Domani
Quando Emmanuel Rubin era irritato, gli occhi, dietro le lenti spesse, gli si facevano più grandi. «E tu hai portato qui un redattore, come tuo ospite?» domandò piano, sibilando le parole.
Il treno che aveva preso per venire da New Jersey era arrivato in ritardo e James Drake era arrivato appena in tempo alla cena che mensilmente riuniva i Vedovi Neri, proprio lui che quella sera faceva gli onori di casa. Ancora irritato da quel contrattempo, non era nelle migliori condizioni di spirito per subire rimbrotti. «E perché no?» rispose con una rudezza insolita in lui. Poi, scuotendo la cenere dalla sigaretta, aggiunse: «Se possiamo avere gli scrittori come ospiti, e anche come soci, sai dirmi perché non dovremmo portar qui anche i redattori?».
Rubin, che era uno scrittore, rispose altezzosamente. «Ma è naturale! Un chimico non può capire queste distinzioni.»
Rubin fissava l’ospite, alto e magro, coi capelli biondo-rossicci piuttosto lunghi, baffi corti e una barbetta che gli davano un aspetto da Robin Hood, ma Drake non intendeva lasciar perdere. «Può darsi che io sia un chimico per te, Manny, e magari anche per il mondo intero, ma per lui io sono uno scrittore.» Poi, cercando di assumere un’aria intrisa di modestia che non ingannava nessuno, continuò: «Sto scrivendo un libro».
«Chi? Tu?» esclamò Rubin.
«Perché no? So parlare, e a giudicare dalla carriera che hai fatto tu, mi sembra che sia il solo requisito necessario.»
«Se il tuo ospite la pensa come te, allora bisogna riconoscere che ha tutto quanto occorre e basta per fare il redattore. Ma dimmi, come si chiama?»
«Stephen Bentham.»
«E per quale casa editrice lavora?»
«Per la Southby Publications.»
«Quella chiavica!» esclamò sprezzantemente Rubin. «Una casa editrice che si occupa solo di sesso, di sensazionalismi e di pornografia. E cosa vogliono da te?»
«Sto scrivendo un libro sulle possibili ricombinazioni dell’acido desossiribonucleico, meglio noto come DNA. È un argomento di grande attualità… Non che tu possa capirci qualcosa, naturalmente…»
Mario Gonzalo, che era entrato in quel momento, udì la risposta. «Ah, sì, Jim, tutti i giornali ne parlano. È quella roba che usano per produrre i germi di nuove malattie con le quali spopolare il mondo.»
«Jim, se lo sa Mario, dovrai ammettere che qualcosa ne so anch’io» disse Rubin. «Devi ammettere che lo sanno tutti, a questo punto.»
«Bene! Allora vuol dire che il mio libro esce nel momento migliore.»
«Sì, la gente si interessa molto all’inquinamento atmosferico» replicò Gonzalo. «Su quest’argomento ho visto la pubblicità di due libri già pubblicati.»
«Ah, sì» rispose prontamente Drake. «Quelli si occupano degli aspetti controversi della materia, ossia degli aspetti politici che solleva. Io tratto soltanto l’aspetto chimico.»
«E allora non si venderà mai» sentenziò Rubin.
Fu a quel punto che Henry, il prototipo del cameriere perfetto, l’uomo senza il quale le riunioni conviviali dei Vedovi Neri non avrebbero potuto continuare, venne ad annunziare discretamente a Drake che i signori potevano accomodarsi.
Geoffrey Avalon, che per una volta tanto aveva potuto discorrere amabilmente con una persona senza doversi chinare, lui che era alto un metro e novanta, s’avvicinò a Henry. «Le mie nari hanno captato odore di mare, odore di pesce» disse. «Cosa ci hanno ammannito per cena, questa sera?»
«Una bouillabaisse, signore» rispose Henry. «Mi sembra ottima.»
Avalon annuì gravemente.
«Anche una bouillabaisse di medie pretese sarebbe eccellente» disse Roger Halsted, sorridendo. «Se questa merita l’encomio di Henry, credo che sia deliziosa.»
«E lei, signor Bentham, cosa ne pensa?» domandò Avalon. «Nessuna obiezione?»
«Non posso pronunciarmi, non l’ho mai assaggiata» rispose Bentham, parlando con un distinto accento inglese, che però non era esagerato. «Comunque, la gusterò volentieri. Un piatto francese, se non erro?»
«Di origine marsigliese» spiegò Halsted, che era sul punto di passarsi la lingua sulle labbra. «Comunque, è diventato un piatto universale. Ah, sì! A proposito, dov’è Tom?»
«Eccolo qui» rispose una voce esasperata proveniente dalle scale. «Accidenti al taxista… Grazie, Henry» disse Thomas Trumbull, con la fronte corrugata come una ragnatela per la collera, accettando il whisky e soda che Henry gli porgeva. «Non vi siete ancora messi a tavola, vedo…»
«Sei arrivato appena in tempo» rispose Gonzalo. «Se tardavi ancora un poco, Roger si sarebbe presa la tua porzione di bouillabaisse, lasciandoti digiuno. Ma cosa t’è successo col taxista?»
Trumbull, che si era seduto, bevve un’altra sorsata di whisky e imburrò una tartina. «Avevo detto a quell’idiota di portarmi al Milano, e quando ho guardato fuori mi son trovato davanti a un locale d’infimo ordine della Ottantaseiesima Strada chiamato Milano. Abbiamo dovuto fare altri dieci chilometri, attraversare Manhattan per tornare indietro, e quello a dire che non aveva mai sentito parlare di un ristorante Milano da queste parti, ma che conosceva solo quel postribolo con quel nome. Mi è costato tre dollari in più per quella corsa a vuoto.»
