Che ora è?

La cena mensile che riuniva i Vedovi Neri si era svolta secondo il copione usuale, con le solite discussioni, ma, venuto il momento del caffè, la compagnia era piombata in un insolito silenzio.

Geoffrey Avalon sorseggiava lentamente il caffè, con aria meditabonda. «Sono le piccole cose quelle che contano… Le piccole cose. Conosco una coppia, due coniugi che avrebbero potuto convivere in eterno nella più completa armonia. Lui era un predicatore laico di una chiesa episcopale e lei era un’atea convinta, ma questa diversità non aveva mai provocato il minimo screzio fra loro. Purtroppo, lui preferiva cenare alle sei, lei preferiva cenare alle sette, e questo contrasto ha finito per rovinare il loro matrimonio.»

«Cos’è grande e cos’è piccolo?» domandò Rubin, fissandolo con occhi da gufo dietro le spesse lenti. «Ogni contrasto ci appare banale quando non siamo noi i diretti interessati, ma non c’è nulla che possa mandarti in bestia quanto una diversità di vedute che si prolunga nel tempo.»

Mario Gonzalo fissava compiaciuto la punta delle scarpe, che luccicavano. «Vi sono persone che preferiscono dormire con la finestra chiusa, altre invece che preferiscono tenerla aperta, e sono sempre quelle che si sposano pur avendo gusti tanto diversi.»

Alle cene dei Vedovi Neri accadeva raramente di poter esprimere successivamente tre opinioni senza provocare contraddizioni esplosive, perciò nessuno si sorprese quando Thomas Trumbull, con la fronte aggrottata e le sopracciglia arruffate, intervenne con foga. «Queste son tutte sciocchezze belle e buone! Quando un matrimonio fallisce, la ragione del fallimento non va ricercata nei piccoli screzi.»

«Tom, io conosco quella coppia» replicò tranquillamente Avalon. «Sono mio cognato e mia cognata… o meglio, la mia ex cognata.»

«Ma io ti credo! Quelli saranno convintissimi di non aver litigato senza motivo, ma se ripensano a quello che è accaduto si renderanno conto di aver rovinato il loro matrimonio per una sciocchezza» rispose Trumbull. «Non è questo il punto. Io affermo che quando un matrimonio fallisce, ci sono sempre motivi assai più profondi di quelli che appaiono a una osservazione superficiale. Se i rapporti sessuali fra due coniugi si mantengono compatibili, se non vi sono problemi finanziari, se non vi sono intolleranze ideologiche o attitudinali, andranno d’accordo. Se uno qualunque di questi rapporti diviene motivo di disaccordo, allora incominciano i litigi, anche per le banalità. Ma non è per queste che il matrimonio va in frantumi!»

Dopo aver dato la caccia alle briciole della torta di mele rimaste nel piatto ed essersi pulita la bocca con una sorsata di caffè, Roger Halsted, rosso in viso come gli accadeva sempre quando la discussione lo interessava vivamente, intervenne: «Tom, dimmi, come pensi di poter dimostrare quello che affermi?».

«Ma non occorre!» rispose Trumbull, con tono sprezzante. «Mi sembra così ovvio!»

«Solo dal tuo punto di vista» disse Halsted. «Io, una volta, ho rotto con una ragazza della quale ero innamorato alla follia solo perché diceva sempre e senza ragione: “Ma dimmi tu se non è un casino!” e ti giuro che non avevo altro che questo da rimproverarle.»

«Tu sei spergiuro senza saperlo» replicò Trumbull. «Jim, senti, metti ai voti.»

James Drake, l’anfitrione di quella serata, spense la sigaretta e lo fissò divertito; fissando a uno a uno i commensali con gli occhietti maliziosi, disse: «Tom, perderesti».

«Non m’interessa perdere o vincere. Voglio solo vedere quanti somari sono riuniti intorno a questa tavola.»

«I soliti» replicò Drake. «Chi è d’accordo con Tom alzi una mano.»

La mano di Trumbull scattò verso l’alto e fu la sola.

«Non mi sorprende affatto» commentò Trumbull, dopo una rapida occhiata a destra e a sinistra. «E lei, Henry? Non vuole votare?»

Henry, l’impareggiabile cameriere di quelle riunioni, sorrise con fare quasi paterno. «Infatti, signor Trumbull, non ho votato. Ma se avessi votato, mi sarei preso la libertà di esprimere parere contrario al suo.»

