Uno sguardo indietro

Emmanuel Rubin non riusciva a non essere didattico; forse sapeva come si fa a non esserlo, ma quando prendeva la parola, invariabilmente saliva in cattedra.

«Quando si deve scrivere un romanzo» stava dicendo in quel momento «è meglio decidere subito il finale che dovrà avere. Se non si sa esattamente dove si è diretti in ogni istante, mentre si scrive, non ci si arriverà mai… Non si arriverà mai in nessun luogo.»

Il giovane ospite che Thomas Trumbull aveva portato a quella riunione mensile pareva tutt’occhi mentre osservava la barbetta tremolante di Rubin, striata di grigio, e le spesse lenti che luccicavano; pareva tutt’orecchi mentre ascoltava la voce vibrante e sicura.

Era un giovanotto di poco più di vent’anni, smilzo, con la fronte sporgente e il mento piuttosto sfuggente; l’abito quasi sfavillava nella sua freschezza, come l’avesse appena comperato per quell’importante riunione. Il suo nome era Milton Peterborough.

«Vuol dire che prima di iniziare un romanzo è necessario buttar giù una scaletta?» domandò, con la voce che tradiva una certa emozione.

«No» rispose enfaticamente Rubin. «Si può farlo, se si vuole, ma io non lo faccio mai. Non è necessario sapere esattamente la strada che si seguirà, basta conoscere la meta, ecco tutto. Se si sa dove si vuole arrivare, ogni strada può condurci alla meta e mentre si scrive si continua a guardare indietro da quel punto d’arrivo, ed è quel continuo guardarsi indietro che ci guida.»

Mario Gonzalo, intento a buttar giù in fretta una caricatura dell’ospite, al quale aveva regalato due occhi incredibilmente dilatati e un’espressione d’infantile ingenuità, intervenne. «Andiamo, Manny! Questa procedura rigida può andar bene per i tuoi romanzucoli polizieschi, ma un vero scrittore deve anche abbozzare i caratteri, ti pare? Deve creare i personaggi, e quei personaggi devono comportarsi coerentemente col carattere che lo scrittore gli attribuisce, ed è questo il filo conduttore, la traccia del romanzo, che può snodarsi in maniera imprevedibile, spesso sorprendendo persino l’autore.»

Rubin si volse lentamente e lo fissò. «Se alludi a quei lunghi romanzi senza spina dorsale e supponendo che tu sia in grado di alludere a qualcosa, può darsi che uno scrittore di talento sappia districarsi in quei meandri e magari produrre qualcosa di passabile. Ma i racconti scritti da gente che non sapeva dove voleva arrivare si riconoscono a colpo d’occhio, e anche se gli perdoni il carattere amorfo in grazia di altre virtù, devi pur sempre perdonare qualcosa, e questo comporta uno sforzo e un inconveniente. Un racconto scritto su un canovaccio prestabilito, dove tutti i particolari combaciano alla perfezione, è senza dubbio il più nobile prodotto della letteratura. Può anche non essere un buon romanzo, ma non avrà mai nulla da farsi perdonare. Lo sguardo a ritroso…»

All’altra estremità della tavola, Geoffrey Avalon guardava rassegnato Rubin. «Tom» disse alla fine, interrompendo quel profluvio. «Credo che sia stato un grosso errore dire a Manny che il tuo ospite aspira a diventare uno scrittore. Quando si tocca quel tasto, Manny dà il peggio di sé e non la smette più.»

Avalon tacque, tutto corrucciato, e prese a rimestare col mignolo il ghiaccio dentro il bicchiere.

«Per la verità» rispose Trumbull, il volto insolitamente spianato in un placido sorriso «il giovanotto moriva dalla voglia di conoscere Manny. Ammira i suoi romanzi, e io penso che solo Dio possa sapere cosa ci trova. Comunque, è il figlio di un mio amico, un bravo giovanotto, e ho pensato di fargli conoscere il lato peggiore dell’esistenza portandolo qui questa sera.»

«A noi non nuoce certamente se ogni tanto ci mescoliamo coi giovani» rispose Avalon «ma io odio la semplice idea di dovermi sorbire le teorie di Manny in materia di letteratura. Henry…»

L’impareggiabile cameriere di quelle riunioni conviviali gli si avvicinò quasi senza rumore. «Sì, signore.»

«Henry, cos’è quella strana parata che vedo sulla dispensa?»

«Cena fredda, questa sera, signore» rispose Henry. «Lo chef ha preparato una varietà di piatti indiani e pachistani.»

«Con curry?»

«Col curry ha calcato un pochino la mano, signore. È stata una richiesta precisa del signor Trumbull.»

Sotto l’occhiata accusatrice di Avalon, Trumbull avvampò. «Io volevo il curry» rispose al muto rimprovero «e io sono l’anfitrione, questa sera.»

«E adesso Manny non lo mangerà, e diventerà insopportabile.»

Trumbull si strinse nelle spalle.

Rubin non si dimostrò del tutto insopportabile, ma era su di giri e solo Roger Halsted pareva indifferente alla lunga sparata per criticare tutto quanto vi era d’indiano sulla faccia della terra. Al che, Halsted si limitò a replicare: «La cena fredda è stata un’ottima idea» e pulitasi la bocca col tovagliolo, si servì per la terza volta di tutto quel che c’era continuando a mangiare con un sorriso beato e soddisfatto.

«Roger, se non la smetti di divorare, inizieremo l’interrogatorio mentre tu mangi ancora» gli disse Trumbull.

«Fate, fate pure» replicò allegramente Halsted. «Io non ci bado.»

«Ci baderai questa notte, quando avrai i bruciori di stomaco!» predisse Rubin.

