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La maggior parte delle autopsie seguono una routine standard. Dopo un esame esterno, viene praticata la leggendaria incisione a Y. Gli organi vengono rimossi, pesati ed esaminati. Si osservano i vasi sanguigni e i nervi principali.
Con la cavità addominale svuotata, si pratica un taglio a U intorno alla sommità della testa, da un orecchio all’altro. La parte anteriore dello scalpo viene abbassata sulla faccia e quella posteriore sul collo. Sul duro lato interno dello scalpo si cercano sangue e lividi, sulla superficie esterna del cranio graffi e fratture.
Poi si utilizza una sega chirurgica manuale. Si crea una calotta removibile e asimmetrica, per evitare lo scivolamento quando il cranio viene ricomposto e lo scalpo ricucito sulla testa.
La calotta viene staccata con uno strattone e un sonoro risucchio, mettendo così a nudo la dura madre, una spessa membrana che avvolge il cervello. Si esamina la dura madre alla ricerca di ematomi epidurali, ossia di sangue rappreso che può aver esercitato pressione sul cervello, causando la morte. Si cercano inoltre ematomi subdurali sul lato inferiore.
Anche se tutti parlano di «materia grigia», la superficie esterna del cervello in realtà è bianca e velata dall’aracnoide e dalla pia madre. A questo punto, si osservano le sottili ragnatele e fenditure del cervello allo scopo di individuare emorragie subaracnoidee, ovvero sanguinamenti intercraniali provocati dalla lacerazione dei delicati vasi superficiali a causa dell’urto violento del cervello contro il cranio.
Poi si inseriscono le dita sotto la fronte aperta, agganciando e sollevando i lobi frontali. Nervi e vasi sanguigni che si irradiano verso la faccia vengono recisi. Il tentorio del cervelletto (il lembo di dura madre che protegge il cervelletto e il tronco cerebrale, il «cervello rettiliano») viene tagliato.
Con un bisturi abbastanza lungo da raggiungere la base del cranio, si incide il midollo spinale e si estrae il cervello. Telencefalo, cervelletto e midollo allungato sono adesso nelle mani del patologo. Oppure nella calotta cranica, o forse in una ciotola di acciaio inossidabile usata come il guanto di un giocatore di baseball.
Il cervello viene immerso in una soluzione di formaldeide e, durante le due settimane successive, la sua consistenza cambia: all’inizio sembra quella della gelatina, dopo del formaggio. Una volta che ogni centimetro della sua complessa superficie è stata osservata, viene tagliato con un lungo coltello, più o meno come una salsiccia. Se ne studia la struttura interna fetta dopo fetta.
Niente di tutto questo, però, sarebbe accaduto con i resti trovati sul sentiero chiamato Coda del Diavolo.
Poiché non era necessaria la refrigerazione, le ossa, i frammenti di secchio e il cemento erano stati chiusi a chiave per il weekend nel deposito della contea di Avery. Ramsey aveva garantito di consegnare tutto lunedì di prima mattina. Aveva anche promesso di fare dei controlli su Mason Gulley.
Dopo aver lasciato la chiesa della Santità, Ramsey mi aveva accompagnata all’auto. Ero stata fornita da zia Ruby di una provvista di panini, biscotti e mele non richiesti. Avevo fatto una rapida incursione a Heatherhill Farm e poi ero tornata a casa.
Una volta giunta all’Annesso, avevo prenotato un volo per Montréal ed ero andata dritta a letto, senza concedere neanche un’occhiata all’accusatorio mucchio di carte abbandonate sul tavolo da pranzo. Il mattino dopo avevo attraversato di volata la cucina ed ero uscita di casa senza indugio.
Per la centesima volta, guardai l’ora. Dieci e diciassette. Impaziente, telefonai a Ramsey. Disse che era al laboratorio forense del Dipartimento di polizia di Charlotte-Mecklenburg per lasciare il secchio. Contava di arrivare all’MCME nel giro di mezz’ora.
In molte giurisdizioni, nei weekend arrivano le buste paga, oltre che il tempo per i momenti di ozio e le bevute. Papino si sbronza e le suona a mammina col frullatore. Junior si spara una confezione da sei di birra e va a schiantarsi a centocinquanta all’ora nella Camaro di un amico. La sorellina esce da un bar per farsi una striscia di droga e finisce in un bidone della spazzatura. Conclusione: i lunedì spesso sono frenetici per coloro che si occupano di morti.
