13

Birdie, in piedi prima della sveglia, mi persuase a svegliarmi masticandomi i capelli.

Il gatto si finse sul punto di morire di fame, perciò passammo direttamente alla colazione. Mentre sgranocchiava Science Diet, io mangiai un bagel con crema di formaggio e buttai giù un caffè così forte da mantenere il cucchiaino diritto.

Sazio, Birdie fece una ricognizione delle stanze per il primo pisolino della mattina. Riempii un thermos col caffè rimasto, preparai dei panini e li misi nello zaino, meravigliandomi per tutto il tempo della presenza di salame e formaggio nel frigo. Non ricordavo affatto di averli comprati.

Mentre mi preparavo, sentii nascere dentro di me sentimenti contrastanti. Era sabato. C’era la semifinale dell’NCAA, Duke contro Carolina, e volevo restare a casa, ordinare una pizza e guardare la partita. Volevo stabilire l’identità di ME229-13.

Tornai in camera e controllai le previsioni del tempo sul cellulare. Su Charlotte erano previsti sole e una massima di sette gradi. Un’icona indicava due chiamate perse. Cliccai sopra.

Ryan aveva chiamato, ma senza lasciare un messaggio. Il familiare, assillante senso di colpa bussò piano. Non lo lasciai entrare.

Hazel Strike aveva telefonato. Mi chiedeva di ricontattarla.

Sapendo che in alta quota sarebbe stato più freddo, indossai jeans, maglietta a maniche lunghe, calze di lana e scarponcini. Presi un maglione in più, mi ficcai il telefono in tasca e scesi di sotto. Impiegai un momento per recuperare giaccone e zaino, dopodiché partii. Erano le 6:45.

Presi la I-85 in direzione sud fino a Gastonia, poi la 321 a nord fino a Hickory e la I-40 in direzione ovest. I grattacieli della città, poi le case tutte uguali e le aree commerciali dei sobborghi sfilavano nell’oscurità intorno a me. Non ci badai. I miei pensieri erano tutti rivolti a mamma. E a Ramsey. E un posto sulle montagne che non avevo mai visto.

Quando raggiunsi Morganton, il mondo al di là del parabrezza era un dipinto di Monet dai tenui colori verde e ambra. Tralicci, alberi e pali da recinzione proiettavano lunghe ombre da casa degli specchi sulla strada e sui campi che si estendevano su entrambi i lati.

Mi diressi a nord sulla 181 fino a Jonas Ridge, poi svoltai a sinistra e andai a sudovest sulla NC-183. Attraversando la Pisgah National Forest per la seconda volta in una settimana, mi imbattei in soli altri quattro veicoli. Li contai.

Alla fine scorsi un cartello che indicava la strada per Wiseman’s View. Svoltai sulla Route 1238, una strada d’accesso col fondo di ghiaia e larga appena quanto una sola auto. Ero a pochi chilometri dalla minuscola comunità di Linville Falls.

Dopo circa sei chilometri di curve strette e bruschi cambi di pendenza, che non posso dire di aver apprezzato, un secondo cartello apparve tra il fogliame. Svoltai in un’area di sosta asfaltata chiedendomi quante parti dell’auto e otturazioni dentali si fossero allentate.

Sorprendentemente, erano presenti diverse macchine. Una Camry rossa, un pickup con una crepa nel parabrezza a forma di Cape Cod, un’Audi A3 color argento e un SUV nero. Il logo del Dipartimento dello sceriffo sul SUV mi avvertì che Ramsey e Gunner erano già arrivati. Scesi dall’auto e mi guardai intorno. Non si vedevano né il vicesceriffo né il cane.

L’aria era frizzante per il freddo del primo mattino. Non il freddo umido del Québec che ti toglie il respiro e ti intorpidisce la faccia nel giro di pochi secondi. Ma un freddo abbastanza intenso. E inoltre un vento tagliente turbinava tra le montagne circostanti.

Indossai il giubbotto e infilai nello zaino maglione, berretto e guanti. Presi il kit dal bagagliaio e mi fermai un momento in ascolto.

E udii una sinfonia di minuscoli rumori. Il tic tic tic del motore della mia auto che si raffreddava. Il costante sussurro del mio respiro. Il frusciare dei rami in alto.

