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«Dove ci troviamo?» chiesi.
Ramsey indicò col mento gli alberi più avanti e sulla sinistra. «Vede quel varco?»
«Mmh.» Non lo vedevo.
«È l’inizio di un sentiero che porta giù nella gola. Hanno tutti quanti un nome. Varco del Pino. Picco Bynum. Torre di Babele. Questo si chiama Coda del Diavolo. Un tempo era popolare tra gli escursionisti esperti.»
«Un tempo?»
«L’ente parco non si è più occupato della sua manutenzione dopo che una tempesta ne ha fatto crollare la parte inferiore.» Mi guardò negli occhi. «La Coda del Diavolo non compare più sui siti web, perciò solo la gente del posto ne è a conoscenza.»
Annuii, mostrando che avevo capito cosa intendeva.
«Pronta?»
«Porto l’attrezzatura?» domandai.
«Prima vediamo cosa troviamo. Seguiamo il naso di Gunner.»
Nel sentir pronunciare il suo nome, il cane si alzò e agitò la coda una sola volta. Ramsey e io scendemmo dall’auto. Quando lo sportello posteriore si aprì, Gunner uscì con la raffinata grazia che avevo finito per ammirare.
«Attenta a dove mette i piedi» mi avvertì Ramsey.
Oh, sì.
Il «varco» di Ramsey era poco più che un assottigliamento appena visibile dell’antica foresta. Con Gunner al comando, ci facemmo strada tra i pini e gli alberi da legno duro lungo una stretta cicatrice di terra coperta di edera e altri rampicanti. Esplosioni di sole che attraversavano la cupola di rami e di aghi di pino creavano un effetto quasi vertiginoso. Ragnatele invisibili mi sfioravano il viso e rami caduti minacciavano di mitragliarmi le caviglie. Ma non per molto. A dieci metri dalla strada la terra sprofondava.
Niente guardrail. Nessun cartello rassicurante dell’ente parco. Solo il cielo aperto e roccia segnata e antica quanto il pianeta.
Una scarica di adrenalina fece vibrare i miei nervi. Forse era dovuta al dirupo. Forse al fatto che Ramsey aveva ragione. Il posto era deserto e facilmente raggiungibile. Un oggetto gettato da lassù poteva non essere mai ritrovato.
Mentre restavo indietro, Ramsey e Gunner andarono dritti verso quella che sembrava la fine dell’universo. Trassi un profondo respiro per calmarmi. Poi, muovendomi con cautela, li raggiunsi e bloccai un piede contro un masso che sporgeva sul ciglio del precipizio.
«È un bel salto.» Ramsey parlò senza guardarmi.
Col battito cardiaco nella stratosfera, allacciai un braccio intorno a un acero, piantai entrambi i piedi, e mi sporsi in avanti. Sotto, vedevo scorci di quanto restava della Coda del Diavolo, che scendeva ripida tra gli alberi. Un tratto di foresta, poi il sentiero ricompariva su una leggera depressione bordata da una piccola cengia rocciosa. Nell’insieme mi ricordava la formazione per come appariva sul sito della contea di Burke.
Ma parecchi elementi differivano. Questa cengia era molto più fitta di alberi. Sopra di essa sembrava esserci un rozzo capanno. Al di là e in basso, il terreno si corrugava nuovamente, formando quasi un terzo gradino, e poi sprofondava a picco nella gola.
Guardai Ramsey. Lui stava osservando Gunner. Il cane era teso. Orecchie all’indietro, testa bassa, occhi fissi sul capanno.
«Cos’è quello?» chiesi.
«Probabilmente un capanno abbandonato della manutenzione.»
«Sta catturando l’attenzione di Gunner.»
«Già.»
«È in grado di fiutare un odore da così lontano?»
«L’ha già fatto in passato.»
«È possibile scendere laggiù?»
«Il sentiero da qui al primo affioramento è in buono stato.»
Dovevo aver assunto un’espressione scettica.
«Che ne dice se controllo cosa sta stuzzicando Gunner?» propose Ramsey. «Se c’è qualcosa di sospetto, torno a riferirglielo.»
«Neanche per idea» replicai in tono immensamente più sicuro di quanto in realtà mi sentissi.
«D’accordo, allora. Muoviamoci.»
Ramsey emise un fischio, breve e acuto. Il cane balzò alla sua destra, svanì e, pochi istanti dopo, riapparve sulla Coda del Diavolo. Un lampo marrone, e poi scomparve.
Ramsey partì per primo. Con gli occhi incollati al suolo, lo seguii.
La parte di sentiero che il vicesceriffo aveva definito «in buono stato» si rivelò invece ripida e insidiosa. Barcollando di tronco in tronco mi feci strada verso il basso come se stessi attraversando un campo minato. Di tanto in tanto un piede slittava, provocando una cascata di ciottoli e terra davanti a me.
Mentre procedevo, il mio cervello immagazzinava informazioni. L’aroma dei pini. Un lieve odore di puzzola. Licheni. Sottili rami neri sopra la testa. Una delicata fila di halesia carolina ai miei piedi.
