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«Ossa di dita?» Comprensibilmente, Strike sembrava confusa. Lo ero anch’io.
«Non solo ossa.» Continuai a studiare la lucida massa che tenevo nel palmo. «Forse vedo due polpastrelli parziali.»
«Dentro a quella roba viscida?»
«Sì.»
«È resina di pino.»
L’osservazione di Ramsey mi fece alzare lo sguardo.
«I pini trasudano resina, soprattutto lungo la base. Col tempo, quella roba si solidifica.»
«Come l’ambra.»
«Con qualche migliaio di anni di tempo, sì.»
Certo. La resina era batteriostatica, teneva fuori l’ossigeno e forniva una barriera contro i saprofagi: tutte condizioni favorevoli alla preservazione dei tessuti molli. Una volta mi era capitato un caso in cui un grosso grumo di resina era stato inavvertitamente raccolto insieme a resti umani. Inserita nel grumo, c’era una testa di topo in perfetto stato di conservazione. Appeso all’esterno, c’era il resto dello scheletro.
Come le falangi che spuntavano dalla massa sul mio palmo.
«Perciò lei cade quaggiù a seguito di un’aggressione oppure il suo corpo finisce qui dopo essere stato scaricato dal belvedere. Una mano atterra alla base del pino.» Strike indicò l’albero. «Col tempo la resina trasuda, cola, o quel che diavolo fa, e ricopre un paio di dita.»
Lo scenario descritto da Strike sembrava tristemente realistico. Ma la stavo ascoltando con un solo orecchio. Mentre sigillavo la repellente scoperta in un sacchetto da freezer, i miei occhi scrutavano il terreno alla ricerca di altro.
Il sole era ormai basso quando finalmente ce ne andammo. Non era un avvenimento importante nel profondo del nostro santuario di pini. Non c’erano più raggi che si insinuavano tra i rami in alto. Niente più reticoli di luci e ombre che cambiavano forma sul terreno. Adesso solo oscurità perenne.
Anche se conducemmo Gunner lungo la griglia e poi gli lasciammo campo libero, il cane diede il segnale di allerta solo altre due volte. E in entrambe non inutilmente.
Alla fine trovammo sei falangi, due metacarpi, uno scafoide e un osso uncinato, tutti segnati dalle intemperie e rosicchiati. Accidenti! Un fantastico risultato di dieci su cinquantaquattro ossa della mano. Trovammo anche un cacciavite arrugginito, otto lattine di alluminio e un pezzo di quello che sembrava un vecchio paletto da tenda.
Tutte le ossa erano adulte e di dimensioni indeterminate. Dubitavo che contenessero molte informazioni.
Ma la carne all’interno della resina era un’altra storia. Che mi aveva assolutamente esaltata. Qualcuno era morto o era stato scaricato sulla montagna. Un’impronta leggibile poteva ricollegare a un’identità.
Se quella persona era registrata nel sistema. O se si riusciva a ottenere un campione valido per un raffronto.
Ramsey insisté perché portassi i resti con me. Fu irremovibile, ed era logico. Avevo ME229-13 nel mio laboratorio. C’erano buone possibilità che la mano fosse della stessa persona.
Quando ebbi trovato un punto coperto dalla rete dell’AT&T, telefonai a Larabee. Come previsto, non era contento del mio viaggio nella contea di Burke. Dopo una filippica parecchio lunga, gli comunicai la nostra scoperta.
Volendo evitare complicazioni giurisdizionali, nonché le ire del suo capo, Larabee mi ordinò di aspettare fino a quando non avesse contattato l’OCME a Raleigh. Mi ritelefonò dieci minuti dopo. Il capo medico legale dello Stato, sebbene sorpreso che i resti della contea di Burke fossero stati mandati in origine a Charlotte-Mecklenburg, assegnava il caso direttamente a me.
Strike rimase fino alla fine, poi ripartì a tutta velocità facendo schizzare la ghiaia. Stronza. Ancora una volta, non ero riuscita a farmi consegnare il registratore.