Quel giorno non faceva eccezione. L’MCME era in piena attività e io andai in cerca di Larabee, con l’esile speranza che avesse già iniziato un’autopsia. Non fui così fortunata. Era al telefono, ma mi fece segno di entrare nel suo ufficio.
Larabee mi ascoltò reggendosi il mento con una mano. Lo aggiornai su Ramsey, i Teague (compresi Cora e Eli), Mason Gulley, la Chiesa della Santità del Signore Gesù, Brown Mountain, la Coda del Diavolo, il secchio, il cemento e le ossa. Su tutto, insomma, eccetto la disavventura col masso.
«Ma perché nel weekend non te ne vai al centro commerciale?»
Non meritava alcuna risposta.
«Il prete, un tizio che si fa chiamare padre G, ha consigliato a Teague di collaborare.»
«La Santità a me non sembra cattolica.»
Riassunsi quanto mi aveva detto zia Ruby e accennai a quella gente che maneggiava serpenti. Larabee sapeva che tipi fossero, un suo collega aveva fatto l’autopsia a un predicatore dalle capacità manipolatorie inferiori alla media.
«Potrei fare qualche domanda a un membro del clero più tradizionale.» Ne avevo già uno in mente.
«È preoccupante che i genitori non abbiano mai denunciato la scomparsa.»
«Sì.»
«Tu pensi ancora che sia morta…» Si trattava più di un’affermazione che di una domanda. È sconcertante il modo in cui Larabee riesce a leggermi nel pensiero.
«Già.»
«Vuoi fare uno stampo della testa» disse.
«Voglio provarci.»
«Ti sei procurata delle foto antemortem?»
«Ramsey ha detto che le avrebbe chieste ai genitori.»
«Una faccenda che può andare per le lunghe…»
«Come un viaggio sulla luna e ritorno.»
«Pensi davvero che Teague sia capace di uccidere la figlia?»
Mi apparve davanti agli occhi il suo sguardo feroce. Mi sembrò di udire la voce piena di veleno.
«Lo credo possibile.»
«Be’, è il tuo giorno fortunato. Non è arrivato niente che necessiti competenze antropologiche.» Ruotò sulla poltrona girevole, pigiò qualche tasto e passò un dito sul foglio di calcolo apparso sul monitor.
«Registralo come caso numero ME135-15.»
«Anche il cemento?»
Ci pensò. «Certo. Chissà cosa c’è intrappolato dentro.»
Larabee si alzò. Riunione finita.
Il telefono stava squillando quando entrai nel mio ufficio. Ramsey mi attendeva nell’atrio. Dissi alla signora Flowers, la receptionist, di mandarlo da me. Arrivò con una grossa sporta di tela.
«Cosa hanno detto al laboratorio?» domandai.
«Cercheranno impronte, tracce, fluidi corporei… Le solite cose, insomma. In base alle circostanze generali che ho riferito, non erano ottimisti.»
«Ha detto ai Teague che dovrebbero fornire campioni di DNA?»
«L’ho fatto. Manco a parlarne.»
Guardai la sacca. La tensione sui manici e il modo in cui la stoffa era tirata indicavano che era notevolmente pesante. «Le dispiace portarla in una stanza per le autopsie?»
«Mi faccia strada.»
«Può lasciare qui il giubbotto.»
«Sì, signora.»
Nella sala puzzolente, chiesi a Ramsey di mettersi i guanti e prendere i due pezzi di cemento. Li posò su mia indicazione sopra il ripiano, con il lato cavo rivolto verso l’alto.
Per prima cosa scattai una serie di foto. Poi, indossati i guanti e la maschera, passai batuffoli e tamponi di cotone sterile sull’interno di ciascuna cavità e ripetei il processo più volte.
Ramsey osservò, con le gambe rigide e i pollici infilati nella cintura.
Stavo sigillando i campioni nei sacchetti di plastica per le prove quando notai due filamenti pallidi intorno al cotone di un tampone. Guardai più attentamente gli altri tamponi. Sopra alcuni di essi erano raccolti fili simili.
Potevamo essere tanto fortunati?
Col cuore che batteva un po’ più forte, portai il tampone sotto un microscopio da dissezione, lo accesi e misi a fuoco.
