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Un breve commento su Katherine Daessee Lee Brennan.
Durante tutta la mia infanzia, mamma fu imprevedibile quanto un pomeriggio estivo in spiaggia. Per mesi era felice, divertente, attenta: una presenza vibrante quanto la stessa luce del sole. Poi, senza preavviso, si ritirava nella sua stanza. A volte in qualche luogo remoto. Harry e io disegnavamo sedute al nostro tavolino, bisbigliavamo a letto durante la notte. Dov’era andata? Perché? Sarebbe tornata a casa?
Dottori con diverse specializzazioni formulavano diagnosi diverse. Bipolare. Schizobipolare. Schizoaffettiva. Affetta da disturbo dell’umore. Fa’ la tua scelta. Prendi le medicine. Lorazepam. Litio. Lamotrigina.
Nessun medicinale funzionava a lungo. Nessuna terapia attecchiva. Un gioioso attimo di tregua e le tenebre tornavano a reclamarla. Quando ero piccola, gli sbalzi d’umore di mamma mi spaventavano. Una volta adulta, ho imparato a farci i conti. Ad accettare. Mia madre è stabile quanto una piuma su un birillo.
Quando mamma si trovava prossima alla soglia dei sessanta, ed era emersa da poco da una fase particolarmente buia, le avevo comprato un computer. Nutrivo poche speranze che trovasse il cybermondo interessante, ma ero alla ricerca disperata di qualcosa che le occupasse la mente. Qualcosa a parte me.
Le insegnai i fondamentali: e-mail, utilizzo di Word, fogli di calcolo, Internet. Le diedi informazioni sui browser e i motori di ricerca. Con mia grande sorpresa, ne era rimasta affascinata. Aveva seguito un corso dopo l’altro all’Apple Store e poi presso il centro locale di formazione professionale. Alla fine, come di consueto, la sua abilità aveva superato di gran lunga la mia.
Non avrei definito mia madre una hacker. Non le interessava rubare numeri di bancomat o di carte di credito. Non le importava un bel niente dei meccanismi del Pentagono o della NASA. Ma, quando era determinata, non c’era niente che non fosse in grado di cavare al World Wide Web.
Mamma è anche un’incurabile insonne.
Data tale combinazione, non ero sorpresa che avesse usato il mio racconto su Gunner come punto di partenza. Ma ero un po’ turbata da quello che aveva scoperto.
«Cosa è stato rinvenuto?»
«L’articolo non lo specifica. Questione di tatto, presumo. Apprezzo una tale discrezione. Il pubblico si fa prendere troppo dai dettagli…»
«Cosa dice?»
«Riferisce semplicemente la scoperta di possibili parti anatomiche umane.» Le ultime tre parole pronunciate con accuratezza. «È una citazione diretta.»
«Di che giornale si tratta?»
«È della contea di Avery. “The Avery Journal-Times”.»
«Lo conosco.»
«Non c’è motivo di essere brusca, Temperance.» Molto brusca.
«Scusa, mamma. Sono mezza addormentata.» Misi i piedi sul pavimento e, dopo aver acceso la luce, presi una penna e una vecchia busta dal comodino. «A quando risale l’articolo?»
«29 aprile 2012.»
«Dice dove sono stati trovati i resti?»
«Certo che sì.» Un rapido respiro. «La scoperta è stata fatta nei pressi del Blue Ridge Parkway, tre chilometri a nord dell’incrocio con la Highway 181. Sarebbe il chilometro 496. Ho controllato su Google Earth.»
Certo che l’aveva fatto.
«Sai cosa si trova in quella località?» chiese.
«No.»
«Il belvedere Lost Cove Cliffs.»
Non avevo idea di dove volesse andare a parare. Mi stavo sforzando di capirci qualcosa quando riprese a parlare.
«Belvedere?» Aveva pronunciato quella parola come se fosse profondamente significativa. D’accordo. «Mamma, sai quanti belvedere ci sono sulle Blue Ridge Mountains?»
Seguì un silenzio gelido. Sapevo che avrei ricevuto una risposta alla mia domanda retorica prima che facesse giorno.
«E cosa si vede da questo particolare belvedere?» Con tono secco.
«Altre montagne?» Ancora una volta, non la seguivo.
«Brown Mountain. Proprio come il belvedere della contea di Burke.»
«Una strana coincidenza.»
«Trovo difficile considerarla una coincidenza.»
«Chi ha rinvenuto queste parti anatomiche?»
«Escursionisti.»
«Qualcuno ha stabilito che quella roba fosse umana?»
«Roba?» Uno sbuffo di disapprovazione. «Ma insomma, tesoro.»
