29
Mi svegliai nervosa e di cattivo umore, come se la pelle non fosse più abbastanza ampia per il mio corpo. Non c’era da meravigliarsi, data la situazione di stallo delle investigazioni e la mia invidiabile vita personale. Pioveva a catinelle, così abbandonai l’idea di fare jogging. Ed ero francamente troppo seccata per guidare fino alla palestra.
Dopo un bagel e un caffè, con una tuta comoda addosso e un paio di pantofole a forma di coniglietto, mi misi di buzzo buono al tavolo della sala da pranzo, determinata a non muovermi fino a quando non avessi spulciato ogni singola stupidissima ricevuta. Almeno mi sarei tolta Allan Fink dalle scatole.
Verso le quattro avevo quasi deciso che tirare a sorte e rischiare un controllo fiscale era preferibile a quella punizione terrena in forma cartacea. Stavo tentando di decifrare uno scontrino illeggibile di un ristorante di cui non avevo mai sentito parlare, quando sentii bussare alla porta sul retro con un colpo secco. Deliziata da questa inattesa occasione di fuga, mi diressi verso la cucina.
E rimasi di sale prima di aprire la porta a vento. Dalla finestra vidi una figura che aspettava. Alta. Un uomo. Che indossava jeans e una giacca di pelle marrone consumata.
Un nodo mi strinse lo stomaco. Mi sentivo ancora male, anzi peggio di prima perché adesso avevo gli occhi affaticati. L’ultima cosa che mi serviva era il rancore o uno scontro. Ma qualcos’altro faceva capolino dietro il cattivo presentimento che mi si era gonfiato in petto. Qualcosa che volteggiò leggero, come una farfalla su una foglia.
Andai ad aprire la porta. «Sorpresa, sorpresa!» Il tono era un po’ troppo vivace. Ryan tirò fuori un bouquet da dietro la schiena. «Speciale supermarket. Il meglio che il mio autista ha potuto fare.»
«Grazie.» Presi i fiori. «Sono bellissimi.»
«Tu sei bellissima.»
«Be’…»
Fin da quando ci siamo conosciuti, Ryan ha sempre avuto la straordinaria capacità di saltare fuori quando il mio aspetto tocca i minimi storici. Consapevole di ciò, dei capelli a coda di topo e dell’assenza di trucco, feci un passo indietro.
Ryan entrò in cucina. Ci baciammo. Lo invitai ad accomodarsi al tavolo con un gesto. Si tolse la giacca e si sedette. Notai che aveva con sé solo una sacca da marinaio molto piccola.
«Non posso credere che tu sia qui» dissi.
«Sì. Ho preso il volo all’alba. Meglio questo che dover fare il cambio.»
Aveva un’aria stanca. Mi chiedevo dove fosse stato dal momento dell’atterraggio, avvenuto a metà mattina.
«Ti andrebbe una birra? O qualcos’altro?»
Ryan scosse la testa.
«Sei in missione segreta» dissi. «Non ti sei fatto sfuggire niente, ieri sera al telefono.»
«Ieri sera non lo sapevo. È stato un impulso improvviso, spero vada bene per te.»
«Ma certo.» Eravamo lontani da quel «ma certo». Benché felice che avesse fatto il tentativo, mi sentivo… come? In un’imboscata? Sotto pressione? Decisamente sotto pressione.
Muovendomi con compostezza artefatta, presi un vaso dalla dispensa. Aprii il rubinetto. Riempii d’acqua il vaso.
«Ho pensato che sarebbe stato meglio parlare di persona» disse Ryan alle mie spalle.
Stavo per sputare fuori un’osservazione impertinente. La mia solita reazione all’ansia. Invece liberai i fiori dalla carta.
Ryan andò dritto al punto.
«Ti ho scritto una lettera, Tempe, un ottocentesco comunicato con penna e inchiostro perché volasse da te grazie a francobolli, aviazione e sudore umano.»
Continuai a districare e sistemare boccioli.
«L’ho strappata. Erano solo parole su carta. Difficilmente sarebbero state espressive.»
«Non ti svendere, Ryan. Scrivi in maniera eccellente.»
Lo udii prendere fiato come se stesse per parlare. Una pausa, poi lasciò perdere e la sedia scricchiolò sommessamente.
Mi volsi a guardarlo.
Ryan mi osservò, con gli stupendi occhi blu completamente persi nei miei.
«Mi dispiace, Tempe. Mi dispiace per tutto. Perché cerco di fare di te quello che io voglio che tu sia. Per essere meno di quello che tu vuoi che io sia. Per amare cose e luoghi che ci tengono lontani. Per averti lasciata la prima volta. Per essere scappato quando Lily morì.»
«Ryan…» Il cuore cominciò ad accelerare il battito.
«Ti amo, Tempe. Sono venuto qui per dirtelo. Solo questo. E per prometterti che non ti ferirò mai più.»
Aprii le labbra per rispondere. Ma non riuscii a trovare le parole. Passarono i secondi sull’orologio da camino della nonna.
«Niente da dire?» Il tono di Ryan non aveva la benché minima nota di impazienza.
«Sto aspettando la parte che inizia con “ma”.»
«Niente “ma”. Ti amo.»
«Questo significa che resterai a cena?» Mi pentii non appena ebbi pronunciato la frase.
La testa gli cadde e rimase penzoloni un istante. Quando la rialzò mi osservò con uno sguardo di ostinata imperturbabilità. Nei suoi occhi c’era anche dell’altro. Compassione. Dolcezza. O forse rimorso?
«Pete ti ha ferito. Ma io non sono Pete. Ti ferisco. Questo non posso cambiarlo. Ma io sono cambiato.»
Stavo per rispondere. Alzò una mano per fermarmi.