Alzai lo sguardo. Il vento stava tormentando un usignolo che lavorava sodo al suo nido.

Augurando buona fortuna all’uccello, andai verso un varco tra gli alberi, al di là del SUV. Conduceva a un sentiero stretto e, all’inizio, rivestito di asfalto sgretolato. Il terreno sprofondava ripido oltre un arrugginito guardrail che ne bordava il lato destro. Dopo pochi metri, il sentiero tagliava a sinistra, abbracciando la montagna e sparendo alla vista.

Mi vanto di essere imperturbabile. Perlopiù è vero. Ma, a dirla tutta, una cosa mi turba: i luoghi elevati privi di protezioni. Non è la caduta che temo, ma l’atterraggio.

Col cuore che batteva un po’ troppo forte, mi sistemai gli spallacci dello zaino, rafforzai la presa sul kit e misi i piedi sul sentiero. La foresta, fatta di pini e alberi decidui, era così fitta che sembrava di attraversare un murale trompe l’oeil fatto di luci e ombre. Dal basso, giungeva il suono di acque impetuose.

Avanzai, con le suole degli scarponcini che risuonavano nella frizzante aria mattutina. Qua e là uno squarcio di luce si proiettava sull’asfalto e coglievo scorci del ripido burrone alla mia destra.

Cinquanta metri più avanti, udii un rumore di passi e mi fermai. Poco dopo, apparve una coppia che veniva verso di me in fila indiana. Lei camminava sicura, guardandosi intorno. Lui avanzava cauto, tenendo lo sguardo dritto davanti a sé. Mi schiacciai contro la facciata della rupe per lasciarli passare.

Quando il rumore dei loro movimenti si attutì, mi misi nuovamente in ascolto. Niente, se non lo scorrere smorzato dell’acqua.

Altri cento metri e il sentiero terminava con un affioramento roccioso circondato dal medesimo guardrail arrugginito. Piattaforme erano state erette su entrambi i lati, orientate verso punti di interesse. Quattro persone erano vicine a quella che si affacciava a ovest, tre in gruppo, una per conto suo. I tre avevano fatto compere da L.L.Bean. Il solitario sembrava un T-Rex agghindato per un’escursione.

Ramsey teneva i gomiti appoggiati all’altra ringhiera, Gunner era al suo fianco.

«Good morning, Carolina!» esclamai in una sommessa imitazione di Robin William nelle vesti di deejay, all’unico scopo di calmare la mia agitazione.

Il cane drizzò le orecchie e poi, con la lingua viola penzoloni, mi venne incontro trotterellando. Gli diedi un buffetto sulla testa.

Il vicesceriffo mi osservò mentre mi avvicinavo per qualche istante, poi girò di nuovo la testa verso il panorama che stava ammirando. Per un momento, restammo entrambi a osservare in silenzio.

«Stiamo guardando a est verso Linville George.»

«Notevole» dissi.

«Uno dei canyon più profondi degli Stati Uniti orientali. E uno dei più scoscesi. Sa come si è formato?»

Scossi la testa.

«Il Linville River nasce su Grandfather Mountain, copre una discesa di seicento metri in soli venti chilometri, prima di scorrere in piano nella Catawba Valley. Tutta quell’acqua martellante ha scavato la roccia.»

«A che altezza siamo sul fiume?»

«All’incirca quattrocentocinquanta metri, perlopiù a strapiombo.» Una pausa, poi: «Mai sentito parlare di William e John Linville?».

«No.»

«Padre e figlio esploratori. Nel 1766, i cherokee ebbero da ridire sulla loro presenza qui e fecero lo scalpo a entrambi.»

«Ahi.»

Gli angoli della bocca di Ramsey si sollevarono impercettibilmente. «Il loro nome è finito su una vagonata di luoghi di interesse.»

Era vero. Oltre alla gola e al fiume, delle grotte, una cascata, un’area naturalistica e diverse cittadine recavano il nome Linville.

«Resta pur sempre un brutto modo di farsi pubblicità» dissi.

Ancora una volta, Ramsey poteva aver sorriso. Oppure no. Alzò un braccio e indicò, le dita dritte e il palmo di traverso. «Al di là della gola c’è Jonas Ridge.» La sua mano si mosse a taglio mentre nominava una serie di formazioni rocciose. «Orso Seduto, Tartaruga, Tavolo, i Comignoli. La zona è un labirinto di sentieri.»