«Tom, incomincio a credere che rimbambisci se non t’accorgi nemmeno che ti portano nella direzione opposta a quella che devi seguire!» disse Rubin.
«Ma io non guardavo la strada» replicò Trumbull. «Ero immerso nei miei pensieri.»
«Ma non puoi fidarti del buonsenso dei taxisti di New York!» commentò l’austero Avalon. «Avresti dovuto dirglielo ben chiaro: angolo fra la Quinta Avenue e la Tredicesima Strada.»
«Grazie tante» rispose Trumbull. «Aspetta che rimetto indietro l’orologio e vado a dirglielo.»
«Vedi, Tom? Penso che potrebbe ricapitarti, ma penso anche che tu sia in grado di imparare dall’esperienza» replicò Avalon, ricevendo un sogghigno ironico in cambio dei buoni consigli.
Henry servì la bouillabaisse e la conversazione languì; i commensali erano indaffaratissimi a spolpare cozze e a frantumare gusci di aragoste.
Fu Drake che ruppe il silenzio quasi totale. «Se esaminiamo le possibili ricombinazioni del DNA…»
«Non le esaminiamo affatto» lo interruppe Rubin, infilando una conchiglia al primo colpo.
«…vediamo che tutta quanta la disputa si riduce a un bilancio dei benefici che nessuno, attualmente, può dimostrare e dei rischi che nessuno può precisare. Tutt’al più, possiamo parlare solo di probabilità in un senso o nell’altro e chi interviene nella disputa si limita ad alzare la voce cercando di aver ragione in questo modo, mascherando la mancanza di argomentazioni fondamentali. Quello che io propongo, è un esame approfondito della chimica e della genetica della materia per cercar di capire le possibilità reali e il significato dei possibili mutamenti genetici specifici. Senza un esame del genere, le due correnti si perdono in diatribe inutili. È come se cercassero, in una stanza buia, un gatto nero che non c’è.»
«E tutto ciò dovrebbe essere destinato alla massa?» domandò Avalon.
«Sicuro!»
«Ma non è un argomento piuttosto ostico per il vasto pubblico dei lettori?»
«Non è un libro per gli appassionati di fumetti, ma credo che possa interessare tutti i lettori che si dedicano a letture scientifiche, da quelli che leggono “Scientific American” a quelli che leggono “Natural History”. Bentham, glielo dica lei» aggiunse Drake, forse un po’ troppo compiaciuto. «Glielo dica lei, che ha letto i capitoli del saggio che ho mandato.»
Bentham, che aveva attaccato con aperta diffidenza la bouillabaisse e via via ne era diventato entusiasta, non si fece pregare. «Il mio è un giudizio strettamente personale, si capisce. Comunque, penso che se posso seguirlo io, possa farlo anche una persona che sia in possesso di una istruzione di medio livello.»
«Comunque, anche così è una bella restrizione» disse Gonzalo.
«Non si può dire» rispose Bentham. «È un argomento di gran moda, e se il libro verrà adeguatamente pubblicizzato…»
«La Southby è specializzata in queste operazioni» brontolò Rubin.
«Potrebbe vendersi» continuò Bentham, come se non avesse udito. «La gente che non capisce potrebbe acquistarlo ugualmente perché l’argomento è di moda e, chissà, potrebbe anche leggerlo e capirci qualcosa.»
Drake picchiettò sul bicchiere e Henry prese a servire il brandy. «Se siamo tutti sazi di pesce e se Henry porterà via i tovaglioli e le coppe dell’acqua, penso che potremo incominciare a mettere sotto pressione il nostro ospite, il signor Stephen Bentham. Tom, lo vuoi tu, questo onore?»
«Volentieri» rispose Trumbull. «Signor Bentham, di solito noi chiediamo ai nostri ospiti quali motivi possono addurre per giustificare il fatto che sono al mondo. In questo caso, penso che possiamo prendere in considerazione il fatto che lei è impegnato nella pubblicazione di un libro del quale è autore il nostro esimio collega, il dottor Drake, e questo motivo potrebbe bastare. Passeremo, quindi, a domande di carattere più mondano. Lei sembra molto giovane. Quanti anni ha?»
«Ventotto.»
«Ho l’impressione che sia venuto negli Stati Uniti solo recentemente. M’inganno?»
«Sono venuto qui per lavoro appena cinque mesi fa, ma ci sono stato altre tre volte in precedenza, per brevi visite.»
«Capisco. E quali titoli possiede per il posto che occupa? Come redattore, voglio dire.»
«Non sono quanto può esserci di meglio» rispose Bentham, sorridendo garbatamente. «Come redattore ho fatto qualche esperienza con la Fearn and Russell a Londra. Mi sono trovato bene. Non erano opere impegnative, ma bisogna riconoscere che in Inghilterra non si pubblica molto di impegnativo.»
«E perché ha gettato via quel lavoro per impegnarsi con una casa americana in un lavoro che potrebbe rivelarsi assai più impegnativo? Io, anzi, penso che lo sia.»
«Infatti» rispose Bentham, con un altro sorriso accattivante. «Ma non c’è alcun mistero nella mia venuta qui. Anzi, la spiegazione è così semplice, che mi sento persino imbarazzato ad ammetterla. Il motivo che mi ha indotto ad accettare si riassume in una parola sola: denaro. Mi hanno offerto uno stipendio triplicato rispetto a quello che percepivo in Inghilterra e mi hanno pagato tutte le spese del viaggio.»
«Signor Bentham, lei è sposato?» domandò Halsted.
«No, signor Halsted. Sono scapolo, anche se scapolo non significa necessariamente solo. Comunque, anche agli scapoli fa comodo il denaro.»
