23
Una brezza leggera stava lavorando per rimescolare le cose, ma con la morbida nonchalance della primavera. La luce del sole attraverso le magnolie gettava ombre in movimento sui mattoni del patio. La bellezza delle prime ore del mattino con me era sprecata. Erano passate due ore da quando avevo chiamato Hawkins. Non vedevo l’ora di precipitarmi in laboratorio. Quando arrivai, la signora Flowers era impegnata al suo posto di receptionist. Le rivolsi un rapido cenno di saluto e corsi a infilarmi il camice.
Il calcestruzzo era come lo avevo lasciato. Tranne che per lo strato di solvente chimico che adesso rivestiva il sigillante.
Senza nemmeno fermarmi per un caffè, suonai al piano di sotto. Hawkins arrivò dopo qualche minuto. Infilò un paio di guanti e passò un’eternità a rimuovere quella specie di bava bianca con un piccolo raschietto di plastica. Finalmente il sigillante andò via lasciando visibili le fessure. Mentre tenevo fermo il calcestruzzo, cosa che probabilmente non servì a molto, Hawkins allentò gli strettoi. Insieme togliemmo lo stampo dalla morsa e lo disponemmo sul bancone.
«Pronta?» mi chiese.
Feci cenno di sì.
Contemporaneamente allentammo la pressione. Il calcestruzzo si spaccò lungo le fessure. Trattenni il fiato mentre separavamo le due parti.
Il rivestimento di gomma liquida aveva fatto il suo lavoro. Lo stampo si staccò facilmente dal gesso odontoiatrico che lo riempiva all’interno. Liberando le due metà, stabilizzai il gesso e lo appoggiai sul bancone.
Il frutto del nostro lavoro era lì, a faccia in giù. La testa appariva ragionevolmente ben formata, benché ammaccata dove l’aria aveva formato delle bolle o dove il calcestruzzo era stato danneggiato. La superficie esterna era ricoperta di capelli impressi. Con entrambe le mani, e di nuovo respirando appena, feci rotolare delicatamente il gesso e lo misi in piedi poggiandolo sulla sua superficie piatta.
Ho visto foto di famose maschere mortuarie, qualcuna originale. John Dillinger. Dante. Napoleone. Maria Stuarda. Ciascuna di quelle macabre effigi aveva catturato in un modo freddo e spaventoso lo spirito di una persona che non era più tra i vivi.
Ogni volta mi veniva la pelle d’oca, e così stava accadendo in quel momento.
Hawkins e io eravamo spalla a spalla, attoniti, quando Larabee spinse la porta ed entrò.
«Come andiamo?» Vedendo il busto, il suo largo sorriso si arrotondò in una O.
Larabee si avvicinò a noi e piantò le mani sui suoi fianchi. «Che mi venga un accidente.»
«Sì» dissi sommessamente.
I dettagli andavano ben oltre le mie più rosee aspettative. Tranne che per qualche piccola distorsione alle ciglia, era come guardare un viso colto nel sonno. Naso lungo e sottile. Zigomi prominenti. Una mascella che avrebbe beneficiato di un angolo meno ottuso.
«È Cora Teague?» chiese Larabee.
«No.»
«Qualche idea su chi sia?» Era sorpreso.
«Mason Gulley.»
«Chi diamine è Mason Gulley?»
«Hai qualche minuto?»
«Certo.» Guardò il suo orologio, con la mente rivolta senza dubbio a un corpo deposto su un tavolo.
«Ci vediamo nel tuo ufficio. Prendo il mio telefono e alcune stampate.»
Mentre Hawkins puliva la stanza maleodorante, fornii ragguagli a Larabee su tutto quello che era successo fin da quando ci eravamo visti, ossia lunedì. Poi gli mostrai sul mio iPhone l’immagine della lastra di G.H. Fox.
La studiò, con le sopracciglia inarcate a V sopra il suo naso. «Sembra presa da una di quelle bancarelle con foto d’altri tempi.»
«È una pagina tratta da un manuale storico di medicina. Le foto sono state scattate da un fotografo del Bellevue Hospital di nome Oscar Mason.»
Gli mostrai le fotocopie delle immagini scaricate da Internet. Le guardò, poi guardò nuovamente il telefono.
«Chi è il soggetto?»