Per tutto il giorno l’atteggiamento di Strike aveva oscillato tra l’imbronciato e lo stizzoso. Mi chiesi il motivo della sua ostilità. Ma non ci pensai più di tanto.
Mentre stavo facendo il numero di Larabee, era arrivato un SMS da parte di mamma. L’avevo letto mentre aspettavo che lui mi richiamasse. Niente di urgente. Voleva solo avere notizie sulla mia salute e sul mio umore.
Volevo andare a casa e fare una doccia molto lunga e molto calda. Poi cenare. E dopo raggomitolarmi nel letto e condividere le notizie del giorno con Birdie. Magari anche con Ryan.
Ma non c’è nessuno che riesca a essere passivo-aggressivo quanto mamma. Il sottinteso del suo messaggio era: sono vecchia, ho il cancro e ricevo pochissime visite.
Tua madre è a trentacinque chilometri di distanza, intervenne la mia coscienza.
Controllai l’ora. Le cinque e mezza. Potevo cenare con lei ed essere a casa entro le nove.
L’euforia svanì con un rantolo, lasciando il posto al senso di colpa.
Così, invece di andare a casa, mi ritrovai a guidare in direzione est, i capelli sudati sotto il berretto dei Charlotte Knights, i vestiti luridi, le unghie incrostate di fango. E per nulla ansiosa di affrontare l’esame di Daisy.
Nei pressi di Marion, svoltai a est dalla Highway 221. Heatherhill Farm apparve subito, se non in modo teatrale. Il cartello è così elegantemente discreto che coloro i quali hanno bisogno delle sue indicazioni lo superano senza accorgersene. Mi immisi su un’anonima striscia d’asfalto che passava attraverso allori montani più alti della mia testa. Quasi subito, il folto intrico cedeva il posto a un terreno più finemente curato.
Al buio, Heatherhill sembrava il campus di un piccolo college. Oltre all’ospedale principale c’erano strutture con giardino di varie dimensioni. Comignoli coperti di edera, lunghe verande, rivestimenti bianchi, persiane nere. Per via delle mie molte visite sapevo che i padiglioni comprendevano un centro per il dolore cronico, una palestra, la biblioteca e il laboratorio informatico. Ancora non distinguevo un settore dall’altro.
Svoltai in un viottolo e, dopo cinquanta metri, entrai in un rettangolo di ghiaia chiuso su tre lati da uno steccato bianco. Parcheggiai e imboccai un sentiero lastricato fino a un villino dal colore marrone con le fioriere sotto ogni finestra. Sopra un cartello appeso sulla porta c’era scritto RIVER HOUSE.
Rimasi lì ferma per un momento, avvertendo una punta di rabbia. O di rimorso. Oppure un’emozione a lungo negata che non riuscivo a identificare. Era sempre così. Il momento di esitazione prima del tuffo.
La brezza pomeridiana era diventata burbera e fredda. Folate che turbinavano giù dalla montagna agitarono il collo della giacca e piegarono la tesa del berretto. Alzai lo sguardo. Nel cielo c’erano un milione di stelle, ma non si vedeva la luna. Tutt’intorno, a parte il vento, il silenzio era sovrano.
L’interno di River House era conforme al suo aspetto esteriore. I lucidi pavimenti di quercia erano coperti di tappeti Oushak e Sarouk. Gli arredi imbottiti presentavano sfumature beige e marrone chiaro, quelli di legno erano macchiati e trattati per farli sembrare antichi. L’arredatore, ambendo a comunicare sensazioni di calma e serenità, aveva raggiunto l’obiettivo trasmettendo inoltre un senso di illimitata disponibilità economica.
Dopo aver presentato le mie credenziali a una sorridente addetta dietro una scrivania Luigi Qualcosa, attraversai il salotto superando le fiamme alimentate dal gas che danzavano in un caminetto di pietra. La suite di mamma era in un corridoio laterale, l’ultima a destra.
Prima di girare in quella direzione, gettai un’occhiata a sinistra, nella sala da pranzo. Una mezza dozzina di commensali di età diversa sedeva intorno a tavoli ricoperti di lino, con al centro composizioni floreali che non mostravano il minimo segno di cedimento. Sapevo che mamma non era tra loro. Daisy preferisce mangiare da sola, seduta alla piccola scrivania davanti alla finestra del suo salottino.