«Tom, se non ti dispiace, vorrei fare al nostro ospite una domanda che è l’esatto contrario di quella che gli hai rivolto tu poco fa» disse Rubin. «Signor Bentham, io posso comprendere e apprezzare il motivo che l’ha indotta ad accettare l’offerta della Southby Publications. So che il denaro è una molla capace di agire potentemente sulle azioni umane, ma non capisco per quale motivo quella specie di casa editrice si è indotta ad assumerla. Lei è giovane, non ha molta esperienza e quelli non son tipi da assumere giovani promettenti per pura e semplice bontà di cuore! Eppure le hanno offerto un buon stipendio, le hanno rimborsato le spese di trasferimento, e io sarei curioso di sapere quale genere di influenza lei può esercitare su gente come quella.»
«Durante una delle mie precedenti visite negli Stati Uniti avevo conosciuto il signor Southby in persona. Penso che mi abbia preso in simpatia» rispose Bentham, rosso in viso per la confusione. «Forse saranno stati il mio accento, il mio aspetto a far buona impressione. Forse, assumendomi, il signor Southby voleva dare un tono più colto, più serio alla sua casa editrice.»
«Insomma, pensava di acquisire una certa classe, un certo stile» brontolò Avalon, facendo arrossire sempre di più il povero Bentham.
Trumbull riprese l’interrogatorio. «Manny definisce una suburra quella casa editrice. Lei è d’accordo?»
«Non saprei» rispose Bentham, esitante. «Cosa significa, esattamente?»
«Libri mediocri, porcherie» rispose Rubin. «Roba che si vende grazie a forti campagne promozionali, grazie alla pubblicità che punta tutto sul sesso e sulla curiosità morbosa.»
Bentham non rispose.
«Stephen, non abbia timore» disse Drake. «Nessuno verrà a sapere una sola parola di quanto dirà qui dentro. Noi garantiamo una segretezza assoluta.»
«Non è per questo, Jim» rispose Bentham. «Se io mi dicessi d’accordo col signor Rubin, potrei offendere lei. Dopo tutto, è uno dei nostri autori.»
«Nemmeno per idea» rispose Drake, accendendosi un’altra sigaretta. «Se è vero che l’hanno assunta per dare un certo tono di rispettabilità alla casa editrice, sono certo che si servirà del mio libro per accentuare quel tono e che lo tratterà in conseguenza.»
«La nostra casa editrice pubblica molti libri sui quali preferisco non pronunciarmi, ma Drake ha ragione» disse Bentham. «Il signor Southby non rifiuta i buoni libri se crede che si possano vendere. Quel che ha letto del libro di Drake gli è piaciuto; ne è persino entusiasta. Forse si può migliorare lo stile della casa editrice.»
«Tom, in questa discussione vorrei metterci il becco anch’io, se non ti rincresce» disse Avalon. «Signor Bentham io non sono uno psicologo né uno di quegli individui che pretendono di indovinare i pensieri degli uomini studiando quello che dicono. Sono solo un povero avvocatuccio, io, ma mi è sembrato di notare che lei si sentiva a disagio ogni volta che menzionava il suo principale. È sicuro di non nascondere nulla, nessun particolare che il signor Drake potrebbe avere il diritto di conoscere? Quella che le chiedo è una risposta che non si presti ad equivoci.»
«Sì» rispose prontamente Bentham. «Non c’è niente che non vada nel libro del dottor Drake. Se quanto resta ancora da scrivere rimarrà al livello di quel che abbiamo già letto ed esaminato, lo pubblicheremo e cercheremo di promuovere adeguatamente la vendita. Questo lo posso affermare senza sottintesi.»
«E allora cos’è che la mette a disagio? Oppure Geoff si sbaglia e lei non si sente affatto a disagio come lui crede?» domandò Gonzalo, osservando compiaciuto la caricatura di Bentham, che aveva appena terminato di schizzare per appenderla alla parete assieme a quelle degli altri ospiti.
A Gonzalo non era sfuggita la rassomiglianza dell’ospite con l’eroe delle antiche saghe anglosassoni e Bentham appariva con berretto piumato di colore verde e nella foggia normalmente attribuita ai berretti degli allegri compari della foresta di Sherwood.
«Può dirlo che sono a disagio» esclamò Bentham, incollerito. «Rischio di prendermi gli otto giorni!»
«Licenziato?» domandò Gonzalo, la cui voce era salita di tono.
«Proprio così.»
«E perché?» domandò Drake, preoccupato.
«Ho perso un manoscritto» rispose Bentham. «Non il suo. Un altro.»
«Con la posta?» domandò Gonzalo.
«No. Secondo Southby me lo sarei fatto soffiare stupidamente. Invece ho fatto tutto quanto era umanamente possibile per riaverlo, ma non riesco proprio a capire cosa potesse passare nella testa di quell’uomo.»
«Di chi? Di Southby?»
«No, dell’autore» rispose Bentham. «Si chiama Joshua Fairfield.»
«Mai sentito nominare» disse Rubin.
«Signor Bentham, perché non ci racconta com’è andata?» disse Trumbull.
«È una storia stupida, sordida addirittura. Non ho alcuna intenzione di guastare una bella serata.»
«Spiacente, signor Bentham» disse Trumbull «ma penso che Jim gliel’abbia detto che chi accetta il nostro invito paga la cena rispondendo alle nostre domande. Quindi la prego di dirci esattamente cosa ne è stato di quel manoscritto.»