I filamenti avevano un diametro dell’ordine di micron, come le fibre della seta; erano solo più ispidi. Ciascuno era chiaro come una ragnatela, quasi trasparente.
«Dannazione» imprecai sottovoce.
O forse a voce alta. Ramsey si spostò, ma non disse niente.
«Ho pensato che potessero essere capelli, ma sembrano così sottili…»
I tacchi di Ramsey ticchettarono sulle piastrelle. Senza pronunciare una parola, gli porsi una maschera. La prese. Mi allontanai dal microscopio. Il vicesceriffo si piegò e, strizzando gli occhi, guardò nell’oculare.
Passò qualche istante. Poi disse: «Se si trattasse di un ragazzino?».
«La cavità è troppo grande per essere stata prodotta dalla testa di un bambino.»
«Cos’è quella roba luccicante?»
«Cosa intende?»
«Il cotone è lucido in alcuni punti.»
«Mi faccia vedere.» Senza troppi complimenti, lo feci spostare di lato.
Ramsey aveva ragione. Qua e là la lanugine bianca era unta e ingiallita. Per via di qualche prodotto per capelli? Per la decomposizione? O era sudore? Le possibilità rimbalzavano nella mia testa come palline da ping pong.
Passai un altro milione di tamponi, li etichettai e sigillai. Quando fui certa che nient’altro potesse essere rimasto nei più piccoli recessi o fenditure, ispezionai i bordi lungo i quali il cemento si era spaccato.
I miei ricordi erano esatti. Le superfici erano nette e lisce. Miracolosamente non c’erano segni di scheggiatura né erosione.
Hawkins aveva esaudito la mia richiesta. Sul bancone c’erano bombolette di gomma liquida e contenitori di sigillante siliconico. Nel lavello c’era uno strumento che ritenevo fosse una morsa, forse destinato alla riparazione di mobili, o forse a qualche uso completamente diverso. Non mi interessava. Era perfetto.
Dopo aver spruzzato ogni centimetro della cavità, applicai il sigillante ai bordi rotti. Poi, sfruttando muscoli che sapevo mi avrebbero poi chiesto ragione del loro uso, feci da contrappeso a Ramsey nel momento in cui accostammo con forza le due metà l’una contro l’altra.
E aspettammo cinque minuti buoni.
Poi, mentre emettevo altri grugniti degni di Maria Sharapova, infilammo il calco completo nella morsa, col lato inferiore rivolto verso l’altro. Ramsey lo tenne fermo mentre io serravo gli strettoi.
Altro sigillante. Altra stretta.
Mi assicurai della tenuta della colla e andai in cerca di un trapano elettrico. Ne trovai uno in fondo all’ultimo dei ripostigli che controllai.
Tornai alla sala puzzolente, indossai gli occhialini e ne porsi un paio a Ramsey. Poi inserii la presa e accostai la punta del trapano dove pensavo che il cemento fosse più sottile.
Alzai lo sguardo su Ramsey. Mi guardò da dietro le grosse lenti di plastica. Sollevò un pollice.
Accesi il trapano e in aria volarono polvere e minuscole schegge. L’odore acre di metallo rovente e roccia bollente permeò la stanza. Trattenni il respiro, sperando che il cemento non si spaccasse.
Mi sembrò passare un’eternità. In realtà, in meno di un minuto la punta sbucò all’interno della cavità. Puntai il trapano verso l’alto e, con un movimento rotatorio, allargai l’apertura che avevo creato.
Nessuna crepa a ragnatela. Nessuna raggiera di faglie.
Quasi involontariamente, il mio braccio scattò in alto e la mano si aprì a richiedere un gesto d’intesa. Con sorpresa, il palmo del vice incontrò il mio. Un po’ imbarazzati, entrambi ci voltammo per toglierci gli occhiali protettivi. Poi preparai un composto di Duraplast, una plastica fibrorinforzata non diversa dal materiale usato dai tecnici di Avery per prendere le impronte di segni di attrezzi sulla Coda del Diavolo.
Sotto lo sguardo di Ramsey, inserii un imbuto di plastica nell’apertura e iniziai a versare il composto. Il sommesso glug glug glug parve proseguire in eterno.
Quando la cavità fu riempita posai l’imbuto sul bancone. Per un momento studiammo il pastoso liquido bianco attraverso il piccolo foro.