La porta era socchiusa. Questo fece scattare un minuscolo allarme nella mia testa. Normalmente mamma è una carogna in fatto di sicurezza e privacy. Quella dimenticanza significava apatia, e quindi una fase buia? Un trionfo di spensieratezza? Un incidente casuale privo di significato?
Mamma era seduta alla scrivania, la forchetta dimenticata in una mano e lo sguardo fisso sui boschi al di là del vetro. Forse con la mente perduta in un ricordo tremolante di un altro tempo. O forse in nulla.
La studiai per un momento. Era dimagrita, ma per il resto aveva un bell’aspetto. Questo non mi rivelava un bel niente. Malgrado la miriade di problemi mentali, o forse a causa di essi, mia madre è un’attrice da Oscar-Tony-Emmy.
Quando si accorse del mio arrivo si girò e mi fissò coi suoi luminosi occhi verdi attorniati da morbide zampe di gallina. Il sorriso sbiadì nel momento in cui notò il mio aspetto. «Oh, cielo.»
«Già.» Ridacchiai. «Elegante, vero?»
«Mia dolce bambina. Sei scappata via dal circo?»
«Bella battuta.» Mi rifiutai di cascarci. Intendevo mantenere la visita in una atmosfera frivola e dolce. Niente discussioni sul mio abbigliamento, la mia acconciatura o il mio stato coniugale. Nessuna pressione su mamma perché cominciasse la chemio a cui stava opponendo resistenza con ogni fibra dei suoi quaranta chili di peso.
«Oppure hai fatto a botte col tuo delizioso detective?» Mi puntò contro la forchetta con nonchalance. «Qual è il nome del gentiluomo?»
«Andrew Ryan.»
«Aspetta. Ci sono.» La faccia di mamma si illuminò. «Arrivi da una scena del crimine.» La sua voce si ridusse a un sussurro. Era affascinata dal mio lavoro. «Hai disseppellito un corpo.»
Niente da fare. Non avrei parlato di omicidi o di morte. Né di proposte di matrimonio. Mamma ne avrebbe ricavato una produzione degna di Broadway.
«Stavo facendo una consulenza nella contea di Burke. Niente di che.» Mi avvicinai per osservare il suo piatto. «Ero nei paraggi, perciò ho deciso di fare un salto per cena. Cosa c’è sul menu?»
Mamma non si fa dissuadere facilmente. Mai. «Non puoi parlarne con la tua debole vecchia madre?» Allargò le braccia, che sembravano fuscelli nello spesso maglione lavorato a punto irlandese. «Dolce Signore del cielo, dove mai me ne vado? Con chi discuterei gli intrichi della tua vita professionale?»
Il vento sbatacchiò la finestra alle spalle di Daisy scuotendo il riflesso della sua faccia capovolta. Un’immagine triste sbocciò nella mia mente. Mamma era sola nel suo esilio autoimposto, non parlava con nessuno eccetto Goose e lo staff di Heatherhill, e aveva poche attività oltre il suo diario o il computer.
La logica di mamma non faceva una piega. Era isolata. Era inoltre più brava della CIA a mantenere i segreti. In che modo avrebbe compromesso un caso nel quale non conoscevo l’identità della vittima né la causa della morte?
«D’accordo, Sherlock.» Sospiro teatrale. «Vado a darmi una ripulita.»
Mamma mosse la forchetta con lo stesso gesto plateale di un direttore d’orchestra. «Si aprono le danze.»
Andai in bagno e mi sfregai a fondo mani e faccia. Mi pulii le unghie. Esaminai i capelli. Decisi che la situazione era senza speranza e li infilai di nuovo sotto il berretto. Al mio ritorno, sulla scrivania erano comparsi un secondo piatto e una sedia.
Tra un boccone e l’altro di pollo al forno, purè di patate e piselli alla menta, le parlai di ME229-13 e delle scoperte del giorno con Ramsey e Gunner. Descrissi il ritrovamento delle ossa della mano e del globo di resina di pino. Lasciai fuori Strike. E la possibilità che la vittima fosse Cora Teague.