«Per un redattore non c’è niente di più interessante, di più eccitante, del vedersi capitare fra le mani qualcosa di veramente buono» prese a dire Bentham. «Un manoscritto, un libro che non è ancora passato per le mani di un noto agente letterario e non è stato scritto da un autore già affermato; un manoscritto che ci arriva con la posta, scritto da qualcuno che nessuno ha mai sentito nominare.
«Oltre al piacere per quell’inatteso colpo di fortuna, c’è la possibilità di aver scoperto un nuovo autore di successo, a meno che non si tratti di uno scrittore la cui vena si inaridisce subito dopo la prima opera, fenomeno, questo, tutt’altro che infrequente.»
«Margaret Mitchell…» incominciò a dire Rubin, ma tacque subito dopo che Trumbull gli aveva rifilato, senza tanti complimenti, una gomitata.
«Comunque» riprese a dire Bentham, per nulla turbato dalla momentanea interruzione «il signor Southby pensava di aver trovato un simile autore. Uno dei nostri recensori gliel’aveva segnalato, contentissimo della scoperta, perché di solito i testi che diamo in lettura non escono dalla mediocrità.
«Quell’uomo avrebbe potuto portare il manoscritto a uno dei redattori… Non necessariamente a me. Invece preferì portarlo direttamente al signor Southby, forse pensando che la scoperta di un talento fosse un titolo di merito e deciso a far sapere che lo scopritore era proprio lui. Del resto, io non me la sento di biasimarlo.
«Southby s’infatuò di quel manoscritto, indisse una riunione di tutti i redattori, informandoci dell’acquisto dell’opera. Preso dall’entusiasmo, disse che quel testo doveva avere il trattamento riservato dalla casa editrice alle grandi occasioni…»
«Sino alla palese falsificazione della lista dei capolavori editi nell’annata» disse Rubin. «E Tom, se usi il gomito un’altra volta, bada che te lo rompo.»
«Temo che lei abbia ragione» disse Bentham. «Comunque, quel manoscritto lo meritava davvero. Southby disse che bisognava adattarlo, correggerlo e lo diede a me perché ne curassi la redazione. Quell’incarico mi parve una dimostrazione di fiducia e io mi accinsi al lavoro con tutto l’entusiasmo di cui sono capace; mi pareva che dovesse esserci una promozione a portata di mano se mi fossi dimostrato capace di fare un buon lavoro, ma gli altri redattori non la pensavano così, tant’è vero che uno di essi mi disse: “Se sarà un fiasco, ci andrai di mezzo tu, perché Southby non sbaglia mai”.»
«Capita, a volte, che un subordinato venga licenziato perché non ha saputo rimediare un errore commesso dal suo superiore» disse Avalon.
Bentham annuì. «L’avevo pensato anch’io, ma quel pensiero mi spronò invece di preoccuparmi. La consapevolezza del rischio che si corre può aguzzare l’ingegno.
«Come potete immaginare, presi in mano quel manoscritto in uno stato d’animo estremamente teso. Lo lessi una prima volta senza affrettarmi per afferrarne il significato nel suo insieme e non ne fui dispiaciuto. Nel complesso, il giudizio datone da Southby non era sbagliato; la trama manteneva un ritmo regolare ed era ricca di particolari, di episodi. Era una lunga saga familiare, con un padre autoritario e dominatore e una madre alquanto scaltra e insinuante impegnati in una lotta subdola per accaparrarsi i figli, le nuore e i nipoti. Il tutto formava un intreccio perfetto, che non s’interrompeva mai e c’era quel tanto di sesso che poteva andar bene per la Southby, ma il sesso funzionava, si addiceva al racconto.
«Scrissi una recensione favorevole, segnalando quelle che, secondo me, erano le pecche maggiori e il modo per rimediarvi. Il manoscritto mi venne restituito con un appunto che diceva semplicemente: “Molto bene”, e io mi misi al lavoro. Bisognava stringarlo un poco. L’ultima cosa che i principianti, per quanto bravi possano essere, imparano a fare, è di essere stringati. Alcuni episodi erano fuori posto o non erano messi adeguatamente in risalto e quindi bisognava correggerli.
«Per quanto mi riguarda, non sono uno scrittore e non lo sarò mai, ma ho studiato opere somme quanto basta per saper correggere ciò che è stato scritto da altri, migliorando ciò che è già scritto bene anche se io non sarei mai capace di scrivere niente di simile. Mi ci vollero sei settimane di intense fatiche per terminare la correzione di quel manoscritto, ma ero sicuro di aver fatto un buon lavoro, ero sicuro che non avrei perso la battaglia per mancanza di polvere da sparo.
«Finita la revisione, chiamai l’autore per discutere con lui il lavoro fatto. Mi sembrava la cosa migliore e se non l’avevo chiamato prima era stato per evitare discussioni, disaccordi e acrimonie sugli interventi da effettuare, per evitare perdite di tempo normali in casi del genere. Pensavo che sarebbe stato facile fargli accettare i cambiamenti se li avesse visti nel loro insieme, nel contesto del romanzo; pensavo che sarebbe stato facile venire ad un accordo sulle modifiche di minor conto.
«Così avevo ragionato io, ma forse avrei avuto bisogno di un po’ più di esperienza in fatto d’uomini. Venne l’autore. Era la prima volta che c’incontravamo e per la verità non mi piacque molto. L’uomo aveva circa la mia età, tetro e accigliato, basso di statura, con occhi scuri, piccoli come due capocchie di spillo e con una brutta dentatura.