Henry continuò a servire il brandy, imperturbabile, mentre Trumbull esclamava: «Anche tu Bruto…».

Rubin finì il caffè e appoggiò rumorosamente la tazzina. «Oh insomma, tutte le divergenze sono banali. Forme di vita che appaiono superficialmente di una diversità incredibile si rivelano identiche a livello biochimico. Sembra che ci sia un mondo di differenza fra il verme e il terriccio nel quale scava e vive, ma se prendiamo in considerazione gli atomi di cui sono costituiti sia l’uno che l’altro…»

«Manny, cerca di non ungere la ruota, o se proprio non puoi farne a meno, ungila nel garage di casa tua» ribatté Trumbull. «Ho la netta sensazione che la somaraggine sia universale, ma tanto per esserne sicuro voglio chiedere al nostro ospite se vuole votare anche lui.»

«E allora facciamo in modo che questo voto faccia parte della torchiatura» decise Drake. «Ormai è ora, e puoi benissimo torchiarlo tu stesso, Tom.»

L’ospite d’onore era Barry Levine, un ometto coi capelli neri, occhi scuri, smilzo e vestito con eleganza. D’aspetto non era esattamente gradevole, ma l’espressione gioviale lo rendeva simpatico. Gonzalo ne aveva già schizzato la caricatura esagerando la peculiare bonomia sino all’assurdo e Henry aveva collocato il disegno accanto agli altri appesi alla parete.

«Signor Levine» incominciò Trumbull. «Agli ospiti che prendono parte a queste riunioni conviviali noi chiediamo normalmente di giustificare in qualche modo il loro diritto all’esistenza, e questo non è che l’inizio. Io, comunque, intendo dispensarla da quest’onere pensando di poterle offrire un motivo più che valido sostenendo il mio punto di vista come l’ho espresso poco fa: penso che lei sarà d’accordo con me se affermo che le banalità restano banalità e nulla più.»

Levine sorrise. «Lei allude alle banalità a livello umano, o si riferisce ai vermi che vivono nel terriccio?» domandò con voce leggermente nasale.

«Parliamo di esseri umani, prescindendo ovviamente da Manny.»

«In questo caso io mi unisco al branco dei somari, perché la mia professione mi porta ad occuparmi quasi esclusivamente di banalità.»

«E la sua occupazione sarebbe?»

«Appartengo a quella categoria di avvocati che si guadagna da vivere discutendo coi testimoni e con altri avvocati davanti a un giudice e a una giuria, il che basta a sommergermi sino al collo nella banalità.»

«Dunque lei considera la giustizia come una banalità, se ho ben compreso» brontolò Trumbull.

«Niente affatto» rispose tranquillamente Levine. «Non è con la banalità che dobbiamo vedercela quando siamo in tribunale. Di fronte alla giuria ricorriamo a tutti gli espedienti possibili: cerchiamo di far testimoniare quei testi che ci sono favorevoli, di far escludere quelli che ci sono contrari; cerchiamo di trarre il massimo profitto dalla facoltà di interrogare e controinterrogare i testimoni; cerchiamo di intervenire nella scelta dei giurati per averli più favorevoli e, se possiamo, la manipoliamo persino, cerchiamo di manipolare anche i sentimenti e le emozioni dei giurati; cerchiamo di far leva sui pregiudizi e sulle tendenze dei giudici che conosciamo o, se non li conosciamo, cerchiamo di indovinarli durante il dibattimento; cerchiamo di ostacolare i patroni della parte avversa o, se ci riusciamo, cerchiamo di forzar loro la mano per farli apparire ridicoli, ma tutto questo lo facciamo con le banalità, con le minuzie delle priorità e del razionale.»

«E in quale rapporto sta la giustizia con tutta questa litania di amenità e di spassi giuridici?» replicò Trumbull, senza smettere minimamente il tono inquisitorio.

«Secoli di esperienza fatta col nostro sistema giurisprudenziale angloamericano ci hanno dato la convinzione che alla lunga e nel complesso il metodo serve egregiamente la giustizia. In tempi brevi e in qualche caso specifico, comunque, può accadere benissimo che non la si serva affatto, ma questi incidenti non si possono evitare. Cambiare le regole del gioco con l’intento di prevenire le ingiustizie in casi particolari potrebbe essere causa di maggiori ingiustizie nel complesso, anche se non si può negare che, ogni tanto, ci può essere un cambiamento per il meglio.»