Mamma ascoltò rapita. Malgrado i suoi difetti, mia madre è un’ottima ascoltatrice. Quando ebbi finito, ci fu una lunga pausa, e un’esortazione a continuare. Invece, volendo restare su un terreno sicuro, le parlai di quanto avevo appreso su Brown Mountain. Mamma agitò una mano, con fare derisorio o noncurante. Quando le dissi che non c’era altro, iniziò a tempestarmi di domande. Anzi, per tutta l’ora seguente, mi spremette come un limone.
Le cose andarono bene e mi trattenni più a lungo del previsto. Fuori, il vento aveva deciso di scatenarsi. Raggiunsi l’auto di corsa, a testa bassa e tenendomi il berretto schiacciato sul capo, mentre le siepi che bordavano il vialetto si agitavano come onde in burrasca.
Arrivai a casa che erano le undici e venti. Tolsi dallo zaino i sacchetti di plastica e li misi in frigo. Dopo aver dato da mangiare al gatto, estremamente contrariato, mi spogliai e mi infilai sotto la doccia. Profumata di bagnoschiuma allo zenzero e agrumi e shampoo alla lavanda, alle dodici e dieci finalmente mi misi a letto. Come la notte prima, pensai di chiamare Ryan, ma decisi di non farlo. Forse era troppo tardi.
Ancora una volta la mia coscienza volle dire la sua. Ryan è un animale notturno. Perché tanta riluttanza?
Ottima domanda. Intendevo forse fingere di ignorare la proposta di matrimonio? O il motivo era più recondito? Un rifiuto di condividere Cora Teague? Un desiderio subliminale di mantenere separato ciò che era mio?
Malgrado la stanchezza, rimasi sveglia a lungo, accarezzando la testa di Birdie e aspettando rumori insoliti. Per fortuna non ne udii nessuno. Sentivo solo la vibrazione delle fusa feline e lo sbatacchiare della persiana nell’intelaiatura. Infine, un gelido tamburellare sul vetro. Forse nevischio, forse pioggia. Quello fu il mio ultimo pensiero vagante.
Poi mi svegliai di soprassalto. Alicia Keys stava cantando qualcosa a proposito di una ragazza in fiamme.
Le buone notizie non arrivano mai alle due del mattino. Mia madre aveva il cancro. Mia figlia era in una zona di guerra.
Cercai a tentoni il cellulare. Mi sfuggì di mano. Battei il gomito per recuperarlo da sotto il letto.
«Spero di non averti svegliata, tesorino.»
«Stai male?»
«Niente affatto.»
«Mamma, siamo in piena notte.»
«Mi dispiace tanto.» Bisbigliava, era sovreccitata. Artefatta. «Ma ho scoperto qualcosa che penso dovresti sapere.»
«Sei sicura che è tutto a posto?»
«Sto benone.»
«È stata una giornata molto lunga… Possiamo parlarne domani mattina?»
Mamma sospirò. Un lungo respiro di delusione fatto apposta perché lo sentissi. «Immagino di sì.»
«Non ti senti bene?»
«Me l’hai già chiesto e ti ho risposto.»
C’era stato un tempo in cui mi sarei impegnata di più per dissuaderla. Poi mi ero arresa: l’esperienza mi ha insegnato che mamma, quando è determinata, è una potenza irresistibile.
«Spara.» Mi rotolai sulla schiena, il telefono premuto contro l’orecchio, prevedendo le parole successive.
«Dopo che te ne sei andata, mi sono collegata a Internet.»
Sì. Avevo indovinato. Me la immaginai a letto, il laptop sulle ginocchia sollevate, il volto screziato dalla luce riflessa dallo schermo.
«Uh-uh.» Soffocai uno sbadiglio.
«Stai ascoltando?»
«Sì.»
Sentii il fruscio del piumone e seppi che mamma si stava mettendo comoda per la sua teatrale rivelazione.
«Non crederai a quello che ho scoperto.»
Aveva ragione. Non riuscii a crederci.