«Mi lanciai in tutti i convenevoli del caso: ci stringemmo la mano, gli dissi che eravamo tutti entusiasti del suo lavoro, che avrebbe avuto un grande successo, che noi l’avremmo reclamizzato a dovere e così via. Poi, quasi parlando a caso, gli dissi che qua e là eran stati apportati alcuni mutamenti di nessuna importanza, che mi ero preso la libertà di intervenire per correggere piccoli particolari…
«Si indurì di colpo e strabuzzò gli occhietti. Afferrò il manoscritto, che era sulla scrivania, e si mise a sfogliarlo. Vedendo le correzioni, che avevo fatto con una matita ben appuntita, leggera per poter eventualmente modificare ancora, proruppe letteralmente in un urlo che mi lasciò sbalordito. Gridò che avevo scarabocchiato qualcosa in tutte le pagine, che avrebbe dovuto far riscrivere tutto di nuovo e che m’avrebbe addebitato le spese; prese le cartelle e se ne andò senza che mi riuscisse di fare qualcosa per fermarlo. Vi giuro che fui incapace di muovermi, che rimasi lì annichilito dalla sorpresa.
«Comunque non persi la testa. Il manoscritto era stato fotocopiato e avevo annotato tutte le correzioni e tutti i cambiamenti che vi avevo apportato. Siccome l’autore aveva firmato un contratto con noi… o almeno io pensavo che l’avesse firmato… avremmo potuto pubblicare il romanzo anche contro la sua volontà. Certo avrebbe potuto querelarci, ma non credo che l’avrebbe spuntata e un processo sarebbe stato una buona pubblicità che ci avrebbe aiutato a vendere meglio il libro.
«Ma purtroppo quando mi recai da Southby per riferirgli com’era andata, seppi che non c’era alcun contratto e che l’affare era sfumato. Pareva che Southby e Fairfield non si fossero messi d’accordo sull’anticipo. Certo io avrei potuto comportarmi con più diplomazia, quando lo seppi, non fu certo una buona idea dire a Southby che, anche in vista del lancio pubblicitario previsto, con le spese che comportava, non avrebbe dovuto badare a qualche migliaio di dollari in più.»
«Bene» disse Rubin «adesso lei incomincia a capire che tipo sia Southby.»
«Capisco che non doveva sorridergli l’idea di essere ritenuto il responsabile di quel fiasco. Mi ordinò di riprendere il manoscritto e mi disse chiaro e tondo che m’avrebbe licenziato sui due piedi se non ci fossi riuscito.
«Fu un tentativo disperato sin dall’inizio. Andai a casa dell’autore e quello non si fece trovare, lo chiamai al telefono e si decise a rispondere solo dopo molti tentativi, ma dovetti sudare parecchio per farmi ascoltare, perché non riappendesse. Gli dissi che avrebbe potuto ottenere l’anticipo che voleva, che ogni correzione poteva essere discussa e concordata, che potevamo ridiscutere assieme tutto il manoscritto, riga per riga. Gli dissi che nessun editore gliel’avrebbe accettato così come stava.
«Acidamente, sogghignando, lui replicò che le cose non stavano esattamente così, che un altro editore avrebbe accettato il manoscritto e l’avrebbe pubblicato esattamente così come stava. Non l’aveva ancora offerto ad altri, ma fece chiaramente intendere che avrebbe potuto farlo come e quando voleva.
«La presi per una millanteria e non mi lasciai impressionare; gli feci solo osservare, tranquillamente, che nessun’altra casa editrice, tranne la Southby, avrebbe potuto garantire un successo al suo libro e gli citai alcuni dei titoli che avevamo già pubblicato…»
«Sicuro!» lo interruppe Manny. «Porcherie come Cibo per gli dei…»
«Manny, lascialo parlare» disse Avalon.
«Per farla breve» riprese a dire Bentham «dopo circa un’ora di discussione, mi chiese se gli avrei pubblicato il manoscritto così com’era. Io gli risposi che avremmo discusso insieme i cambiamenti indispensabili e questo nel suo interesse.
«Rimase altezzoso e protervo sino alla fine, ma cedette. Quella decisione repentina mi sorprese. Disse che me l’avrebbe fatto avere il giorno dopo. Contento come una pasqua, cercai di nascondere il sollievo che provavo e gli dissi che avrei mandato qualcuno a prenderlo. Fairfield rifiutò, disse che lo avrebbe portato lui perché non voleva fattorini fra i piedi.»
«Mi sembra che sia finita bene» disse Halsted.
«No, perché il manoscritto non ce lo ridiede. Aspettammo una settimana; quando Southby riuscì finalmente a telefonargli, ne ottenne solo sarcasmi e insulti all’indirizzo del suo tirapiedi, di quel Bentham che poteva tenere per sé le sue ironie e le sue insinuazioni; disse che da lui non avremmo ricevuto alcun manoscritto a nessuna condizione e che della nostra parola non sapeva che farsene.
«Ecco come stanno le cose. Inutile dire che io non feci dell’ironia con lui, ma mi comportai con ragionevolezza e con tatto durante tutta la trattativa e se mi dimostrai fermo sulla necessità di una revisione, lo feci in un modo che non avrebbe potuto offendere nessuno, tant’è vero che aveva promesso di riconsegnarcelo il giorno dopo. Comunque, per Southby ero io che avevo perso il manoscritto per aver maltrattato scientemente quell’uomo, e adesso è fuori dalla grazia di Dio nei miei riguardi.»
«Comunque» disse Drake «per ora non l’ha licenziata, e se non l’ha fatto subito, può darsi che non lo faccia nemmeno in futuro.»