«Bella parola, labirinto» dissi.

A questa affermazione sorrise. Sotto il berretto di lana, tirato giù sulla fronte, il suo volto eseguì l’azione di allineamento. Oh, ragazzi…

«Dov’è Brown Mountain?»

«Vede quella vetta bassa in lontananza, oltre il promontorio?»

Annuii.

«Eccola. Saranno tredici chilometri.»

«Dove avviene il gioco di luci?»

«Molti turisti puntano le fotocamere laggiù.» Indicò il versante opposto.

«Pensa che siano reali?»

«Io le ho viste.» Alla mia espressione sorpresa, aggiunse: «Una specie di tremolio, come se qualcuno agitasse delle torce tra gli alberi».

«Qual è la sua teoria?»

«Qualcuno parla di gas metano.»

«Il gas metano non si accende mai spontaneamente in natura.»

«Sono d’accordo. Ci vuole una particolare combinazione di sostanze chimiche. I ricercatori l’hanno creata in laboratorio. Dicono che ha inizio con uno scoppio seguito da una fiamma verdeazzurra.»

«Niente combustione lenta.»

«Già.»

Il gruppetto alle nostre spalle venne verso di noi e prese posizione lungo la balaustra. Il solitario seguì gli altri, ma continuò a restare in disparte.

«Vedove cherokee?» chiesi.

«Quindi conosce il folklore locale.»

«Molto poco.»

«Il problema è che le signore dovrebbero vagare nel cielo, non sulla terra. Ma le luci non si rifrangono sopra il promontorio: sono in basso, tra gli alberi.» Come se la mia ipotesi fosse stata seria. «E dubito che i cherokee possedessero la tecnologia della lanterna.»

«Portavano torce per i maritini defunti?»

Ramsey ignorò la battuta. Oppure non la capì. «Ho fatto qualche ricerca. Non ho trovato un solo accenno a questa leggenda negli scritti cherokee. Gli unici riferimenti si trovano nella letteratura riguardante le luci. Questo non vuol dire che non esistano storie locali. Solo che io non le ho trovate.»

«Riflessi provenienti da distillerie clandestine?» Sparai l’unica altra teoria che conoscevo.

«Pensa che i distillatori clandestini metterebbero su bottega proprio qui, tra gli escursionisti e gli scalatori, nell’arco della visuale del belvedere più popolare dello Stato?»

«Nel cuore del labirinto.» Mio Dio, stavo flirtando?

Ramsey raddrizzò la schiena.

«Ma la causa non ha importanza. Ciò che forse importa è che un sacco di gente crede che le luci siano reali, e che siano di natura paranormale o mistica o quello che le pare.»

«E credono che la montagna sia infestata da spiriti.»

«In un certo senso.» La mascella di Ramsey si contrasse e si rilassò. «Qualcuno immagina che siano opera del diavolo.»

Ci volle un momento. Poi il sottinteso andò a segno. «Sta dicendo che è questo il motivo per cui parti anatomiche umane possono essere state gettate da questi belvedere? Per una sorta di culto demoniaco?»

«Demoni? Alieni? Ninfe? Elfi? Chi lo sa? Queste montagne abbondano di tipi strani.»

Non dissi nulla.

«Sembra folle?» chiese.

«Ho sentito di peggio.»

In fondo alla balaustra, i tre turisti continuavano a fare segni e a chiacchierare. Il solitario era più vicino a noi. Non stava ammirando il panorama. Era immobile, gli occhi bassi, come se tracciasse mentalmente il suo tragitto.

«Folle o meno, nessuno ha gettato niente da qui.»

«Sono d’accordo. Troppo affollato. E di difficile accesso.»

«Andiamo.»

«Dove?»

«Al posto che sceglierei per scaricare un corpo.»

Ramsey si avviò sul sentiero, con Gunner che gli trotterellava alle calcagna, non lasciandomi nessuna altra scelta che seguirlo. Quando raggiunsi l’area di sosta, il cane era sul sedile posteriore e il vice al volante del SUV. Lo sportello dal lato del passeggero e quello posteriore erano aperti. Un gesto sottile.

Scaricai l’attrezzatura sul retro e salii in auto. Uscito dal parcheggio, Ramsey mi sorprese continuando a parlare.