«Proprio tu torchierai il nostro ospite» disse Trumbull.

«Se non avete nulla in contrario a che io parli con la bocca piena!...»

«E allora incomincia.»

«Milton, come giustifica lei la sua esistenza?» domandò Halsted, continuando a masticare.

«Non posso giustificarla» rispose Peterborough. «Forse potrò farlo dopo che mi sarò laureato.»

«Che scuola e che facoltà?»

«Università di Columbia, facoltà di chimica.»

«Chimica?» esclamò Halsted. «Io pensavo che avesse scelto inglese. Non hanno detto, mentre prendevamo l’aperitivo, che lei aspira a diventare scrittore?»

«Chiunque può aspirare a diventare scrittore» replicò Peterborough.

«Aspirante» esclamò enigmaticamente Rubin.

«E cosa pensa di scrivere?» domandò Halsted.

Peterborough esitò prima di rispondere. «Be’, sono stato sempre un appassionato di fantascienza» disse, con una cert’aria di volersi scusare. «Sin da quando avevo nove anni.»

«Dio buono!» brontolò Rubin, alzando gli occhi al cielo in una muta preghiera.

«Fantascienza» esclamò prontamente Gonzalo. «Proprio quello che scrive il tuo amico Isaac Asimov, vero Manny?»

«Non è affatto amico mio» rispose Rubin. «È lui che s’aggrappa disperatamente a me, vinto da un’ammirazione alla quale non può assolutamente resistere.»

«La volete smettere voi due, con la vostra conversazione privata?» sbottò Trumbull, alzando la voce. «Continua, Roger.»

«Ha già scritto qualcosa di fantascienza?» domandò Halsted.

«Ho tentato, ma non ho presentato niente ancora. Comunque lo farò. Devo farlo.»

«E perché mai deve?»

«Ho fatto una scommessa.»

«Che genere di scommessa?»

«Be’…» fece Peterborough, incapace di esimersi «è piuttosto complicato… e anche imbarazzante.»

«Non faremo caso alle complicazioni e cercheremo di non sentirci imbarazzati» replicò Halsted.

«Ebbene» incominciò a dire Peterborough, mentre sul viso gli appariva un rossore diffuso, una cosa che non s’era vista per anni alle cene dei Vedovi Neri «c’è una ragazza. Io ne sono pa… Insomma, mi piace, ma non credo che lei nutra simpatia per me. Però mi piace lo stesso. Il guaio è che lei è invaghita di un giocatore di pallacanestro, un autentico idiota, uno stangone di un metro e novantacinque sino alle sopracciglia, perché sopra di quelle non c’è niente.»

Peterborough scosse la testa e continuò. «Io non ho grandi numeri per impressionarla. Non posso sperare di farlo con la chimica, ma siccome lei studia letteratura inglese, le ho mostrato qualche mio manoscritto. Lei ha chiesto se ne avevo venduto qualcuno e io ho risposto di no, ma quando le ho detto che volevo scrivere qualcosa e farla pubblicare, allora mi ha riso in faccia.

«Quell’ironia mi ha turbato e allora ho pensato di fare qualcosa. Sembra che Lester Del Rey…»

«Chi?...» domandò Rubin.

«Lester Del Rey. È uno scrittore di fantascienza.»

«Un altro di quelli» brontolò Rubin. «Mai sentito nominare.»

«Be’, non è un Isaac Asimov» ammise Peterborough «però non è affatto male nemmeno lui. Comunque, il suo inizio fu alquanto strano: aveva letto un racconto di fantascienza e l’aveva trovato orribile. “Accidenti” aveva detto alla sua ragazza “io posso scrivere qualcosa di meglio se mi ci metto” e la sua ragazza gli aveva risposto: “Fallo se sei capace”. E Del Rey l’aveva scritto e gliel’avevano pubblicato.

«Quando quella ragazza ha riso di me, pensando a Del Rey anch’io ho detto: “Ne scriverò uno e scommetto che me lo pubblicheranno” e lei ha replicato: “E io scommetto che non ci riesci”. E io, allora: “Scommetto un appuntamento contro cinque dollari. Se io riesco a far pubblicare un mio manoscritto, tu verrai a cena e a ballare con me una sera, quando te lo chiederò” e lei ha accettato.

«Ecco perché devo scrivere un romanzo, adesso, perché lei ha detto che uscirà con me se scriverò un romanzo che le piacerà, anche se nessuno dovesse pubblicarlo… E questo significa che le sono simpatico più di quanto pensavo.»

James Drake, che aveva ascoltato attentamente, si lisciò i baffi con un dito. «Oppure è convinta che lei non riuscirà a scrivere un racconto qualunque» disse.

«Lo scriverò» affermò recisamente Peterborough.

«E allora coraggio» rispose Rubin.

«Ho già lo spunto. Posso scrivere un romanzo, ne sono sicuro. Ho qualcosa di buono in mente e ho già pensato anche al finale, sicché posso procedere dando quello sguardo a ritroso che diceva lei, signor Rubin. Quello che mi manca è un motivo.»

«Un motivo?» esclamò Rubin, sorpreso. «Ma io credevo di aver capito che lei vuole scrivere un racconto di fantascienza.»

«Sì, ma è una specie di giallo fantascientifico, e allora mi ci vuole un motivo. Ho già pensato al modus operandi dell’omicidio, al modo in cui deve avvenire, ma non sono riuscito a trovare un perché, un movente. Comunque, ho pensato che se potevo venir qui ne avrei discusso con voi.»

«Lei poteva che?» domandò Rubin, alzando la testa e fissandolo sorpreso.