«In altri termini» intervenne Rubin «lei è convinto che la giustizia completa resti una meta impossibile, anche come semplice obiettivo della professione forense?»

«Sì, penso che sia un obiettivo irraggiungibile» rispose Levine. «Forse in cielo può esserci una giustizia perfetta. Su questa terra, no.»

«Dovrei dunque arguirne che, impegnandosi a difendere una causa, la giustizia non la interessa minimamente?» domandò Trumbull.

«Io non ho mai fatto una simile affermazione!» replicò Levine, guardandolo sorpreso. «Certo che sono interessato a che giustizia sia fatta. Ma per servire degnamente la giustizia io devo garantire al mio cliente la migliore, la più efficace delle difese, non solo perché la merita o meno, ma anche perché la giurisprudenza americana lo impone e perché lo si potrebbe privare della migliore difesa solo a scapito di tutti gli altri cittadini, ciascuno dei quali potrebbe venire a trovarsi nelle sue stesse condizioni.

«E non ha alcuna rilevanza il fatto che possa essere colpevole o innocente, perché è legalmente innocente in ogni caso sino a quando non sia stato dimostrato il contrario a termine di legge rigorosamente applicata. Che poi l’accusato possa essere moralmente o eticamente innocente è questione assai complessa e difficile da definire e tuttavia essa non riveste importanza primaria. Per me, questo aspetto ha solo un’importanza secondaria, ed è naturale; ma per quanto mi sforzi, ci sono casi in cui la coscienza morale m’impedirebbe di fare tutto il mio dovere nei confronti di un cliente che aborro, e allora devo consigliargli di scegliersi un altro difensore.

«In ogni caso, anche se dovessi riuscire a far assolvere un uomo che io considero un furfante, non ne proverei un dispiacere forte come quello che mi procurerebbe la mancata assoluzione di una persona che io considero innocente. Ma siccome solo raramente posso raggiungere la certezza che un accusato è innocente o che è una canaglia non più suscettibile di redenzione, ne beneficiano sia la giustizia che la mia coscienza se faccio tutto il possibile per farli assolvere operando nei limiti dell’etica professionale.»

«È mai riuscito a far assolvere individui che lei considerava criminali?» domandò Gonzalo.

«Qualche volta. In casi del genere, l’errore giudiziario è quasi sempre conseguenza di errori commessi dall’accusa che rinvia a giudizio sulla base di testimonianze illegali o che perde inutilmente tempo per istruire i processi. Su questi errori giudiziari e sulle loro cause io non me la sento di sprecare una inutile pietà: gli uomini che devono istruire i processi e sostenere l’accusa hanno a loro favore tutta la macchina della giustizia e i mezzi finanziari illimitati del pubblico erario. Se permettessimo che condannassero un farabutto senza prove sostanziali, rigidamente valide sotto ogni profilo legale, dove potrebbero sperare di trovare giustizia e sicurezza cittadini come lei e come me? Anche noi potremmo apparire canaglie ed essere perseguiti penalmente grazie ad un concorso di circostanze e di pregiudizi!»

«E le è mai capitato di non riuscire a far assolvere un accusato che lei riteneva innocente?» domandò ancora Gonzalo.

Quella domanda produsse un effetto strano su Levine: la fierezza con la quale aveva difeso sin lì la sua professione svanì di colpo, sul volto gli apparve un’espressione avvilita, il labbro prese quasi a tremare. «Per la verità» disse piano «sono impegnato in un processo che mi preoccupa. Ci sono molte probabilità che il mio cliente venga condannato, e io sono convinto che l’hanno accusato ingiustamente.»

«Te l’avevo detto che avresti finito per parlare!» disse Drake, sogghignando. Poi, rivolgendosi agli altri: «Gli ho anche detto che non deve preoccuparsi per la nostra segretezza, che tutto quanto rimarrà qui fra noi… E gli ho detto anche che forse possiamo aiutarlo».

Avalon s’impettì a quella scappata. «Conosci già il caso nei particolari, Jim?» domandò con un certo sussiego.

«No.»

«E allora come credi di aiutarlo?»

«Io ho accennato solo ad una possibilità.»

Avalon scosse la testa. «Se l’avesse detto Mario, pazienza. Lui si lascia trascinare dall’entusiasmo. Ma da te, non lo capisco proprio.»