Gli dissi di Edward Gulley. E di Mason. E di Susan Grace.
«Devo ammettere che c’è una somiglianza col tuo gesso. Ma come puoi essere certa che si tratti proprio di quel ragazzo?» Era chiaramente dubbioso.
«Hai mai sentito parlare della sindrome di Naegeli-Franceschetti-Jadassohn?»
«Rinfrescami la memoria.»
«La sindrome di NFJ è una condizione genetica ereditata come autosomica dominante.»
«Quindi, se un genitore ce l’ha, ogni figlio ha il cinquanta per cento di probabilità di ereditarla.»
«Sì. Chi presenta quella sindrome suda poco o niente, per cui giornate calde e intensa attività fisica sono mal tollerate. Un individuo affetto da quella malattia può presentare macchie scure sull’addome, sul petto o sul collo. Qualche volta intorno alla bocca e agli occhi. La pigmentazione è a forma di reticolo e tende a comparire tra uno e cinque anni di età. Può scemare durante l’adolescenza o protrarsi per tutta la vita.»
«Vedo la pigmentazione anormale…» disse Larabee, ancora guardando Edward Gulley. «… e il reticolo.» Si riferiva al disegno formato sulla pelle.
«Altri sintomi sono l’ispessimento della pelle dei palmi delle mani e delle piante dei piedi, le unghie delle mani fragili e, meno frequentemente, le unghie degli alluci male allineate. Le anomalie dentarie sono comuni e includono la mancanza di denti, lo smalto ingiallito e macchiato, la carie precoce e la perdita prematura dei denti.»
«Tutto questo lo vedo. Ma concludere che…»
«Un altro difetto associato alla sindrome di NFJ è l’assenza di impronte digitali.»
Le sopracciglia a V si sollevarono. «Oh.»
«Il pollice e le dita del belvedere della contea di Burke non avevano impronte.»
«Qual è l’incidenza sulla popolazione della sindrome di NFJ?»
«Un caso su un campione compreso tra due e quattro milioni di persone.»
«È piuttosto rara, dunque.»
«Sì.»
«Quindi è verosimile che la testa in quel secchio fosse di Mason Gulley.»
«Sì. Quel campione di capelli biondi sottili. Il fatto che Mason fosse “strano”, secondo un testimone. La rassomiglianza tra la maschera mortuaria e le foto di Edward Gulley. L’affermazione di nonna Gulley secondo cui era contro natura. La mancanza di impronte sulle punte delle dita nella resina di pino, assumendo che fossero le sue. Tutto punta verso la sindrome di NFJ. Quindi verso Mason.»
«Allora tutti gli altri resti trovati finora sono suoi?»
Sollevai entrambi i palmi. «Tutte le ossa sono coerenti in termini di età e taglia corporea. Non ci sono elementi duplicati. Non posso dire che siano tutte di una stessa persona. Non posso dire che non lo siano.»
«Un parente materno di Gulley ci fornirà un campione di DNA?»
«La nonna certamente no. Susan Grace è minorenne.»
Larabee meditò. «Quindi è possibile che vengano recuperate anche parti di Cora Teague.»
«O di qualcun altro.»
«Ho l’impressione che non la pensi così.»
«Infatti, non la penso così.»
«Lo sai che non è sufficiente.»
«Lo so.»
«Non daremo una notifica di morte ai parenti prossimi.»
«No.»
Larabee, riflettendo, fece tamburellare le dita sul bracciolo della sua sedia.
«Mi pare abbastanza chiaro che Gulley è stato ucciso.»
«La sua testa era in un secchio.»
«Riflessioni su questo punto?»
Condivisi i commenti di Susan Grace su Cora Teague, sulla «caduta» fatale di suo fratello Eli e sulla sindrome della morte improvvisa del piccolo Brice. Poi chiesi: «Chi era il medico legale lassù, all’epoca?».
«La contea di Avery ha un coroner» disse Larabee.
«Perfetto.» Diversamente dai medici legali – perlopiù dottori, sebbene in North Carolina non lo siano tutti – i coroner possono avere qualsiasi qualifica… dal meccanico all’impresario di pompe funebri.
«Non sono sicuro di chi sia stato saggiamente eletto nel 2008 o nel 2011. Fammi dare un’occhiata.»
