiungo.»
«Comandi, signor capitano!» rispose il brigadiere Corda, impressionato per la scena a cui aveva appena assistito.
Marra si alzò dalla sedia e si appoggiò al braccio che gli porgeva Rambaldi. Appena fuori dal garage, l’aria del mattino lo sfiorò con una carezza che non gli era mai sembrata così piacevole.