«Geoff, niente lezioni» disse Drake, alzando una mano per metter pace: «Non ti si addice».

«Signori, non litigate» intervenne Levine. «Io accetterò volentieri tutto l’aiuto che potrete darmi. Se non potrete, non mi troverò in guai peggiori per questo. Naturalmente, vorrei porre l’accento sul fatto che, pur non dubitando minimamente della vostra discrezione, la segretezza assoluta è della massima importanza in questo caso e io ci conto.»

«Stia tranquillo» disse seriamente Avalon.

«E sta bene, dunque» riprese a dire Trumbull «smettiamola con questa specie di manfrina e mettiamoci al lavoro. Vuole spiegarci questo caso nei particolari, signor Levine?»

«Vi racconterò i particolari più importanti. Il mio cliente si chiama Johnson, un nome comunissimo che avrei potuto scegliere tranquillamente se avessi voluto usarne uno fittizio. Invece è proprio il suo nome. Può anche darsi che abbiate saputo di questo caso, ma penso che sia poco probabile perché non è accaduto qui e, se non avete nulla in contrario, non vi dirò dov’è accaduto perché è un particolare di nessuna importanza.

«Dunque questo Johnson si era indebitato con un usuraio che conosceva… o meglio, col quale era in rapporti tali da poter chiedere una dilazione nel pagamento.

«Per questo motivo, Johnson si era recato nella stanza d’albergo che l’usuraio usava come ufficio. Era una stanzaccia sordida in un albergo sordido dove venivano trattati affari ugualmente sordidi. L’usuraio conosceva Johnson e non ebbe difficoltà a riceverlo persino con una certa gentilezza, ma rifiutò recisamente di concedergli la dilazione che quello chiedeva. Il rifiuto significava che Johnson si sarebbe trovato in guai peggiori se non fosse riuscito a far fronte a un solo pagamento, che i suoi affari ne avrebbero subito le conseguenze e che forse sarebbe stato costretto a fallire, che la sua famiglia si sarebbe trovata in mezzo alla strada.

«Devo precisare che io racconto la storia come mi è stata riferita da Johnson. Dunque, il mio cliente era disperato, ma l’usuraio gli spiegò freddamente che, se gli avesse concesso una dilazione, altri avrebbero preteso lo stesso trattamento di favore; se invece si fosse servito di lui per dare un esempio, gli altri ci avrebbero pensato due volte prima di cacciarsi in debiti che poi non avrebbero potuto rimborsare. Il fatto che l’usuraio volesse far sfoggio di virtù coll’affermare che il suo esempio avrebbe indotto alla prudenza altri possibili debitori, irritava particolarmente Johnson.»

«Avvocato» disse seccamente Rubin «scusi se mi permetto, ma io penso che se un usuraio fosse tanto flessibile quanto lo è lei, non c’è dubbio che con Johnson avrebbe potuto accomodarsi la coscienza proprio come se l’accomoda lei nella professione forense.»

Levine rifletté brevemente prima di rispondere. «Non mi sorprenderebbe affatto. Tanto per chiarire possibili equivoci e prima che lo dica lei, so benissimo che gli avvocati non godono di una buona reputazione e che se dovesse scegliere fra le due professioni, molta gente preferirebbe gli usurai agli avvocati pensando che i primi sono più onesti dei secondi. È una convinzione che io non posso cambiare, ma sono sempre convinto che se uno si trovasse nei guai farebbe bene a ricorrere prima all’avvocato che all’usuraio.

«Ma lasciamo stare. Johnson non si lasciò impressionare dalla logica con la quale l’usuraio pensava di poter levare sangue da un mattone e minacciava di sbriciolare il mattone se non si decideva a sanguinare; proruppe in escandescenze, formulò minacce che non avrebbe mai potuto mantenere. In breve: minacciò di ucciderlo.»

«Siccome lei riferisce il racconto di quel Johnson» disse Trumbull «devo arguire che il suo cliente ammise di aver minacciato l’usuraio.»

«Infatti» rispose Levine. «Gli avevo detto sin dal principio, come faccio con tutti i miei clienti, che non avrei potuto aiutarlo efficacemente se non mi avesse detto tutta la verità, anche se il dirla avesse comportato la confessione di un delitto. Anche dopo una simile confessione, io sarei stato ugualmente tenuto a difenderlo e, al peggio, a battermi per fargli ottenere il minimo della pena prevista per la colpa di cui si era macchiato, nel migliore dei casi per farlo assolvere sfruttando tutte le possibilità che mi si offrivano.