Gli uccelli gracchiavano articolate rimostranze. In basso, un fiume scavava la roccia ignea. A un certo punto sentii un frullo nel sottobosco, seguito da un verso stridulo interrotto. Mi fermai, sbuffando minuscole nuvole di nebbia dalla bocca. Immaginai un povero coniglio o scoiattolo con gli occhi già vitrei, la pelliccia scurita dal sangue.
Pensai a possibili predatori. Un serpente testa di rame. Un crotalo dei boschi.
Ignorando la mia immaginazione eccessivamente macabra, continuai per quelli che mi parvero cinque chilometri. In realtà dopo altri dieci metri la pendenza si livellò.
Gunner teneva il ventre a terra e lo sguardo fisso su un angolo del capanno. Ramsey era accanto a lui, con il giubbotto aperto, il gomito flesso, la mano sul fianco. Le ombre gli screziavano il viso come ematomi dal colore viola scuro.
Per un folle momento provai una sensazione di gelo, come se una presenza ferina abitasse lo scuro mondo di vetro colorato che avevamo invaso.
Scrollati di dosso questa impressione, Brennan.
Mi avvicinai a Ramsey. A quella distanza vedevo che il capanno stava a stento in piedi. Il tetto era di lamiera arrugginita e in procinto di staccarsi dai chiodi che dovevano tenerla al suo posto. Le pareti erano costruite con rozze assi di pino, probabilmente ricavate a mano e assemblate in fretta e furia. Qua e là un’asse si era staccata o allentata a un’estremità, ricadendo sghemba.
In silenzio, Ramsey prese una Maglite dalla cintura e mi fece segno di ripararmi dietro di lui.
«Sul serio?» chiesi sollevando i palmi e le sopracciglia.
«Un altro motivo per cui la pista è in disuso è la consistente popolazione di orsi bruni.»
«Giusto.» Mi accodai a Ramsey.
«Non ho visto tracce di feci. Ma è meglio evitare sorprese.»
«E Gunner?» Per qualche ragione mi sentivo obbligata a bisbigliare.
«Cosa c’entra lui?»
«Non ha problemi con gli orsi?»
«Li ignora e loro ricambiano il favore.»
Senza preavviso, Ramsey assestò un colpo alla lamiera con la torcia. Facendomi sobbalzare.
Nessun gigante in letargo si svegliò di soprassalto con un grugnito. Nessuna furiosa mamma orso balzò fuori per affrontarci.
«Ehi!» urlò Ramsey.
Silenzio.
Accertatosi che non ci fosse nessuno, Ramsey percorse il perimetro del capanno. Con me al seguito, diede una spinta alla porta che si aprì sui cardini. Allungammo entrambi il collo.
All’interno del capanno vi era un intrico di ombre. Dove la lamiera ondulata e le assi allentate avevano creato degli spazi, deboli squarci grigi si incrociavano nelle angolazioni più disparate.
Ramsey accese la torcia e la alzò ad altezza spalla. Varcammo la soglia. L’aria era fredda e umida. Mentre i miei occhi si abituavano all’oscurità, sentii odore di terra, legno bagnato e vegetazione marcia.
Ramsey mosse la torcia adagio e con metodo. Particelle di polvere turbinavano e danzavano nel luminoso fascio bianco.
La parete davanti a noi era rivestita da una scaffalatura di legno. Notai una bobina di catena, diverse seghe, forbici da potatura, un’ascia a manico lungo, una scorta di cartelli dell’ente parco tutti quanti arrugginiti e sporchi. Sopra e in mezzo agli attrezzi giacevano i resti essiccati di generazioni di ragni e insetti.
Il fascio di luce continuò a sondare lo spazio. Illuminò un rastrello e una vanga appoggiati alla parete nord. Una scala alla sua base.
«Come previsto» disse Ramsey, forse a me. «Un deposito dell’ente parco.»
Ogni angolo era pieno di ragnatele. In uno c’era un nido fatiscente. Sotto, rivoletti bianchi macchiavano le pareti e fuscelli secchi erano sparpagliati a terra.
«Sembra che sia passato un bel po’ da quando qualcuno è stato qui» disse.
«Così pare.»
Ramsey fece scorrere il raggio della torcia sulle assi del pavimento.
«Zero tracce di intrusione.»
Mi riferivo all’assenza dei detriti che si rinvenivano solitamente nelle abitazioni abbandonate: mozziconi, incarti di fast food, lattine e bottiglie di plastica vuote, preservativi usati. Il lezzo di feci e urina umane.
«Nessuna» convenne Ramsey.
«Non le sembra strano?»
«Non mi immagino la gente del posto scarpinare fin quaggiù per sgraffignare vecchi attrezzi. È una faticaccia riportare la roba fin sulla montagna.»
«Può essere stato una meta per ragazzi in cerca di un posto in cui passare il tempo?»
«Passare il tempo?»
«Bere birra. Fumare erba.» Mio Dio, ma questo tipo era così sprovveduto?
«Stessa risposta. Ci sono posti molto più agevoli per fare casino.»
Fare casino?
«E che mi dice dei forestieri?» chiesi.