«Hai trovato articoli di approfondimento?»
«No. E ho cercato in modo minuzioso. Ricorda che non era una notizia da prima pagina. Il pezzo originale era molto breve.»
«Il giornalista ha lasciato informazioni per essere contattato?»
Ticchettio di tasti. «Coloro in possesso di notizie a riguardo sono pregati di contattare il Dipartimento dello sceriffo della contea di Avery.» Lesse un numero. Lo stesso che era comparso sul display quando Zeb Ramsey aveva telefonato.
«Puoi inoltrarmi il link?»
«Sì.»
Quella notte sognai luci su un crinale in lontananza.
Com’era prevedibile, mi svegliai tardi. Dei rapidi preparativi, poi diedi da mangiare a Birdie e mi diressi all’MCME, pregustando la predica di Larabee con la gioia riservata alle critiche di mamma.
Attraversando la città immaginai Larabee seduto alla scrivania, tonificato da una corsa mattutina e pronto a balzare in azione al suono della porta del mio ufficio.
Non c’era.
Dopo aver inserito i nuovi resti di Burke nel sistema, ai quali assegnai il numero ME122-15, aprii un fascicolo e annotai le circostanze del loro rinvenimento. Poi portai i sacchetti di plastica nella sala puzzolente, misi le ossa su un vassoio e immersi il globo di resina in un vasetto di acetone. Quando ebbi terminato, chiamai Joe Hawkins. Aveva accettato di incontrarmi non appena avessi liberato quello che era conservato nel grumo.
Ingollai velocemente una tazza di brodaglia che passava per caffè nel salottino dello staff e mi accinsi a fotografare le dieci ossa della mano, controllando di tanto in tanto la situazione nel lavello. Per tutta la mattina, il grumo rimase duro come marmo.
Le ossa, come temevo, non indicavano nulla di significativo. Tentai qualche analisi metrica basandomi sulla misurazione dei metacarpi. I risultati mi mostrarono una via di mezzo di scarsa utilità. E le ossa del dito e della mano non rivelarono nulla circa la razza. Alla fine, tutto quello che potevo dire era che si trattava di un individuo adulto giovane e sano. Come ME229-13. Le ossa della mano erano coerenti in tutto e per tutto con quelle del torso, ma non c’erano prove definitive del fatto che entrambe le serie di resti provenissero dalla stessa persona. Solo il DNA poteva stabilire un’associazione valida. E non ero ottimista su quel fronte.
Scoraggiata, ma non sorpresa, tornai nel mio ufficio e chiamai Avery. Ramsey era in sede e prese subito la telefonata.
«Perciò questo è quanto?» chiese quando ebbi finito di riferirgli le mie osservazioni.
«Può cancellare dalla lista i nonnetti che camminano nel sonno.»
«Un caso praticamente risolto.» Pausa. «Ma sta dicendo che potremmo avere due persone?»
«Lo ritengo altamente improbabile.»
«E i pezzi dentro alla resina?»
«Ci sto lavorando. Ha fatto ricerche su Cora Teague?»
«Ho inserito il nome e non ho ricevuto nessun risultato. Niente indirizzo, né telefono, né iscrizione al servizio sanitario nazionale, nessun passaporto né resoconti bancari o fiscali. C’è un certificato di nascita, depositato presso il registro degli atti della contea di Avery nel 1993.»
«I genitori non richiedono un numero di previdenza sociale contestualmente al certificato di nascita?»
«Lo sta domandando alla persona sbagliata.»
«Secondo Strike, dopo le superiori, Teague ha svolto un breve periodo di lavoro come tata. A parte quello, non ha mai fatto altro.»
«Le tate vengono spesso pagate in nero.» Sentivo Ramsey giocherellare con qualcosa, forse il filo del telefono. «Ascolti, doc. C’è un Paese sconfinato, là fuori. Se la ragazza ha deciso di sparire e ha cambiato nome, sarà praticamente impossibile da trovare.»
Annuii.
«E Strike ha ragione. Non c’è nessuna denuncia di scomparsa.»
«Ha fatto verifiche sul conto dei genitori?» chiesi.
«Sì. Non è saltato fuori niente. Niente arresti, niente denunce, niente interventi a casa loro.»
«Dove vivono?»
«Larkspur Road, nei pressi della 194. Non c’è nulla laggiù eccetto pini e poiane.»
Per poco non riattaccai senza toccare l’argomento. «Sono venuta a conoscenza di qualcosa di strano, ieri sera. Potrebbe non avere nessun significato.»