«Sono convinto che Johnson mi credette e non esitò a raccontarmi delle minacce e non cercò nemmeno di sminuirle. Quella sincerità mi fece una certa impressione, tanto che adesso sono convinto che mi abbia detto la verità. Ho acquisito una certa esperienza nella mia professione e ho ascoltato le proteste d’innocenza di tanti bugiardi. Credo di aver imparato a distinguere la verità quando qualcuno la dice. Inoltre, ci sono anche prove che suffragano questa parte del racconto, anche se Johnson non lo sapeva, e quindi bisogna escludere che abbia detto la verità solo perché sapeva che sarebbe stato perfettamente inutile mentire.»

«E queste prove sarebbero?...» domandò Trumbull.

«Le stanze degli alberghi non sono certo isolate acusticamente. Johnson urlava con quanto fiato aveva in gola, sicché una cameriera udì quasi tutto, dal principio alla fine. Addirittura, un cliente che dormiva in una camera vicina, destato da quel baccano, scese a lamentarsi con la direzione.»

«E con questo si sarebbe potuto dimostrare soltanto che c’erano due che litigavano» osservò Trumbull. «Chi avrebbe potuto dimostrare che era proprio Johnson quello che urlava e minacciava?»

«Il portiere lo conosce, Johnson gli aveva chiesto se l’usuraio era in camera sua. Il portiere aveva telefonato e l’usuraio aveva detto che Johnson poteva salire… Poi il portiere lo vide scendere, e nel frattempo aveva saputo di quelle minacce.

«Comunque, le minacce di ucciderlo erano semplicemente senza senso; servirono soltanto a far sbollire la collera del mio cliente, che se ne andò subito dopo averle pronunciate. Io sono convinto che Johnson sarebbe incapace di uccidere chicchessia.»

«Questo è assurdo» esclamò Rubin, agitandosi nervosamente. «Chiunque potrebbe uccidere in un impeto di collera o di terrore avendo un’arma a portata di mano. Immagino che dopo la partenza di Johnson avranno trovato l’usuraio morto stecchito con la testa fracassata, con accanto una mazza da baseball tutta lorda di sangue e di capelli. E lei viene a dirci che è convinto dell’innocenza del suo cliente?»

Levine alzò il bicchiere e fece cenno a Henry per farsi dare dell’altro brandy, sorrise ringraziando il cameriere che lo serviva, poi si rivolse a Rubin. «Ho letto alcuni dei suoi romanzi polizieschi e mi sono piaciuti, signor Rubin. Sono convinto che una simile situazione potrebbe verificarsi benissimo in un suo racconto e sono convinto che troverebbe modo di dimostrare l’innocenza dell’accusato. Ma questo non è un romanzo poliziesco scritto da lei. L’usuraio era ancora vivo e vegeto dopo che Johnson se n’era andato.»

«Stando a quanto afferma Johnson, naturalmente» replicò Rubin.

«Ed è suffragato da testimoni insospettabili. L’uomo che telefonò alla direzione, riferì che stavano assassinando qualcuno nella stanza accanto alla sua e il portiere mandò immediatamente il poliziotto privato dell’albergo per un controllo. Questo poliziotto, un tipo sveglio che sa quello che dice, salì armato, bussò e si fece riconoscere. L’usuraio rispose, aprì la porta e siccome il poliziotto lo conosceva bene, non c’è dubbio che Johnson non aveva mantenuto le minacce; non l’aveva ucciso e se n’era andato, avvilito e impotente. L’usuraio era solo nella sua stanza.

«Infatti, il portiere, che si chiama Brancusi, aveva visto Johnson uscire appena pochi secondi dopo che il poliziotto dell’albergo aveva preso l’ascensore per salire. Gli ascensori che portavano i due uomini si erano incrociati. Brancusi aveva chiamato Johnson, che aveva risposto con un cenno della mano senza fermarsi e Brancusi rammenta di averlo visto pallido e avvilito. Erano circa le tre e un quarto e sull’ora concordano tanto Brancusi che Johnson.

«L’usuraio scese poco dopo le quattro e per circa un’ora, forse anche più, si trattenne al bar dell’albergo. Il barista, che lo conosceva bene, ha confermato questo particolare e rammenta con sufficiente precisione quanti bicchierini si era scolato. Verso le cinque e un quarto l’usuraio uscì dal bar e probabilmente tornò in camera sua.»