«So che hai degli obblighi. Katy. Tua madre. Il tuo lavoro. Responsabilità che ti tengono qui tanto strettamente quanto io sono legato al Québec. Ma possiamo fare in modo che funzioni.»
Deglutii, non fidandomi di quello che stavo per dire.
«Non ti tradirò mai, Tempe.»
Avevo la sensazione che mi fosse stato iniettato azoto liquido nel sangue. Avevo già sentito quella promessa. La stessa identica frase.
Ryan notò l’espressione del mio viso. Si alzò e raccolse la sua sacca.
«Aspetta» dissi dolcemente.
Si fermò. Emozioni contrastanti mi inceppavano i circuiti. I secondi passarono. Un intero minuto. Non uscì un suono dalle mie labbra.
«Va bene, Tempe.»
«No. Non va bene. Tu hai ragione. Sono rimasta paralizzata dall’indecisione. È infantile. Sono indulgente con me e ingiusta con te.»
«Capisco.»
«Ah, sì? Io no.» Subito le parole sgorgarono, risuonando forte come l’acqua che scava la gola di montagna. «Lo so che ti amo. Che sono più felice quando sono con te. Non perché mi compri i fiori o mi fai ridere. O perché condividi la mia passione per Giacometti o per la Guida galattica per gli autostoppisti. Non ti voglio semplicemente bene. Mi piaci veramente. Ti ammiro e ti rispetto. E, la maggior parte delle volte, tu rispetti me.»
«La maggior parte?»
«Mi riferisco alle volte in cui mi sono trovata in difficoltà e Ryan è arrivato al galoppo, armi in pugno. Letteralmente. Il tuo impulso di portarmi in salvo mi terrorizza, Ryan. Forse non pensi a me come a una persona capace di intendere e di volere.»
«Intendi quando sono intervenuto mentre qualche canaglia stava per spararti addosso?»
«Per esempio» risposi, sulla difensiva.
«Non voglio che tu ti faccia male.»
«E io non voglio farmi male. Ma il tuo essere così iperprotettivo sembra voler dire che non so badare a me stessa. Che non sono capace di gestire situazioni difficili per conto mio. Ti amo, Ryan. Ma ho bisogno della mia autonomia. Ho bisogno di sapere che posso fare affidamento su di me.»
«Questo è tutto? Non devo più assumermi il compito di poliziotto per il salvataggio di routine?»
«Questa è solo una parte del problema.» Aiuto! Qual era il resto? Ci dovetti pensare un attimo. Poi: «Se dovesse succedere qualcosa a Katy, cercherei le persone che amo. Mia madre, Harry, forse te». Mi sentivo le guance infiammate, ma non potevo più tornare indietro. «Quando Lily morì, mi buttasti via come un sacchetto di immondizia.»
Ryan tentò di interrompermi. Procedevo spedita.
«Non ho bisogno di te nella mia vita, Ryan. Ho imparato a vivere senza di te una volta. Due volte. Non mi è piaciuto, ma sono sopravvissuta.» Il tempo di un respiro veloce. «Non ho bisogno di protezione. Non mi serve una guardia del corpo. Voglio qualcuno che mi stia vicino sia fisicamente che emotivamente. Sia quando la vita va bene che quando va alle ortiche.»
«E tu dubiti della mia capacità di ricoprire quel ruolo?» Il suo tono di voce era piatto.
«Non lo so quello che penso, Ryan.» Feci un passo indietro e abbassai gli occhi fissando i morbidi coniglietti ai miei piedi.
Un silenzio molto lungo e molto pesante piombò tra di noi. Nessuno si mosse. L’orologio ticchettava.
Dopo un tempo che mi sembrò lungo una vita, alzai lo sguardo. La tristezza dipinta sul volto di Ryan quasi mi spezzò il cuore.
«Vuoi passare qui la notte?» chiesi, in un sussurro.
Qualcosa guizzò in quei tristi occhi blu come petali di iris, ma svanì prima che io potessi leggerne il significato. Ancora due ticchettii dall’orologio della nonna. Tre. Quattro. Poi le labbra di Ryan si mossero in un inaspettato risolino.
«Ho spedito il mio stimolante e persuasivo messaggio. Tu hai risposto con altrettanta eloquenza.» Spedito con una leggerezza che era ovviamente forzata. «Penso che adesso sia meglio per me levare le tende.»
«Non è quello che voglio.»
«Nemmeno io.» Le sue sopracciglia fecero qualche sobbalzo à la Groucho Marx.
«Allora…»
Ryan si avvicinò e mi baciò la guancia. Mi fermò una ciocca errante di capelli dietro l’orecchio. «Hai bisogno di stare per conto tuo.»
«Dove andrai?» chiesi.
«A casa.»
Anuii, a stento trattenendo le lacrime.
Santo cielo! Non piangere! Non osare piangere!
Prendendo dolcemente il mio mento nel palmo della sua mano, Ryan mi sollevò il viso fino a quando i miei occhi incontrarono i suoi.
«Siamo diversi da molti punti di vista, Tempe. Ma le nostre differenze sono complementari. Insieme eravamo migliori, più forti. Più della semplice somma di te e di me. Questo lo credo veramente.»
Morivo dalla voglia di gettargli le braccia al collo e di stringere la mia guancia sul suo petto. Ma adesso aveva una rigidità nelle spalle e una tensione sulle labbra che mi gelarono.
Dietro di me, dei passi solcarono il pavimento. Nella mia mente le parole entravano in collisione. Per conto tuo. E il tempo verbale scelto da Ryan. Eravamo. Eravamo.
La porta si aprì e si chiuse sommessamente.
Rimasi paralizzata, con un turbinio in testa e un fuoco che bruciava sotto le costole.
Ero sicura di aver dato un duro colpo alla felicità, ma incerta sul perché l’avessi fatto.