«Che è successo a Strike?» chiesi mentre Larabee prendeva un appunto.
«Non ho ancora sentito nemmeno una parola da Slidell.»
«Aveva in programma di interrogare Clyde stamattina.»
«La battaglia dei cybersegugi…» Larabee scosse lievemente la testa.
«Gli scambi in Internet tra Strike e Clyde erano al vetriolo.»
«Chiamiamo Skinny?» Si chinò in avanti per digitare il numero sul telefono. Due squilli, poi sentii: «Slidell».
«Sono Tim Larabee.»
«Non posso parlare, doc. Sono sulla scena.» Frastuono. Una porta sbattuta. Una sirena in lontananza. Voci concitate.
«Che ne dici di un veloce aggiornamento su Hazel Strike?»
«La soap opera ha appena preso un nuovo corso.» Aspettammo che Slidell abbaiasse un ordine a qualcuno. «Sono in un condominio in Carmel Road, e sto guardando un bel po’ di cervello spiaccicato su un muro. Selma Barbeau, settantadue anni, di razza caucasica e di sesso femminile, vedova. Viveva da sola. Qualche bastardo le ha rifatto la faccia con una Brooklyn Smasher che lei teneva vicino al letto come difesa.»
Gli occhi di Larabee incontrarono i miei. «Barbeau è stata uccisa con una mazza da baseball?»
«Uh-uh.»
«Pensi che si tratti dello stesso tipo che ha ucciso Hazel Strike?»
«No, doc. Le anziane vedove vengono prese a randellate ogni volta che mi trovo in servizio.»
Scrissi rapidamente un nome su un foglio e lo alzai davanti a Larabee.
«Hai già interrogato Wendell Clyde?» chiese a Slidell.
«Clyde si sta rinfrescando le idee giù in centro. Non mi sembra più il nostro uomo, ma una sudatina gli migliorerà il carattere.»
Mi congratulai con me stessa per non aver commentato l’immagine contraddittoria di Slidell.
Di ritorno nel mio ufficio, stavo per digitare una chiamata rapida quando il mio iPhone inziò a vibrare. Utente non identificato. Non so perché, ma risposi.
«Ciao, mamma. Ti chiamo per un breve saluto.»
«Oh, Dio. Katy! Sono così felice di sentire la tua voce.» Sembrava lontana un milione di chilometri. Me la figurai in un call center, con un fucile M16 a tracolla, una fila di soldati dietro di lei ad aspettare.
«Come stai? Tutto bene? Hai bisogno di qualcosa? Posso mandarti un pacco…» Parlavo in maniera tanto rapida, che sembrava balbettassi.
«Sto bene.»
«Com’è l’Afghanistan?»
«Oggi è perfetto, domani sarà meglio.»
«Divertente. Fa ancora freddo?»
«Abbiamo toccato i ventisette gradi ieri.»
«Sei sicura di non aver bisogno di niente?»
«Mamma, sto bene. La mia unità sta andando in missione. Volevo solo salutarti.»
«In missione?» Calma.
«Niente di preoccupante. Ma per un po’ di tempo potrebbe essere difficile chiamarti.»
«Un po’ di tempo?» Assolutamente calma.
«Non molto. Novità dal fronte domestico?»
L’avevo detto a mia madre. Mi sembrava carino dirlo anche a Katy. Carino e prudente. «Andrew Ryan mi ha chiesto di sposarlo.» Non ho aggiunto che me lo ha chiesto mesi fa.
L’accenno di una pausa, quasi impercettibile. Poi: «E allora?».
«Non gli ho ancora dato una risposta.»
«Perché?»
«Non sono sicura.»
«Tu lo ami?»
«Sì.»
«Allora perché sei in stallo?»
«Non lo chiamerei stallo.»
«Come lo chiameresti?»
«Riflessione.»
«Sei ancora diffidente perché papà ti ha scaricata?»
«No.» Sì.
«È stata una mossa da stronzo, ma questo non significa che Ryan ti dovrà ingannare.»
«No.»
«Quindi qual è il problema?»
«Non sono sicura.»
«Vai avanti.»
«È troppo rapido…»
«Qualcuno deve pur esserlo. La nonna lo sa?»
«Sì.»
«Cosa ha detto?»
«Vai avanti.»