«Non mi ha ancora licenziato perché spera di riavere quel manoscritto. Io gli ho detto che Fairfield probabilmente bluffava, che forse era uno psicopatico, ma da qualche giorno non mi dà più retta, non mi ascolta nemmeno. Per dire la verità, io mi aspetto di ritrovarmi a spasso da un giorno all’altro con l’impronta della sua pedata ben netta sul fondo dei pantaloni. È probabile che finisca così, perché non ammetterà mai che non sarebbe accaduto se lui non avesse stiracchiato su quella somma irrisoria; se non si fosse impuntato su quei duemila dollari, Fairfield sarebbe stato vincolato da un contratto preciso; invece, licenziandomi, dimostrerà a tutti quanti, e soprattutto a se stesso, che sono stato io a sbagliare e non lui.»
«Comunque, anche se non la licenziasse, lei si troverebbe sempre a disagio in quella casa editrice!» disse Halsted. «Non è meglio che si trovi un altro posto?»
«Senza dubbio» rispose Bentham «ma al momento opportuno e purché fossi io a licenziarmi! Dopo tutto, il settore editoriale non offre molte occasioni oggi come oggi e io potrei stentare per trovare un altro impiego, senza contare che i miei risparmi sono molto modesti e non permettono sonni tranquilli. Quanto a Southby poi, potrebbe fare del suo meglio per ridurre ulteriormente le mie già scarse possibilità.»
«Vuol dire che potrebbe dare pessime referenze rendendole difficile ottenere un altro impiego?» domandò Rubin. «Io lo ritengo il tipo capacissimo di far questo e peggio ancora.»
La mestizia che gli si leggeva in faccia diceva chiaramente che Bentham era d’accordo con lui. «Ma ciò che mi brucia ancora più, è che se m’avessero lasciato fare avremmo avuto un buon libro, un’opera della quale avremmo potuto andare orgogliosi. Southby e Fairfield avrebbero potuto guadagnarci una fortuna, io mi sarei fatto un nome, una reputazione che m’avrebbe aiutato a procacciarmi una posizione migliore e in un’altra casa editrice. Al mondo avremmo dato un capolavoro e la promessa di altre opere di tutto rispetto, perché Fairfield ha la stoffa del romanziere, accidenti a lui, e io che ho il mio orgoglio, volevo parte del suo successo come redattore. E non è vero che ho fatto dell’ironia, e Fairfield si era convinto; aveva promesso che ci avrebbe riconsegnato il manoscritto il giorno dopo, era sincero. Perché non ha mantenuto la promessa? Ecco quel che mi angustia maggiormente. Perché?»
* * *
Ci fu un silenzio pesante, rotto alla fine da Avalon che disse: «Forse c’è una spiegazione. Ci sono stati tanti uomini di genio con un carattere impossibile, autentici villani, egoisti; Richard Wagner era un tipo del genere, Jean-Jacques Rousseau era un altro. Se questo Fairfield bluffava veramente, cosa che io sono propenso a credere, può aver pensato che Southby gli somigli e che, dopo quanto è accaduto, la licenzierà come farebbe lui in un caso del genere. Quando lei se ne sarà andato, allora riconsegnerà il manoscritto.»
«Ma perché?» domandò Bentham.
«Facile. Prima di tutto, lei ha osato mettere le mani nel suo manoscritto e lui pensa che meriti una punizione. Secondo, dopo che l’avranno licenziata, può essere ragionevolmente sicuro che Southby pubblicherà il suo racconto così com’è, senza apportare ritocchi né correzioni.»
«E allora perché aveva promesso che me l’avrebbe riportato il giorno dopo?»
Avalon aggrottò le sopracciglia arruffate nello sforzo per concentrarsi. «Forse avrà pensato che lei, contento e convinto di averlo messo nel sacco, sarebbe andato da Southby a raccontargli com’era andata, proprio come fece, sperando che dinanzi a una seconda delusione Southby avrebbe finito per licenziarla sui due piedi.»
«E tutte quelle storie sulla mia ironia le avrebbe inventate solo per far infuriare maggiormente Southby contro di me?»
«Temo proprio di sì.»
«Non è un bel quadro quello che lei ha dipinto» disse Bentham, dopo aver riflettuto brevemente. «Fra Fairfield e Southby non sembra che io abbia molto da stare allegro.»
«Mi dispiace, signor Bentham» disse Avalon, sentendosi a disagio. «Io la penso così.»
«Eppure non posso crederlo! Ho parlato per un’ora, al telefono, con quell’uomo e non m’è sembrato che volesse vendicarsi. Ostinato e duro sì, ma non vendicativo!»
«Mi rincresce insistere per sostenere una tesi che personalmente aborro io stesso» rispose Avalon. «Però immagino che lei non pensasse a una possibile vendetta da parte di Fairfield e forse la sua sorpresa deriva proprio da questo stato d’animo.»
«Ma c’è dell’altro!» protestò disperatamente Bentham. «Io ho letto il suo manoscritto e lei, invece, non l’ha letto. Ebbene, io credo che nessuno, per quanto bravo possa essere, sia capace di scrivere un libro impostando il racconto su una filosofia diversa dalla sua e…»
«Queste sono sciocchezze» disse Rubin, interrompendolo senza tanti complimenti. «Io posso scrivere un racconto sbrigliando la fantasia come mi pare e piace e sostenere qualsiasi principio morale o filosofico che sia. Potrei scriverne uno sostenendo la filosofia nazista, se volessi, eppure non sono e non sono mai stato nazista!»
«No, lei non potrebbe» replicò Bentham. «Non prenda la mia affermazione come una sfida, la prego, però io sostengo che non ci riuscirebbe. Nel racconto di Fairfield c’era tutta una varietà di motivazioni, ma niente che inducesse a una malignità immotivata del tipo che generalmente si attribuisce a un Iago. Non c’era la minima traccia di collera irrazionale che scaturisse da motivi banali.»