«Sono anni che il sentiero non viene segnalato online o inserito nelle brochure del parco.»
«Lei e io abbiamo scorto il capanno dall’alto.»
«Noi stavamo cercando qualcosa.»
«Non trova sorprendente che nessun escursionista, scalatore, cacciatore, birdwatcher, cercatore di pipistrelli e funghi o astronomo sia mai venuto qui ad accamparsi?» aggiunsi in tono un po’ troppo brusco.
Senza disturbarsi a rispondere, Ramsey fece un altro giro con la torcia. Aveva ragione, naturalmente. Eppure la cosa non mi dava pace. Era una questione di fisica elementare. Quando uno spazio è privo di materia ed energia, qualcosa va a riempire il vuoto. Nel caso di strutture abbandonate, quel qualcosa è inevitabilmente l’homo sapiens.
Una gelida folata si insinuò in una crepa e creò un mulinello intorno a me. Alzai la lampo del giubbotto fino al mento e ficcai le mani nelle tasche, chiedendomi se quella non fosse la ricerca più vana e stupida della storia.
O il freddo che sentivo era innescato da forze diverse dal vento?
«Andiamo.» Un ultimo passaggio della torcia e poi Ramsey la spense. «Non c’è niente qui.»
Ci stavamo dirigendo verso la porta quando udimmo un latrato. Uno solo. Forte e deciso.
Ramsey si fermò. Una debole lama di luce grigia gli conferiva un aspetto cadaverico. «Gunner ha trovato qualcosa.»
Con lo sguardo a trecentosessanta gradi, ci affrettammo a uscire dal capanno. Gunner non era più nell’angolo.
«Dove sei, ragazzo mio?» chiamò Ramsey.
Il cane diede un solitario guaito, smorzato dagli alberi. Era in basso rispetto a noi, sulla destra.
Corremmo al ciglio e guardammo nella gola. Il braccio destro di Ramsey era di nuovo pronto all’azione.
I miei occhi registrarono qualche migliaio di sfumature di marrone; qua e là vedevo scorci di una pista sulla quale non mi sarei avventurata neanche con decine d’anni di meno e la sbornia allegra in corpo.
«Laggiù» indicò Ramsey. «A terra. Lo vede?»
Seguii con lo sguardo il suo dito fino a un guazzabuglio di alberi che sembravano lo shangai di un gigante. All’inizio non notai niente se non una catasta di tronchi e rami secchi.
Poi scorsi Gunner, col ventre a terra e il muso puntato verso qualcosa di azzurro.
«Che roba è?» Strizzai gli occhi e li protessi dalla luce.
«È esattamente quello che si sta chiedendo Gunner.»
Un’immagine balzò fuori da un angolo della mente. Si trattava di una informazione recente. La accantonai per pensarci in seguito.
«Possiamo arrivarci?» domandai.
«Mi segua.» La voce di Ramsey tradiva la sua tensione. «Tenga il peso verso la montagna e metta piedi e mani come faccio io.»
Ramsey scese dalla cengia verso quanto restava della pista e prese ad avanzare adagio, tenendosi parallelo al pendio. Lo seguii, col cuore che batteva all’impazzata.
Il terzo gradino della Coda del Diavolo era come i primi due sotto steroidi. Intenta a imitare ogni presa e respiro di Ramsey, non pensai al tragitto di ritorno.
Dopo tanto ansimare, sudare e – da parte mia – imprecare, finalmente compimmo gli ultimi passi. Gunner ci rivolse una fugace occhiata per poi tornare a concentrarsi sull’odore che aveva solleticato i suoi recettori olfattivi.
Il cane stava puntando un brandello di plastica azzurra infilzato su un ramo di pino che il vento aveva sferzato al punto da renderlo affilato come un coltello. Mi chinai per esaminarlo. Vidi un segmento di bordo e un piccolo foro tondo nel quale un tempo era infilato un manico.
«Sembra una parte di un secchio.» Cercai di non avere un tono deluso.
«Non è per quel motivo che sta in allerta» disse Ramsey.
Raddrizzai la schiena per guardare il cane. Gunner fissava un sasso leggermente più avanti, incastrato tra le radici divelte di un albero secco. I suoi occhi, enormi e impazienti, mostravano un po’ troppo bianco.
Mi avvicinai alla scoperta di Gunner e mi accovacciai.
L’affare sembrava di pietra, ma non lo era. Sebbene solido e grigio, presentavano ai lati una curvatura simmetrica, mentre la cima e il fondo erano piatti.
Toccai una delle superfici piatte. Era ruvida e granulosa. Usando due mani, capovolsi l’oggetto. Pur essendo pesante, lo era molto meno di quanto mi aspettassi.
Quando vidi la parte inferiore compresi il perché della mancanza di peso.
Continuai a guardare, perplessa.
Poi, lentamente, un’improbabile eventualità prese forma nella mente.
Mi misi in ginocchio e cambiai posizione per ottenere una visuale diversa. Respirando appena, alzai lo sguardo sul frammento di secchio infilzato.
No.
La mia mente respinse quell’idea.
Sì.
Un freddo di tomba mi travolse.