«Devi voler bene a Daisy.»
«Mmh. Hai parlato con tuo padre?»
«Lo chiamo adesso. Devo proprio andare. Ti voglio bene!»
«Anch’io ti voglio bene, tesoro. Stai attenta.»
«Sempre.»
Chiuse la telefonata.
Mi ci volle un momento per ritornare con i piedi per terra. Poi, provando un misto di esaltazione e allarme che nascosi con cura, chiamai Ramsey.
Come quella di Slidell, la voce di Ramsey arrivò scavalcando un tumulto di suoni. Anche lui stava raccogliendo informazioni dopo una morte violenta. Il suo incidente aveva coinvolto una Buik, una Bronco e una bottiglia di whisky.
Sovrastando l’intermittente farfugliare della sua radio, gli dissi di Mason Gulley. E della nuova teoria di Slidell riguardante Hazel Strike. Ramsey doveva aver notato qualcosa nella mia voce.
«Non crede che l’omicidio di Strike sia scollegato da quanto accaduto lassù? Dalle sue indagini su Cora Teague?»
«No.» Un pensiero improvviso si fece strada. «Penso che Strike fosse nella contea di Avery sabato scorso. Mentre eravamo insieme a Burke, lei si era arrabbiata. Pensa che possa aver spedito quel masso sulla nostra strada?»
«Perché?»
«Per distrarci? Perché ce la siamo tolta dalle scatole? Perché era pazza?»
«Non potrebbe essere Wendell Clyde il nostro uomo? Forse pensava che Strike fosse laggiù con noi?»
Sempre domande. Mai risposte.
«Novità su quelle tracce?» Mi riferivo alle cavità presso la roccia.
«I ragazzi del reparto investigazioni scientifiche dicono che è stato un grimaldello.»
«Di un tipo particolare?»
«No.»
Perfetto. Questo restringe le possibilità a circa dieci fantastiliardi.
«Il secchio della Coda del Diavolo conteneva decisamente la testa di Mason Gulley» dissi, sia per organizzare i miei pensieri sia per continuare a dare informazioni a Ramsey. «E sono sicura che il pollice e la punta del dito trovati nella contea di Burke erano i suoi. Questo suggerisce che anche le ossa del torso trovate a Burke erano di Mason. E lascia fuori solo il materiale di Lost Cove Cliffs.»
«Notizie da parte della professoressa della WCU a questo proposito?»
«No.»
Rimanemmo in silenzio durante un’esplosione di interferenze alla radio. Ramsey doveva aver abbassato il volume, perché quel gracchiare diminuì di molto.
«Quindi qualcuno ha fatto a pezzi questo ragazzo e ha lanciato le parti del suo corpo da almeno due, forse tre belvedere.»
«Così pare» dissi.
«Chi?»
«Non mi piace quello che sento dire di Cora Teague. Un fratello morto. Un bambino morto. Il fatto che venisse definita come un diavolo di femmina.»
«Assassino, non vittima.» Il tono di Ramsey suggeriva che lui aveva saggiato con l’alluce le stesse acque cupe.
«Forse stiamo sbagliando tutto.»
Lo sentii inspirare profondamente. Poi espirare. «Che cosa propone?»
«Proverò di nuovo a contattare l’antropologo che si occupò dell’analisi dei reperti di Lost Cove Cliffs. Chiamerò anche i nostri esperti di DNA per vedere se hanno avuto fortuna con le sequenze. Mi piacerebbe proprio sapere se stiamo guardando una sola vittima.»
«E io?»
«Che ne pensa se come prima cosa ci incontriamo domani mattina ad Asheville?» dissi.
«Facciamo una chiacchierata con i Brice.» Un ritorno sulle montagne era l’ultima cosa che volevo in quel momento. Sebbene, per fortuna, Asheville si trovava a più breve distanza da Charlotte rispetto alla contea di Avery.
«Messaggio ricevuto.»
Un secondo, poi Ramsey lesse un indirizzo. Me lo appuntai.
«Nel frattempo vedrò cosa riesco a ricavare sulla morte del piccolo Brice. Più informazioni abbiamo, più li possiamo incalzare.»
«E forse occorre approfondire i problemi di salute di Cora Teague» suggerii.