«Soprattutto con lei, signor Rubin. Ho letto i suoi romanzi polizieschi… Non leggo solo fantascienza, e mi sono sembrati meravigliosi. Lei è sempre così bravo a trovare moventi, e allora ho pensato che forse poteva aiutarmi a cavarmi dai pasticci.»

Rubin respirava forte e pareva proprio che, uscendo dalla gola, il fiato lo bruciasse. Aveva cenato male, a base di riso scondito e insalata, tanto che, per calmare la fame, si era servito due volte col dolce, coupe aux marrons, e adesso se lo sentiva sullo stomaco. Non era quindi nelle migliori condizioni di spirito per far sfoggio di quella serenità di giudizio di cui qualche volta sapeva dar prova. «Parliamo chiaro, mio caro giovanotto» disse seccamente. «Lei ha fatto una scommessa. Vuole un pretesto per abbordare una ragazza, per ottenere da lei non importa cosa, e per riuscirvi si è impegnato a scrivere un racconto che le piaccia e che magari si possa pubblicare… Ma adesso lei vuol vincere la scommessa ingannando la ragazza, vuole che il racconto glielo scriva io. È così?»

«No! No!» si affrettò a rispondere Peterborough. «Non è questo che intendo. Il racconto lo scriverò io. Chiedevo solo una mano per trovare un movente per il delitto.»

«E, a parte questo, il racconto lo scriverebbe lei» disse Rubin. «E cosa ne direbbe se io glielo dettassi? Sarebbe sempre lei a scriverlo, le pare? Un’opera scritta di suo pugno e con la sua calligrafia.»

«Non sarebbe assolutamente la stessa cosa.»

«È la stessa cosa, giovanotto, e lei può benissimo fermarsi qui. Scriva da solo quel racconto, oppure dica a quella ragazza che non ci riesce.»

Peterborough si guardò intorno avvilito.

«Accidenti, Manny» sbottò Trumbull. «Si può sapere che hai? Ti ho sentito dire tante volte che le idee si trovano per due centesimi la dozzina, ma che è difficile metterle giù decentemente! E dagli un’idea, allora. Gli resterà sempre la parte più difficile, e dovrà sbrigarsela da solo.»

«No» replicò Rubin, scostando la sedia dalla tavola e incrociando le braccia. «Se avete il senso dell’etica atrofizzato, dategliela voi l’idea che cerca… se ne siete capaci.»

«E sta bene!» replicò Trumbull. «Siccome sono io a fare gli onori di casa, potrei decidere inappellabilmente il da farsi, e invece preferisco mettere ai voti la proposta. Chi è favorevole a dare una mano al giovanotto?»

Trumbull alzò la mano, imitato da Gonzalo e da Drake.

Avalon, piuttosto incerto, si raschiò la gola. «Tom, mi rincresce, ma devo dar ragione a Manny. Se lo aiutassimo, inganneremmo la ragazza.»

«Come insegnante, non posso non disapprovare un aiuto esterno» spiegò Halsted.

«Tre favorevoli e tre contrari» disse Manny. «Cosa intendi fare, adesso?»

«Non hanno votato tutti» rispose Trumbull. «Henry è uno dei nostri, e il suo voto darà la maggioranza a qualcuno. Henry?»

«La mia posizione di socio onorario, signore…» incominciò a dire Henry, esitante «non penso che mi dia diritto a…»

«Henry, lei non è un socio onorario, ma un Vedovo Nero a pieno titolo. Decida!»

«Henry» intervenne Rubin «non dimentichi che lei è sempre stato l’epitome dell’onestà. Da che parte preferisce stare quando si tratta d’ingannare una ragazza?»

«Niente propaganda elettorale» intimò Trumbull. «Henry, proceda.»

La fronte di Henry s’increspò in un rarissimo cipiglio. «Non ho mai preteso di essere particolarmente onesto, ma se lo fossi, vorrei considerare questo come un caso del tutto eccezionale. Rammento quando Giulietta dice a Romeo: “Giove ride delle bugie degli amanti”. È forse necessario chiarire il concetto?»

«Henry, lei mi meraviglia» disse Rubin.

«Forse mi svia il fatto che io non vedo questa storia come una sfida fra un giovanotto e una ragazza, ma fra un giovane dedito alle lettere e un giovane atleta. In un certo senso, noi tutti siamo uomini di lettere, magari saltuariamente; ciascuno di noi può aver perso la ragazza perché si era invaghita di un atleta e io provo un certo imbarazzo se confesso che a me è capitato. E allora penso che…»

«Be’, a me non è capitato» rispose Rubin. «Nessuna ragazza mi è stata soffiata…» tacque improvvisamente, riflettendo, poi riprese con voce alterata: «Insomma, non ha la minima importanza. Sono stato messo in minoranza, e allora, sentiamo! Sentiamo questo intreccio, Peterborough.»

Peterborough s’era fatto rosso e sudaticcio. «Del romanzo che ho in mente vi dirò lo stretto necessario, l’unico punto oscuro, sul quale chiedo il vostro aiuto. Vi chiedo solo il minimo indispensabile…»

Tacque confuso, e fu proprio Rubin a incoraggiarlo, con sorprendente cortesia. «Continui, non si preoccupi. Comprendiamo benissimo.»

«Grazie» rispose Peterborough. «Apprezzo moltissimo quello che fate. Dunque, ho due uomini, diciamo l’assassino e la vittima. Ho pensato al modo in cui l’assassino commette il delitto e come faranno per smascherarlo e arrestarlo e su questi particolari non dirò una parola. Assassino e vittima sono tutti e due osservatori appassionati delle eclissi.»

«È forse anche lei un appassionato di questi fenomeni celesti?» domandò Avalon.