«Ma è proprio questo il punto dolente!» ribatté Avalon «Il motivo sembra banale a lei perché non lo vede con gli occhi di quell’uomo! Manomettere il suo manoscritto, anche per qualche inezia soltanto, gli sembra un’offesa imperdonabile ed è deciso a fargliela pagare ad ogni costo.»
«Mi dispiace unire la mia voce in questa specie di gioco del massacro» disse Trumbull, con voce turbata. «Comunque, signor Bentham, mi sembra che Geoff abbia proprio ragione.»
«Ah!» esclamò Rubin. «Io no, invece?»
«Vuol dire che, secondo lei, Fairfield non vuol farmi licenziare?» domandò ansiosamente Bentham.
«No, non credo» rispose Rubin. «Ce l’ha con lei, questo sì, ma non può pensare di spingere le cose sino al punto di nuocere a se stesso e noi dobbiamo considerare l’intera questione partendo dalla psicologia di uno scrittore. Vede, signor Bentham, io non me lo sognerei nemmeno di scoprire la personalità di uno scrittore leggendo i suoi scritti. Nessuno scrittore che si rispetti svelerebbe i propri sentimenti nei suoi romanzi, ma c’è qualcosa che vale per ogni principiante ed è proprio a questo particolare che io alludo.
«Vede, un principiante può andare su tutte le furie al minimo cambiamento che possa essere imposto al capolavoro del suo cuore, ma anche questo affronto diventa una cosa da nulla, sopportabile, dinanzi alla possibilità di farlo pubblicare.
«Ebbene, lei ha detto che quel tipo aveva litigato con Southby per duemila dollari appena. Noi disapproviamo Southby per la sua avarizia, ma non le sembra anche più strano il fatto che l’autore rischi, col suo comportamento, di perdere la possibilità di far pubblicare il romanzo e il relativo guadagno? È concepibile che un principiante, che deve aver lavorato anni e anni a quel romanzo, si metta a litigare per l’anticipo, rischiando di vedersi respingere il manoscritto?»
«E perché no?» disse Avalon. «Se è il tipo semiparanoico che Bentham ci ha descritto…»
«Ma non sarà più probabile che sia in contatto con un altro editore e che abbia tentato con Southby solo perché lo conosce e sa cosa può fare per promuovere la vendita del suo libro?» rispose Rubin. «Quel litigio sull’anticipo ha tutta l’aria di una gara della quale le due case editrici nulla sapevano. E quando Bentham ha cercato di apportare cambiamenti al suo manoscritto, Fairfield si è rivolto all’altro editore sapendo già che l’avrebbe accettato così com’era.»
«Signor Rubin» disse Bentham «vuol forse dire che Fairfield aveva già mostrato il suo manoscritto a un altro editore? Pensa forse che Fairfield si sia ripreso il manoscritto promettendo di fare le correzioni indicate e invece lo abbia proposto a noi per poi riportarlo al primo editore quando ha visto che l’anticipo era inferiore e le correzioni maggiori?»
«Sì» rispose Rubin. «Ma lei aveva apportato le correzioni sulla sua copia, e questo lo ha mandato su tutte le furie, perché lo costringeva a ribattere a macchina tutto quanto prima di ripresentarlo. Non poteva cancellare le sue correzioni perché il segno sarebbe sempre rimasto e gli altri si sarebbero accorti che cercava di menare il can per l’aia, come si suol dire. Dopo tutto, lei riuscì a telefonargli appena tre giorni dopo il litigio, e Fairfield disse che aveva pronto un altro editore. Le sembra possibile? In tre giorni, nessuna casa editrice darebbe un giudizio su un libro offerto in visione e tanto meno potrebbe impegnarsi a pubblicarlo!»
«Ma è proprio per questo motivo che io pensavo bluffasse!» disse Bentham.
«E rischiare di non farsi pubblicare il romanzo? No! Un altro editore esisteva già, l’aveva pronto prima ancora di venire da voi.»
«Forse divento imbecille» disse Trumbull. «Fatto sta che ho cambiato idea, e adesso penso che tu abbia ragione, Manny.»
«Comunque, anche se lei ha ragione, signor Rubin, io sono sempre nei guai» disse Bentham.
«No, se riuscirà a dimostrare che quel Fairfield voleva prendere per il naso qualcuno. Quando Southby lo saprà, se la prenderà con l’autore e non più con lei. Così potrà attendere l’occasione propizia e licenziarsi quando le farà comodo.»
«Ma dovrei sapere chi è l’editore che ha accettato il manoscritto, e invece non lo so. Se non gli dirò chi è, Southby non mi crederà mai. Perché dovrebbe credermi?»
«Lei è sicuro che Fairfield non lo abbia nominato mai?»
«Ne sono sicuro.»
«Come può esserne così certo?» disse Halsted, sorridendo. «Lei è qui da poco tempo, non può conoscere tutte le case editrici!»
«Ve ne sono centinaia solo qui a New York» rispose Bentham. «Non posso conoscerle tutte, è vero, ma le più grosse le conosco. E quella che ha accettato il manoscritto deve essere una grossa casa editrice.»
«Lo penso anch’io» ammise Rubin. «Nessun indizio?»
«Se c’è stato, mi è sfuggito.»
«Rifletta» lo incitò Rubin. «Ripensi alla conversazione.»
Bentham socchiuse gli occhi e rimase immobile. Gli altri tacevano, tanto che quando Drake si chinò per spegnere la sigaretta nel portacenere, s’udì la spilla della cravatta tintinnare contro il bicchiere.
Bentham, alla fine, riaprì gli occhi. «È inutile» disse. «Non ha detto niente, che possa ricordare.»
Drake guardò verso la dispensa, accanto alla quale Henry rimaneva in attesa. «Henry, è una situazione seria. Non ha nessun suggerimento da darci?»