«Cosa sa dei Teague?»

«Non molto.» Gli dissi quello che avevo appreso da Hazel Strike. John. Fatima. Cinque figli. Nessuna denuncia di scomparsa per Cora, la penultima figlia, avvistata l’ultima volta tre anni e mezzo prima da un anonimo utente del sito di cybersegugi CLUES.net.

«Ho fatto un po’ di domande in giro.» Ramsey svoltò sulla 1238 e iniziammo ad avanzare a balzi e scossoni in direzione sud, lungo il crinale. «I Teague appartengono a un eccentrico gruppo pentecostale. La congregazione conta forse un centinaio di membri.»

«Come si chiama?»

«Chiesa della Santità del Signore Gesù.»

«Incantatori di serpenti?»

Mi riferivo al movimento della Santità fondato da George Went Hensley nel 1910. I membri tengono in mano serpenti velenosi, ne bevono il veleno e, se riescono a entrare in contatto con lo Spirito Santo, parlano in altre lingue. Le Chiese della Santità hanno un grande seguito nella regione degli Appalachi, comprese le montagne del North Carolina.

Ramsey alzò le spalle. «Non ho idea di cosa consista il loro credo. Tutto quello che so è che lo tengono per sé.»

«Se appartengono alla Santità, allora non andranno pazzi per Satana» osservai.

«Immagino di no.» Il sole colpì obliquamente la faccia di Ramsey, illuminandogli il naso e mettendo in risalto le rughe e le grinze intorno agli occhi e alla bocca. «Sono passato da casa Teague.»

Questo mi sorprese. «Hanno collaborato?»

«Non mi hanno invitato a mangiare biscotti, se è questo che intende. Ho parlato con John attraverso la zanzariera.»

«Che impressione si è fatto?»

«Emotivo.» Rifletté un momento. «Bellicoso.»

«Violento?»

«Può essere.»

«E la madre?»

«Mai vista.»

«Cosa ha detto John di Cora?»

«Se n’è andata con un uomo. Entrambi peccatori. Entrambi bruceranno all’inferno. Si levi dalla mia proprietà o le rompo il culo.»

«Pensa che stia dicendo la verità?»

«Sul rompermi il culo?»

«Su Cora.»

«Quel tizio è un fanatico di Dio e non lo definirei indulgente.»

Ramsey accostò sul ciglio della strada e spense il motore. Mi guardai intorno. Non notai altro che l’identica combinazione di alberi, la stessa strada sterrata che avevamo percorso negli ultimi dieci minuti.

Dopo essersi messo le chiavi in tasca, Ramsey appoggiò un braccio sul volante e si girò verso di me. «Tranne per una cosa.»

Non riuscivo a decifrare l’espressione del vicesceriffo. Ma la sua voce aveva assunto una durezza mai sfoggiata prima. Aspettai.

«Seguendo il suo suggerimento, ieri ho fatto un salto al Cannon Memorial per avere informazioni sui pazienti che avevano abbandonato la chemio.» Ramsey si riferiva al Charles A. Cannon, Jr., Memorial Hospital di Linville. «Zero. Ma quando ho pronunciato il nome di Cora Teague, un dottore ha suggerito di prendere in esame la morte del fratello minore.»

«Eli è morto quando aveva dodici anni.»

Ramsey mi rivolse una strana occhiata. «Esatto.»

«Causa?»

«Ematoma subdurale acuto traumatico. I genitori dissero che era caduto dalle scale del seminterrato.»

«Ma questo dottore nutriva delle riserve in merito?»

«All’epoca lavorava al pronto soccorso. Si ricorda del ragazzino. Non poteva entrare nel dettaglio per via della privacy, sa com’è la procedura. Ma ha sempre avuto la sensazione che i conti non tornassero.»

«Cioè che il tipo di ferita non coincidesse con la versione fornita dai genitori?»

Le dita di Ramsey strinsero il volante. Annuì.

Udii la voce della ragazza terrorizzata della registrazione. Percepii lo spettro scuro di Brown Mountain fuori dal finestrino.

«Sta pensando a un padre bigotto. A una figlia ribelle.» La mia voce sembrava smorzata nel silenzioso interno del SUV. «Alla fine violenta di un fratello minore.»

«Potrebbe trattarsi di un tris mortale» disse Ramsey.