«Sì, lo sono. Ho amici che si recano anche in capo al mondo quando c’è un’eclissi, anche se è solo del cinque per cento, ma io non me lo posso permettere e non ne avrei nemmeno il tempo. Vado a vedere quelle che posso e ho un buon teleobiettivo e tutta l’attrezzatura fotografica necessaria.»

«Bene» commentò Avalon «può essere un aiuto conoscere il fenomeno quando se ne deve discutere. Se si parla di un argomento del quale si è all’oscuro, si rischia di fare brutta figura.»

«E la ragazza che le sta a cuore si appassiona anche lei alle eclissi?» domandò Gonzalo.

«No. Magari ci si appassionasse!»

«Ma se lei non condivide la sua passione, può sempre trovarne un’altra da poter condividere.»

Peterborough scosse la testa. «Non credo che funzionerebbe, signor Gonzalo.»

«Penso anch’io che non funzionerebbe affatto» disse Trumbull. «E tu, Mario, piantala una buona volta e lascialo parlare.»

Peterborough riprese a spiegare. «Vittima e assassino stanno scattando fotografie di una eclissi. Inaspettatamente, la vittima, che è il povero diavolaccio, quello che ha sempre la peggio in tutte le occasioni, scatta le fotografie più belle e l’assassino, incapace di rassegnarsi, decide di sopprimerlo. Ecco, è tutto qui. Superato questo scoglio, non ho altre difficoltà.»

«Ma se è così, lei ha il motivo!» disse Rubin. «Dov’è la difficoltà?»

«Il guaio è questo: come si fa a dire che una fotografia è migliore di un’altra? Una fotografia di una eclissi è sempre e soltanto la fotografia di una eclissi. Alcune sono migliori di altre, questo è vero, ma se immaginiamo che i due fotografi hanno più o meno le stesse capacità, non ci potrà essere una gran differenza nella qualità delle fotografie! Non tanta, comunque, da motivare un delitto.»

«Lei può sempre congegnare il racconto in modo da far apparire come un movente ragionevole anche una differenza insignificante» rispose Rubin, stringendosi nelle spalle. «Comunque, devo ammettere che ci vorrebbe un esperto per riuscirci. Lasci perdere le eclissi e provi con qualcosa di diverso.»

«Non posso. Tutto l’intreccio dell’assassinio, l’arma usata e l’indagine che porta alla scoperta del criminale si basano sulle fotografie dell’eclissi e io non posso cambiare tutta la trama.»

«Giovanotto» intervenne Drake «non ho ancora capito cosa ci sia di fantascientifico nel suo racconto.»

«È vero, non ne ho parlato affatto» rispose Peterborough. «Comunque, volevo esporre il minor numero di particolari. Per ciò che mi propongo di scrivere dovrò ricorrere a tecniche avanzatissime sull’impiego dei cervelli elettronici e a trucchi fotografici fantascientifici. Un personaggio, non ho ancora deciso quale dei due, fotografa l’eclissi da un aviogetto stratosferico.»

«E allora perché non va sino in fondo?» disse Gonzalo. «Se dev’essere un racconto di fantascienza… Senta, mi lasci dire come farei io. L’assassino e la vittima sono entrambi studiosi appassionati del fenomeno delle eclissi e l’assassino è il più bravo dei due. E allora ci metta l’assassino su quell’aereo, lo metta in grado di scattare le più belle fotografie di una eclissi che siano mai state scattate prima ricorrendo a qualche trucco fotografico di sua invenzione. Dopo, e contro ogni ragionevole aspettativa, faccia in modo che la vittima lo superi scattando fotografie migliori. Mandi la vittima sulla Luna a scattare le fotografie di quella eclissi. L’assassino va su tutte le furie, perde il lume della ragione e il gioco è fatto.»

«La foto di una eclissi scattata da uno che sta sulla Luna!» sbottò energicamente Rubin.

«E perché no?» replicò Gonzalo, offeso. «Possiamo andare sulla Luna anche oggi, se vogliamo, e mi sembra che non ci sia niente di male se immaginiamo di andarci in un racconto di fantascienza. E sulla Luna non c’è atmosfera, se non m’inganno. Non occorre essere scienziati per sapere queste cose, e tutti sanno che le fotografie riescono meglio se non c’è l’aria di mezzo. Le fotografie riescono più nitide, vero Milton?»

«Sì, ma…»

Rubin lo interruppe. «Mario, cerca di ascoltare attentamente. Si ha una eclissi di Sole quando la Luna si interpone fra la Terra e il Sole. In queste condizioni, gli osservatori che stanno sulla Terra vedono il Sole oscurato perché il corpo opaco della Luna lo nasconde e noi che stiamo sulla Terra ci troviamo dentro il cono d’ombra proiettato dalla Luna…» poi, con voce fattasi acuta, proseguì: «E adesso spiegami come faresti ad essere nel cono d’ombra proiettato dalla Luna stando direttamente sulla Luna!».

«Vacci piano, Manny» disse Avalon. «Una eclissi è una eclissi e nient’altro che una eclissi. Si hanno eclissi lunari quando la Terra s’interpone fra il Sole e la Luna, nel qual caso la Luna si trova nel cono d’ombra proiettato dalla Terra, e l’intero disco lunare può risultarne oscurato.

«Io la vedo così: l’assassino scatta una magnifica foto di una eclissi della Terra, con la Luna che s’interpone fra di essa e il Sole. Possiede strumenti avanzatissimi, che ha inventato lui stesso, sicché può ragionevolmente credere che nessuno possa scattare una fotografia migliore della Luna che si presenta davanti al Sole. Tuttavia, la vittima scatta una fotografia anche più incisiva, dalla Luna sulla quale, come dice giustamente Mario, non c’è atmosfera, mentre la Terra passa davanti al Sole.»