«Sa come andrà a finire…»
Lo sapevo. Cora era minorenne. Nessuno avrebbe rivelato alcunché sui suoi trascorsi medici.
«Sia scaltro» dissi.
«Sarò un vicesceriffo subdolo. Vado di corvée.»
Silenzio.
Non ero sicura del significato della battuta di Ramsey. Ma, ogni volta che avevo a che fare con lui, mi accorgevo che mi piaceva sempre di più.
Chiamai la sezione DNA. Mi dissero chi si stava occupando dei campioni da esaminare. Un tecnico di nome Irene Trent, che era fuori a pranzo. Chiesi di essere richiamata.
La conversazione mi ricordò che non avevo mangiato nulla a parte un bagel alle sette di quella mattina. L’orologio segnava le due e quindici.
Feci una puntatina veloce nella stanza dello staff. Feci scaldare un burrito surgelato e, mentre lo ingurgitavo accompagnandolo con una bibita, provai a chiamare Ryan. Di nuovo la segreteria.
Per un secondo vidi il viso di Ryan, morbidamente ombreggiato alla luce gialla della veranda. Nella mia mente riascoltai la sua proposta incespicante. Non avevamo parlato da giorni. Perché non mi richiamava?
Una punta di paura. Avevo aspettato troppo a lungo? Aveva cambiato idea sul fatto di volermi con sé a Montréal? Oppure sul fatto di volermi in generale?
Passai l’ora successiva fotografando il busto di Mason Gulley. Angoli diversi. Effetti di luce diversi. In alcuni scatti la rassomiglianza con lo zio Edward era impressionante. Nel bianco e nero Mason sembrava spaventosamente vivo.
Osservando il povero volto impassibile, di nuovo ebbi repulsione per Martha Gulley. Come poteva una donna abusare verbalmente di un bambino per un errore genetico manifestatosi al concepimento? Come poteva condannare suo nipote?
Finalmente Trent mi richiamò alle quattro. Non rise quando le chiesi come procedeva il test del DNA e andò dritta al punto. Bene così. Avevo fornito i campioni solo una settimana prima. La sua opinione, su mia insistenza: quell’osso fa schifo, non ci faccia affidamento.
Quando la conversazione fu terminata, mi ricordai dei campioni che avevo prelevato dalle cavità del cemento. Volevo avere dei ragguagli.
Ma sentii la voce della segreteria. Lasciai un messaggio.
Andavamo di bene in meglio.
Poi provai a chiamare Marlene Penny alla WCU. Rimasi sorpresa quando rispose. E fui seccata per quello che mi disse.
Le ossa, trovate dai suoi studenti nel 2012, rappresentavano porzioni della parte bassa di una gamba e di un piede. A causa della estesa superficie abrasa e frammentata, non era stata in grado di determinarne il genere, né la razza, né l’altezza, né l’età e tantomeno la causa del decesso. I resti erano stati mandati alla University of North Texas per un test del DNA. Ma tutti i tentativi erano falliti. Le ossa si trovavano ora in una scatola nel suo laboratorio.
«Posso mandarle delle fotocopie delle mie fotografie?»
«Certo, grazie. Avrò bisogno anche delle ossa.»
Le diedi il mio indirizzo di posta elettronica e chiudemmo la telefonata.
Ero seduta, ingrigita dalla frustrazione, quando il mio telefono iniziò a vibrare sulla scrivania. Allungai il collo per leggere il numero.
Perfetto.
Un respiro stabilizzante. Risposi. «Ehi.» Il tono della mia voce era vivace come una ciliegina su un gelato.
«Oh, Tempe.» Aveva il fiato corto. «Sei incomparabilmente occupata per parlare?»
«Non sono mai troppo occupata per te, mamma. Che c’è?»
«Avevo così timore di dirtelo. Ero pietrificata all’idea di cosa avresti pensato… di cosa avresti detto.» Le sue parole erano talmente tremolanti che iniziò a singhiozzare. «Ecco perché sono stata imperdonabilmente distratta durante la tua visita. Poi mi hai detto le tue novità. Be’, ero…»
«Che cosa? Cosa c’è?»
«Oh, tesoro.»
«Dimmi!» La incalzai, con il cuore al galoppo.
Lo fece.
Con lunghi e melodiosi, superlativi e frivoli respiri affannosi.