Ramsey aspettò, continuando a giocherellare con ciò con cui stava giocherellando.
«Nel 2012, è apparso un articolo sul “The Avery Journal-Times”.» Scorsi i messaggi sul telefono e trovai un’e-mail di mamma, inviata alle 3:12 del mattino. La aprii e cliccai sul link. «Secondo l’articolo, parti anatomiche sono state ritrovate lungo una pista montana nei pressi del belvedere di Lost Cove Cliffs.»
«Parti anatomiche… umane?»
«Non è specificato.»
Ramsey fece una piccola pausa, esprimendo scetticismo. «Quando?»
«Il ventinove aprile.»
«Sei mesi prima che entrassi in servizio.»
«Probabilmente è una coincidenza, ma anche da quel punto si vede Brown Mountain.»
«Cosa intende dire?»
«Niente. Quale sarà stata la prassi seguita?»
«I resti umani dovrebbero essere stati inviati al coroner.»
«È andata così?»
«Verificherò. E posso controllare se il giornalista è ancora nei paraggi.»
Una volta chiusa la comunicazione, tornai alle ossa della mano e al grumo.
Cinque ore di ammollo e spinte finalmente riuscirono nell’impresa. Alle tre di quel pomeriggio, due raggrinziti pezzi di carne giacevano nel lavello, circondati da viscidi resti di resina. Li esaminai entrambi con una lente di ingrandimento. E alzai il braccio in segno di vittoria. Un gesto sciocco, ma non potei trattenermi.
Ciascun pezzo aveva una scheggia d’unghia all’estremità e una falange distale parzialmente visibile all’altra. Feci delle radiografie e le esaminai alla ricerca di particolari.
Una falange a forma di freccia mi diceva che il pezzo più grosso era la punta di un pollice. L’altro, in base alle dimensioni, era la punta di un indice, medio o anulare. Le superfici prossimali articolari di entrambe le falangi erano schiacciate e frastagliate, opera di industriosi saprofagi.
Mi sentivo assolutamente entusiasta e chiamai Joe Hawkins. In attesa del suo arrivo, prelevai il kit dall’armadietto, poi tirai fuori un tampone inchiostrato e dieci cartellini per prendere le impronte. Niente sofisticati scanner all’MCME. Lo facciamo alla vecchia maniera, ruotando e premendo.
Hawkins arrivò, col consueto aspetto cadaverico. Alto e magro, le guance incavate e i capelli neri tinti: il tipo mandato dall’agenzia per interpretare il ruolo di becchino.
Mostrai a Hawkins il «soggetto» e gli diedi il numero del caso. Ascoltò impassibile. Tipico di Hawkins. Nessuna domanda, nessuna reazione. Nessun errore. Anche se non ha un comportamento gioviale, è di gran lunga e in assoluto il miglior tecnico di autopsia del posto. Ha raggiunto questa posizione decenni prima del mio arrivo.
Mentre Hawkins annotava informazioni sui cartellini delle impronte, iniziai a realizzare primi piani delle ossa della mano. Per un po’, gli unici suoni nella stanza furono lo scatto dell’otturatore e l’occasionale rumore del lavandino.
A meno che le dita non siano essiccate o rigide per il rigor mortis, prendere le impronte a un cadavere di solito è una procedura veloce. Ero talmente presa dalle foto che persi la cognizione del tempo. Quando alzai lo sguardo, era passata una mezz’ora buona.
Hawkins era ancora chino sul suo lavoro. La tensione nel collo e nella schiena indicava che c’erano problemi.
«Roba tosta?» chiesi.
Nessuna risposta.
«Ti aiuto volentieri.» Mi era venuto in mente che le mani di Hawkins erano molto grandi e i polpastrelli molto piccoli.
Ancora nessuna risposta.
Notai diversi cartellini abbandonati sul bancone. Ciascuno presentava due ovali neri. Immaginai che il più grosso appartenesse al pollice, il più piccolo all’altro dito.
Hawkins di solito ottiene impronte al primo tentativo. Perché quel problema? Non avevo idea di quanti anni avesse, ma sapevo che doveva aver superato da parecchio la sessantina. L’artrite stava compromettendo la sua abilità? La mia presenza lo imbarazzava?
Mi avvicinai al bancone e, casualmente, presi un cartellino e gli diedi un’occhiata. Ne presi un altro. E un altro ancora.
Hawkins si allontanò dal lavandino, con le mani guantate sollevate e lontane dal corpo. I suoi occhi incontrarono i miei: avevano l’aria confusa.
«Ma che diavolo?» Allargò le dita perplesso.
Non riuscivo a trovare alcuna spiegazione.