«Non è la stessa cosa» brontolò Peterborough.

«Certo che non è la stessa cosa» disse Halsted, che, spinta di lato la tazzina del caffè, aveva fatto alcuni rapidi calcoli. «Visti dalla Terra, il disco del Sole e quello della Luna hanno pressappoco lo stesso diametro apparente. È pura coincidenza, naturalmente, perché le condizioni astronomiche sono assai diverse. In effetti, in tempi remoti, la Luna era più vicina alla Terra di quanto lo è attualmente e il suo disco aveva un diametro apparente maggiore di quello del Sole. Comunque, lasciamo stare questo aspetto, che non ci interessa direttamente. Il fatto è che la Terra ha un diametro maggiore del diametro lunare, ma la distanza fra la Terra e il suo satellite è sempre quella, tanto per chi sta sulla Terra quanto per chi sta sulla Luna, ma come conseguenza il disco della Terra nel cielo è molto più grande di quanto non appaia il disco della Luna. Hai afferrato il concetto?»

«No» replicò schiettamente Gonzalo.

«E allora rinuncia a capire» brontolò Halsted, con aria annoiata. «Rinuncia e credi ciecamente a quello che ti dico. Per un osservatore che stesse sulla Luna, il disco proiettato nel cielo dalla Terra apparirebbe tre volte e un terzo più grande di quanto ci appare il disco della Luna a noi che stiamo sulla Terra. Questo significa che il diametro apparente del disco terrestre apparirebbe anche molto più grande del disco solare se visto dalla Luna, e ciò per il semplice motivo che il disco solare appare pressappoco delle stesse dimensioni tanto a chi sta sulla Terra quanto a chi sta sulla Luna.»

«E allora dov’è la differenza?» replicò Gonzalo. «Se la Terra appare più grande, vuol dire che s’interpone tanto più facilmente davanti al Sole!»

«No» disse Halsted. «Un particolare che non dobbiamo dimenticare è che il disco lunare ha lo stesso diametro apparente di quello solare e quando si verifica un’eclissi totale di Sole copre interamente il disco solare lasciando tutt’intorno un anello fiammeggiante detto corona, formato dall’atmosfera del Sole. La corona sfavilla, risplende in ogni direzione; brilla di luce propria e della luce riflessa dalla Luna nuova formando vampe, bagliori, luminosità di indescrivibile bellezza. Ma se venisse a porsi davanti al Sole un corpo celeste di diametro apparentemente enorme, com’è appunto quello della Terra vista dalla Luna, non solo coprirebbe tutto il disco solare, ma anche la corona.»

«Questo in caso di eclissi totale» disse Avalon. «Ma in caso di eclissi parziale si vedrebbe sempre parte della corona, sopra o sotto il cono d’ombra proiettato dalla Terra sul Sole.»

«Una parte non è il tutto» disse Peterborough. «Non sarebbe la stessa cosa.»

Tutti tacquero, sino a quando Drake intervenne. «Giovanotto, spero che non le dispiaccia se un collega, uno che è chimico come lei, vuol mettere il becco in questa disputa. Io cerco di immaginarmi come apparirebbe la Terra nel cielo mentre s’interpone davanti al Sole. Ebbene, se riflettiamo, vediamo che la Terra ha un’atmosfera e la Luna, invece, non ce l’ha.

«Quando la Luna viene a porsi davanti al Sole, noi dalla Terra vediamo il disco lunare stagliarsi netto, preciso contro il disco del Sole. Quando la Terra passa davanti al Sole e la si osserva stando sulla Luna, il bordo del disco terrestre appare confuso, sfocato per la presenza dell’atmosfera terrestre. Questa non è, per caso, una diversità che possa servirle per lo scopo che si propone?»

«Be’, per la verità, ho già pensato a questo particolare» rispose Peterborough. «Anche quando il disco solare resta completamente nascosto dietro il cono d’ombra proiettato dalla Terra, la sua luce viene rifratta in tutte le direzioni dall’atmosfera terrestre e una luce di color rosso arancione la illumina e si riflette sulla Luna. È come se dalla Luna si scorgesse un tramonto continuo, che circonda tutta la Terra, e questa non è semplice teoria. Quando si verifica un’eclissi totale di Luna, si vede generalmente il disco lunare circondato da un alone color rosso cupo prodotto dalla luce riflessa dall’atmosfera terrestre.

«A mano a mano che l’eclissi di Sole vista dalla Luna progredisce, la parte dell’atmosfera che passa davanti al disco del Sole risplende maggiormente, ma va oscurandosi via via mentre l’altra parte s’illumina sempre più. A metà fase, per un osservatore che si trovi in un punto della superficie lunare dal quale può vedere i centri del disco terrestre e di quello solare coincidere, l’anello rosso arancione ha la stessa intensità luminosa in tutto il suo contorno, purché non ci siano banchi di nubi molto estesi nell’atmosfera terrestre.»

«Insomma» disse Drake «non è uno spettacolo più che degno perché la vittima designata lo fotografi? La Terra apparirebbe come un buco nero nello spazio con intorno un sottile anello arancione. Sarebbe…»

«No» rispose Peterborough. «Non è la stessa cosa. È troppo cupo. Sarebbe soltanto un anello color arancione cupo e niente altro. Basterebbe scattare una fotografia soltanto per avere un quadro completo della situazione, non sarebbe certo come fotografare avendo a disposizione la corona solare con tutte le sue infinite variazioni.»

«Scusa se mi ci provo io» disse Trumbull. «Tu vuoi fotografare la corona solare completa, vero?»

«Sì.»