Ero impazzita? Mi stavo spingendo troppo oltre? Dire che avevo dei dubbi sarebbe stato come affermare che Cartesio aveva degli scrupoli riguardo a Dio.
«Ha ottenuto le foto?» Interruppi il silenzio.
«Sissignora. Sono nel mio giubbotto.»
«Okay. Prima le ossa, poi le foto.»
Ramsey tornò alla sacca e io coprii il tavolo da autopsia con un foglio di carta plastificata. Mentre appiattivo coi palmi le linee di piegatura, il vice posò al centro un piccolo contenitore Tupperware.
Tolsi il coperchio e distribuii i frammenti sulla superficie in modo da non sovrapporli. Provenivano tutti dal cranio di un essere umano adulto. Erano tutti segnati dalle intemperie e rosicchiati.
Feci un rapido inventario. Sei pezzi di parietale. Due pezzi di occipitale, uno dei quali con un sinuoso resto di sutura lambdoidea. Quattro pezzi di frontale, uno con una porzione di bordo sopraorbitale.
La sutura, lunga circa un centimetro, aveva bordi lisci e non fusi. I solchi vascolari su tutte le superfici endocraniche erano poco profondi. Si trattava di una persona di giovane età.
La curvatura sull’osso frontale suggeriva un’arcata sopraccigliare di medie dimensioni. Il che non dava indicazioni riguardo al sesso.
Non c’erano elementi che lasciassero ipotizzare la razza.
«E adesso?» chiese Ramsey quando glielo dissi.
«Adesso lei consegna i tamponi al laboratorio.» Mi tolsi occhiali e guanti. «E aspettiamo.»
«Per quanto?»
«Questo maledetto è grosso.» Indicai il calco che si induriva. «Probabilmente esagero, ma voglio concedergli un paio di giorni.»
«Mi spiace perdermi il momento…»
«Potrebbe essere un fallimento.»
«Bella rima.»
Niente male, vice. Non ci avevo fatto caso.
Ritornammo nel mio ufficio. Ramsey prese il giubbotto, tirò fuori una busta da una tasca e me la consegnò.
«Una è un po’ datata, l’altra è stata scattata qualche mese prima della “fuga” di Cora.» Con le mani tracciò in aria delle virgolette intorno alla parola fuga. «Ma credo che ci siano le angolazioni che voleva. Una di profilo, l’altra di faccia. Mamma e papà non hanno messo a disposizione una vasta scelta.»
«Allora mi farò bastare queste.»
«Ho intenzione di effettuare un po’ di ricerche e di vedere cosa riesco a scoprire riguardo al periodo in cui Cora ha lavorato come tata.»
«Ha chiesto ai Teague?»
«John è convinto che rivelare il nome del datore di lavoro di Cora costituisca una violazione della privacy.»
«Che faccenda bizzarra…»
«Eccome.»
Quando Ramsey se ne andò, diedi un’occhiata al contenuto della busta: delle stampe bicolore.
Disposi le foto sulla scrivania. La prima raffigurava una ragazza di dodici o tredici anni con la pelle chiara, le lentiggini e lunghe trecce bionde. John Teague era dietro di lei e le teneva una mano sulle spalle. Un secondo uomo, di fronte a lei, le premeva un pollice sulla fronte. Indossava la tonaca rossa e una mitra: abito e copricapo cerimoniali da vescovo cattolico. Sul retro della foto c’era scritto, a mano: «Cresima. 19 marzo 2006».
L’altra fotografia era stata scattata all’aperto. Una giovane donna sedeva accanto a un tavolo da picnic, le braccia conserte e gli enormi occhi verdi fissi sull’obiettivo. Aveva i capelli tirati all’indietro. Lunghe ciocche ondulate le ricadevano sulle spalle, scintillanti nel sole come oro liquido.
Come i filamenti che avevo ricavato dal cemento?
Rimasi a guardare le due versioni di Cora Teague con la mente piena di dubbi che svolazzavano come falene spaventate. Era morta? Avrei trovato lei nella mia maschera funeraria in 3D? Il calco sarebbe riuscito?
Il telefono squillò interrompendo i miei pensieri.
«Sono nella stanza autopsie numero uno.» Larabee sembrava carico come una bomba atomica. «Vieni quaggiù. Svelta.»