«Ho solo il nome di quell’editore, signor Drake.»
«Cosa?» esclamò Bentham, guardandosi intorno confuso.
«Henry è uno dei nostri» si affrettò a rassicurarlo Trumbull. Poi, rivoltosi al cameriere, che aspettava in silenzio: «Ma cosa dice? Come può conoscere quel nome?»
«Credo che quell’autore, quel Fairfield, lo abbia menzionato nel corso del colloquio telefonico col signor Bentham.»
«Ma non è vero!» protestò Bentham, quasi incollerito.
Il volto giovanile di Henry non mostrò alcun segno di emozione. «Le chiedo scusa, signor Bentham, non ho alcuna intenzione di offenderla, ma lei, inavvertitamente, ha omesso una parte importante del racconto. Un episodio che somiglia alla disavventura del signor Trumbull che, prendendo il taxi, ha trascurato di guardare la direzione presa dall’autista; come l’affermazione del dottor Drake, secondo la quale le persone che dissertano sulle possibilità offerte dalla ricombinazione del DNA lo fanno senza possedere le cognizioni basilari.»
«Insomma, lei Henry vuol dire che noi stiamo cercando un gatto nero che sta in una stanza buia?» disse Gonzalo.
«Sì, signor Gonzalo. E se il signor Bentham avesse raccontato il fatto in un altro modo, adesso sapremmo pressappoco dove si trova il gatto.»
«E in quale altro modo avrei potuto raccontare l’episodio?» domandò Bentham.
«Lei ci ha fatto il racconto in forma indiretta, e così non ha potuto riferire le parole esatte pronunziate da Fairfield e da lei stesso.»
«Per la buona ragione che non le ricordo» rispose Bentham. «Non sono un registratore!»
«Eppure capita che riferendo in forma indiretta si attribuiscano ad una persona frasi o parole che non può aver pronunciato!»
«Posso garantirle che il mio resoconto era accurato» rispose freddamente Bentham.
«Ne sono convinto. Accurato entro certi limiti. Ma se è vero che c’è un altro editore, perché mai il signor Fairfield avrebbe dovuto promettere di riportarle il manoscritto “il giorno dopo”?»
«Buon Dio!» esclamò Bentham. «Me l’ero dimenticato. Dobbiamo fare un passo indietro, dunque?»
«No, signor Bentham. Io sono propenso a credere che il signor Fairfield non si è espresso con quelle parole.»
«Sì, invece. Su questo punto sono sicurissimo.»
«Provi, allora, a riferire direttamente le sue parole. Vuol dire che il signor Fairfield ha detto testualmente: “Le riporterò il manoscritto il giorno dopo”?»
«Oh, capisco cosa vuol dire» disse Bentham. «Il giorno dopo è una parafrasi, naturalmente. Fairfield ha detto: “Riporterò il manoscritto domani”, ma dov’è la differenza?».
«E lei ha accettato tutto contento, e lo ha incitato a non tardare e gli ha offerto di mandare qualcuno a prendere il manoscritto… Signor Bentham, non pensa che il signor Fairfield facesse del sarcasmo?»
«No! Ha detto: “Riporterò il manoscritto domani”, e io ne sono stato contentissimo. Dov’è il sarcasmo?»
«Domani!» rispose Henry, scandendo bene la parola. «In inglese si dice tomorrow, ma quell’uomo ha detto to Morrow!»
«Bontà divina!» esclamò Bentham, come folgorato.
«Accidenti!» sbottò Rubin, battendo il pugno sulla tavola. «A Morrow, e cioè alla William Morrow and Company, una delle più grosse case editrici di New York.»
«Sì, signore» rispose Henry. «Ho controllato subito nell’elenco telefonico per accertarmene. È al 105 di Madison Avenue, non lontano da qui.»
«A lei, signor Bentham» disse Gonzalo. «Riferisca al suo capo che il manoscritto ce l’ha la William Morrow and Company, e che l’autore l’aveva portato a loro prima di darlo in visione a voi.»
«Nel qual caso Southby mi licenzierà per imbecillità, ed è proprio quello che merito.»
«Nemmeno per idea» replicò Gonzalo. «Non gli dica tutta la verità. Gli dica che ha scoperto tutto col suo eccezionale fiuto poliziesco e che ha avuto le informazioni da una fonte che non può rivelare.»
«Dopo tutto, signore, la segretezza è la regola dei Vedovi Neri» disse Henry.
(Titolo originale: The next day)
Ho avuto un leggero attacco coronarico il 18 maggio del 1977 e dal modo in cui Janet se l’era presa avreste detto che s’avvicinava la fine del mondo. Nel luglio di quell’anno scrissi “Domani”, e siccome in quel mese si registrava un’ondata di caldo intenso con temperature canicolari, Janet non mi permise di abbandonare l’appartamento mantenuto deliziosamente fresco dal condizionatore. Dovetti spedire per posta il manoscritto alla «Ellery Queen’s Mystery Magazine».
Fu un colpo terribile, perché ogni volta che presento un manoscritto a quella rivista, devo trascorrere ore con la bellissima Eleanor Sullivan, direttrice della rivista. E quando dico trascorrere ore con lei, intendo che quelle ore le passo a inseguirla intorno alla scrivania, un esercizio che, secondo Janet, non è molto indicato per il mio cuore.
Per fortuna Eleanor sopportò il colpo che la privava della mia compagnia e mandò il manoscritto a Fred, che lo pubblicò sulla rivista nel numero di maggio 1978.
A volte mi chiedo quanto possa essere esile l’ambiguità che regge l’intreccio di un racconto dei Vedovi Neri. Questo racconto supera ogni primato.