«Correggimi se sbaglio, ma cito qualcosa che ho letto. Mi è stato insegnato che il cielo è azzurro perché la luce solare viene parzialmente riflessa dall’atmosfera terrestre. Sulla Luna, dove non c’è atmosfera, il cielo appare nero. Le stelle, che sulla Terra restano offuscate dalla luce solare riflessa dal nostro cielo azzurro, non risultano offuscate nel cielo lunare perché sulla Luna non c’è atmosfera e quindi si possono scorgere benissimo.»

«Sì, anche se io penso che il bagliore del Sole renda difficile vederle.»

«Questo non ha importanza» replicò Trumbull. «Basterebbe che tu ritagliassi un foro circolare in una lastra opaca, per esempio in una lastra metallica, e che lo ponessi alla giusta distanza dall’obiettivo della tua macchina fotografica per bloccare nettamente il disco solare fiammeggiante. Stando sulla Terra, non potresti farlo, perché anche se tu riuscissi a separare in questo modo il disco solare, la luce diffusa, riflessa dall’atmosfera terrestre, cancellerebbe la corona solare. Stando sulla Luna invece, non essendoci la luce riflessa dall’atmosfera, la corona solare spiccherebbe nettamente contro il cielo.»

«Questo è possibile in teoria» rispose Peterborough. «Per la verità, ci si riesce anche stando sulla Terra. Basta salire su una montagna molto alta e servirsi di un coronografo. Ma anche così, non sarebbe sufficiente, perché non c’è solo la luce riflessa dall’atmosfera; c’è anche quella riflessa dal suolo.

«La superficie lunare riflette molto bene la luce solare e la disperde in ogni direzione e le fotografie prese dalla Luna non sarebbero un gran che. Il motivo per il quale la Luna proietta un’ombra così netta sulla superficie terrestre è che l’ombra da essa proiettata non cade direttamente sul telescopio o sulla macchina fotografica, ma sulla superficie terrestre tutt’intorno. In condizioni ideali e con eclissi totali, la sua ombra può avere un raggio di circa duecentosessanta chilometri e ricoprire una superficie di cinquantaquattromila chilometri quadrati. Generalmente, il cono d’ombra che si proietta sulla Terra è assai più piccolo, ma quasi sempre è più che sufficiente per oscurare la superficie circostante.»

«E allora un oggetto opaco di dimensioni maggiori…» incominciò a dire Trumbull.

«Dovrebbe essere molto grande e molto lontano per conseguire l’effetto desiderato» disse Peterborough. «Sarebbe troppo ingombrante e non si riuscirebbe a maneggiarlo.»

«Un momento, forse ci sono» disse Halsted. «Per ottenere lo scopo ci vorrebbe qualcosa di molto ingombrante e sta bene. Supponiamo che ci siano stazioni orbitali di forma sferica attorno alla Luna. Se la vittima fosse a bordo di un veicolo spaziale e si collocasse in modo da interporre una stazione orbitale fra sé e il disco del Sole, otterrebbe esattamente quello che vuole. Potrebbe collocarsi a una distanza adeguata per avere la giusta superficie nel cono d’ombra e non ci sarebbe il fastidio della luce riflessa né dall’atmosfera né dalla superficie lunare. Questa mi sembra la soluzione.»

«A questo non avevo pensato» disse Peterborough, imbarazzato. «Potrebbe essere la soluzione giusta.»

Halsted sorrise soddisfatto, e il rossore gli colorì il volto sino alla radice dei capelli. «E allora ci siamo.»

«Non voglio apparire noioso» disse Peterborough «ma… se introducessi una componente spaziale creerei difficoltà di altro genere nel resto del racconto. In un certo senso, è molto importante che tutti gli avvenimenti si svolgano sulla Terra o in prossimità di essa, e nel contempo che accada qualcosa di così insolito, di così sbalorditivo da dare…»

Tacque e Rubin completò la frase rimasta a mezzo. «Così insolito e sbalorditivo da giustificare la furia omicida dell’assassino.»

«Sì.»

«Bene! Visto che qui sono io il massimo esperto dei romanzi polizieschi, credo di poterle proporre una soluzione senza che il suo personaggio debba allontanarsi troppo dalla Terra, basta che lei mi chiarisca alcuni particolari. Poco fa, ha detto che l’assassino scatta le fotografie da un aereo. Perché?»

«Oh! Perché l’ombra che la Luna proietta sulla superficie terrestre si sposta velocemente, a più di duemila trecento chilometri all’ora, ossia a circa 640 metri al secondo. Stando sulla superficie terrestre, la massima durata di una eclissi totale è di circa sette minuti. Sette minuti prima che il cono d’ombra passi e si sposti altrove. Questo accade solo quando la Terra viene a trovarsi immersa completamente nel segmento più largo del cono d’ombra della Luna, altrimenti l’eclissi totale può durare appena un paio di minuti e persino soltanto pochi secondi. Accade circa la metà delle volte che il cono dell’ombra lunare non giunga nemmeno sino alla superficie terrestre e il disco del Sole appare come una corona attorno al nostro satellite. In questo caso si ha una eclissi anulare di Sole e la luce solare che giunge sulla Terra è ancora sufficiente per offuscare tutti gli altri oggetti celesti. Una eclissi anulare non servirebbe affatto ai miei scopi.»

«Stando in un aereo invece?» domandò Rubin.

«Con un aereo ci si può spostare velocemente e seguire l’ombra, prolungando la durata dell’eclissi per un’ora e anche più, anche se sulla Terra la durata dovesse essere di qualche minuto o di pochi secondi appena. Si avrebbe molto più tempo disponibile per scattare fotografie e per fare osservazioni scientifiche. Questa non è fantascienza, ma una pratica comunemente seguita per studiare questi fenomeni.»

«E da un aereo si possono scattare ottime fotografie?» domandò Rubin. «La base è sufficientemente stabile per questo scopo?»

«Nel mio racconto, l’aereo è pilotato da un cervello elettronico che tiene conto del vento e di tutti gli altri effetti nocivi, mantenendo l’aereo perfettamente stabile. È a questo punto che iniziano gli aspetti fantascientifici del romanzo.»

«E tuttavia, alla fine l’ombra lunare finisce ugualmente per lasciare la superficie terrestre, vero?»

«Sì. Il percorso dell’eclissi ricopre solo una porzione della superficie terrestre; inizia e termina in punti ben precisi.»

«Precisamente» disse Rubin. «Dunque, l’assassino è convinto che le sue fotografie, scattate dalla stratosfera, forniranno l’immagine più bella che sia stata mai scattata di una eclissi, ma ignora che la vittima dispone di una nave spaziale. Non si preoccupi, non c’è alcuna necessità di allontanarsi troppo dalla Terra. Basta che la nave spaziale segua l’ombra della Luna dopo che questa ha lasciato la superficie terrestre e così la vittima disporrà di un tempo anche più lungo per fotografare l’eclissi, disporrà di una base più stabile e non avrà il disturbo delle interferenze atmosferiche. L’assassino fa del suo meglio e ignora che il suo avversario ha fatto qualcosa di più, che ha più possibilità di riuscire e che riesce meglio, e quando lo sa impazzisce di rabbia e lo uccide.»

«Aspetta! Aspetta!» esclamò Gonzalo, agitando tutte e due le mani, come per calmarlo. «Possiamo fare qualcosa di meglio ancora. Prendiamo in considerazione quelle eclissi anulari di cui si parlava poco fa, quando l’ombra della Luna non giunge sino alla Terra.»

«Infatti, non giunge sino sulla Terra, è esatto.»

«E quant’è distante in questi casi?»

«Dipende. In casi estremi, la punta del cono d’ombra può restare lontana centinaia e centinaia di chilometri dalla superficie terrestre.»

«Bene» disse Gonzalo. «Ma potrebbe distare soltanto… diciamo una ventina di chilometri?»

«Oh sì.»

«E sarebbe sempre un’eclissi anulare e inutile per gli scopi che lei si propone?»

«Esattamente» rispose Peterborough. «La Luna riuscirebbe a coprire quasi tutto il disco solare, ma non tutto quanto; rimarrebbe appena una sottilissima corona tutt’intorno al disco lunare, ma sarebbe sufficiente per offuscare tutto quanto con la sua luce e nelle fotografie scattate in queste condizioni non si vedrebbe la corona formata dai gas che circondano il Sole, le sue protuberanze, le sue esplosioni.»

«Ma cosa accadrebbe se ci innalzassimo di una ventina di chilometri sopra la superficie terrestre?» domandò Gonzalo. «Allora l’eclissi diverrebbe totale, non è vero?»

«Per chi venisse a trovarsi nel punto giusto, sì.»

«E allora ci siamo davvero. C’è un’eclissi anulare di Sole e l’assassino pensa di fare un colpo sensazionale: sale sul suo aereo e così può fotografare un’eclissi anulare facendola apparire come totale. La vittima sale su una nave spaziale, può seguire più a lungo il fenomeno e scatta fotografie più belle. Niente potrebbe far imbestialire di più l’assassino.»

«Benone, Mario» disse Avalon, accompagnando le parole con un cenno d’approvazione. «È un miglioramento, non c’è che dire.»

Rubin aveva l’espressione di chi, senza accorgersene, ha appena morsicato un limone. «Mi dispiace doverlo ammettere, Mario…»

«Ma non occorre che tu lo dica, Manny, non occorre!» rimbeccò Gonzalo. «Te lo leggo benissimo in faccia! Comunque, giovanotto, lei adesso ha quello che cercava. Scriva quel romanzo.»

«Sì» disse Peterborough, sospirando. «Credo che sia quanto di meglio si può ottenere.»

«Non mi sembra molto soddisfatto» osservò Gonzalo.

«Speravo in qualcosa di più… diciamo oltraggioso, ma non credo sia possibile visto che nessuno di voi ha trovato…»

«Signor Peterborough, posso interromperla?» domandò Henry.

«Eh? Oh, no, grazie. Non voglio altro caffè, cameriere» rispose il giovanotto, distratto in altri pensieri.

«Non intendevo offrirle altro caffè, signore. Volevo parlare ancora dell’eclissi.»

«Henry è membro del club» spiegò Trumbull. «Ricorda che ha votato prima, decidendo la maggioranza?»

«Oh sì!» esclamò Peterborough, portandosi una mano alla fronte. «Dica pure… ehm… Henry.»

«Ci sarebbe effettivamente questa forte differenza fra le fotografie scattate in un’atmosfera rarefatta e quelle scattate nel vuoto? E la differenza fra la qualità delle une e delle altre sarebbe tale da giustificare un omicidio, a meno che l’assassino designato non fosse un maniaco omicida?»

«Proprio questo è il punto» rispose il giovanotto. «È proprio questo particolare che mi preoccupa, ecco perché continuo a dire che mi ci vuole un motivo. La diversità nella qualità delle fotografie non è sufficiente.»

«E allora cerchiamo di riconsiderare l’affermazione del signor Rubin, secondo il quale chi scrive un romanzo deve guardare a ritroso e non avanti.»

«Io conosco il finale, posso guardare indietro» rispose Peterborough.

«Io intendo nell’altro senso… Quello di guardare deliberatamente nella direzione opposta, nella direzione che si è soliti trascurare. Quando si parla di eclissi, noi guardiamo sempre la Luna, invariabilmente la Luna, se c’è un’eclissi di Luna, alla Luna che copre il Sole se si tratta di un’eclissi di Sole… e sono queste le eclissi che fotografiamo. Ma cosa accadrebbe se, invece, guardassimo indietro, se guardassimo la Terra?»

«Cosa ci sarebbe da vedere sulla Terra?» domandò Gonzalo.

«Quando la Luna viene a trovarsi nel cono d’ombra della Terra, è sempre Luna piena e, solitamente, l’eclissi è totale. Cosa accade alla Terra quando viene a trovarsi nel cono d’ombra della Luna? Certo non viene oscurata completamente.»

«No» rispose enfaticamente l’aspirante scrittore. «Il cono d’ombra della Luna è più stretto e più corto di quello della Terra e la Terra stessa è assai più grande della Luna. Anche quando la Terra taglia il cono dell’ombra lunare nella sezione di massima ampiezza, solo una porzione ristretta della sua superficie resta oscurata, si forma una piccola chiazza scura che al massimo copre un seicentesimo dell’intero disco terrestre.»

«E si potrebbe vederla stando sulla Luna?» domandò Henry.

«Sapendo in che punto del disco terrestre si deve guardare, e soprattutto disponendo di un buon binocolo, sì. La si vedrebbe piccola all’inizio, spostarsi da levante verso ponente per attraversare il disco terrestre prima ingrandendosi a poco a poco e poi rimpicciolendo sino a svanire. Sarebbe molto interessante, ma non spettacolare.»

«Non dalla Luna, è vero» disse Henry. «E adesso immaginiamo di invertire i ruoli dei due personaggi. È la vittima designata che ha a disposizione l’aeroplano e che fotografa l’eclissi dalla stratosfera; è l’assassino designato che intende surclassarla scattando fotografie più belle e spettacolari dallo spazio. Supponiamo anche che la vittima, malgrado lo svantaggio palese, contro ogni aspettativa scatti fotografie infinitamente più spettacolari di quelle che scatta l’assassino dalla sua nave spaziale.»

«E come farebbe?» domandò Avalon.

«La vittima, dal suo aeroplano, s’accorgerebbe subito che non ha alcuna necessità di guardare la Luna. Guarderebbe indietro, sulla Terra, e vedrebbe l’ombra della Luna corrergli incontro. L’ombra della Luna è solo una macchiolina scura se vista dalla Luna stessa ed è soltanto il giungere di una breve notte se vista dalla Terra. Ma per chi sta su un aereo nella stratosfera è un cerchio di tenebra in corsa veloce, che si sposta a duemilatrecento chilometri all’ora inghiottendo le terre emerse e i mari… e anche i banchi di nubi ovviamente, se ci sono. L’aereo può precedere il cono d’ombra, e allora non è più necessario scattare fotografie singole perché una cinepresa permetterebbe di girare un film altamente drammatico. In questo modo, l’assassino, che aveva creduto di poter surclassare la vittima, si accorgerebbe che quest’ultima ha conseguito fama internazionale pur disponendo di un semplice aeroplano contro la sua nave spaziale.»

Gonzalo proruppe in un applauso fragoroso. Trumbull esclamò con voce tonante che era perfetto e persino Rubin accennò di sì e sorrise.

Quanto a Peterborough, cambiò repentinamente espressione e disse: «Ma sicuro! E l’ombra che si appressa avrebbe un alone rosso perché nel momento in cui l’ombra raggiunge l’osservatore le protuberanze rosse gettano la loro luce che non resta offuscata dalla bianca luce solare. Ecco la soluzione, Henry! E se scriverò bene questo racconto, non m’importerà nulla se non verrà pubblicato. Non me n’importerà niente nemmeno se… uhm… sì, se non le piacerà e se non uscirà con me. Questo romanzo è più importante.»

Henry sorrise e disse gentilmente: «Mi fa piacere sentirglielo dire, signor Peterborough. Uno scrittore deve avere sempre il senso delle priorità».


(Titolo originale: The backward look)


George Scithers, il dinamico e capace redattore della «Isaac Asimovs’ Science Fiction Magazine», che ha vinto il premio Hugo assegnato al miglior redattore al convegno mondiale della Fantascienza nel 1978, quando la rivista da lui diretta era appena al settimo numero (riconoscimento tempestivo e ben meritato), aveva constatato che l’Oggetto mancante era piaciuto ai lettori e, come conseguenza, mi aveva chiesto un altro racconto di fantascienza della serie dei Vedovi Neri. Esaudii la richiesta scrivendo Uno sguardo indietro, che venne pubblicato nel numero di settembre della suddetta rivista frattanto giunta al secondo anno di vita e diventata bimestrale, per diventare mensile nel terzo anno dalla nascita.

In questo racconto, tuttavia, qualcuno si riferisce a Isaac Asimov definendolo un ben noto scrittore di fantascienza e Manny Rubin, come sempre, reagisce con una certa impazienza quando si sente dire che Asimov è suo amico. È un trucco al quale ricorro solo raramente, per burla e non per malignità.

Questa, ovviamente, è una maniera come un’altra per pavoneggiarsi, ma il legame fra me e i miei gentili lettori è solido e amichevole e mi piace credere che non ci faranno caso se ogni tanto mi dimostro indulgente con me stesso, anche se questa volta ho calcato un poco la mano introducendo Lester Del Rey e descrivendolo con un: “Be’ non è proprio Isaac Asimov, ma può andare”.

Naturalmente resto in attesa, con una certa apprensione, che Lester replichi per le rime. Il fatto è che io e Lester siamo ottimi amici da quasi quarant’anni, ma sono anche quarant’anni che ci becchiamo come galletti da combattimento.