«Non è che si fosse ubriacato?» domandò Avalon.

«No, se stiamo alle affermazioni del barista. Non aveva bevuto più del solito e non dava segni di ubriachezza.»

«Non aveva scambiato parola con nessuno, durante la permanenza al bar?»

«Solo col barista, secondo il quale, quando se ne andò, era solo.»

«Questo non significa niente» disse Gonzalo. «Avrebbe potuto incontrare qualcuno nell’atrio. Nessuno lo vide entrare nell’ascensore da solo?»

«No, almeno che noi sappiamo» rispose Levine. «Brancusi non l’aveva visto entrare nell’ascensore per risalire, e in quel momento nell’atrio non c’erano altre persone. Nessuno si è presentato per testimoniare su questo punto. Ma se è per questo, avrebbe potuto incontrare qualcuno nell’ascensore o nel corridoio. Comunque, nulla ci fa credere che non fosse solo quando, verso le cinque e un quarto, rientrò?

«Questo periodo di circa due ore, fra le tre e un quarto e le cinque e un quarto, è molto significativo. Il poliziotto dell’albergo, che aveva visto l’usuraio subito dopo che Johnson se n’era andato, riferì di averlo trovato tranquillo e quasi divertito dalla lite recente, che definì “una semplice discussione, niente d’importante”. Anche il barista afferma di averlo visto tranquillo e sereno, di non aver notato in lui alcunché di strano o di insolito, tanto che non aveva pensato nemmeno lontanamente a liti o a minacce.»

«Lei si aspettava che ne parlasse?» domandò Halsted.

«Forse no» rispose Levine. «Comunque, resta sempre un particolare significativo. Dopo tutto, l’usuraio conosceva Johnson, sapeva che era un debole sia sotto il profilo fisico, sia sotto quello emotivo e non temeva le sue minacce; sapeva che non le avrebbe mai mantenute o che, se avesse tentato, non avrebbe avuto difficoltà a conciarlo per le feste.

«Che l’usuraio non temesse Johnson lo dimostra anche il fatto che aveva acconsentito spontaneamente a riceverlo e non aveva nemmeno preso la precauzione di farsi assistere da una guardia del corpo pur sapendo di averlo ridotto alla disperazione. Lo scoppio d’ira del mio cliente non lo turbò minimamente e lo disse chiaro e tondo al poliziotto dell’albergo. Nelle due ore che seguirono si comportò con l’indifferenza di uno che sa di aver a che fare con un essere assolutamente inoffensivo. Sono sicuro che è un punto a favore del mio cliente.»

«Forse» disse Avalon, scuotendo la testa. «Ma ciò non toglie che l’usuraio sia stato ucciso, e i sospetti non possono che ricadere su chi l’aveva minacciato e il fatto che l’usuraio lo ritenesse inoffensivo significa meno di niente. Può darsi benissimo che l’usuraio abbia commesso un errore madornale ritenendolo incapace di nuocergli!»

«L’usuraio è morto di morte violenta» ammise Levine, sospirando. «Era risalito alle cinque e un quarto o forse un paio di minuti dopo quell’ora e io penso che abbia sorpreso un ladro che frugava nella sua stanza. Il furto non è da escludere, anche perché quell’uomo teneva sempre pronta una grossa somma di denaro per le necessità dei suoi affari, e la sorveglianza nell’albergo non è tale da poter escludere con certezza la possibilità di un furto. L’usuraio avrà ingaggiato una colluttazione col ladro colto in flagrante, che l’ha ucciso verso le cinque e mezzo.»

«E le prove?» domandò Trumbull.

«Il cliente nella camera accanto era rimasto sveglio per un pezzo prima di addormentarsi. Si era riappisolato da poco quando venne svegliato ancora una volta da forti rumori. Infuriato, aveva telefonato a Brancusi avvertendolo che, stanco di sopportare, chiamava la polizia.»

«Fu la stessa voce a svegliarlo?» domandò Gonzalo.

«Anche se l’avesse riconosciuta, una simile dichiarazione non avrebbe molto peso in tribunale» replicò Levine. «Comunque, quell’uomo non disse di aver udito delle voci nella stanza accanto, ma il fracasso di mobili che cadevano, di vetri infranti e cose del genere.

«Brancusi rimandò su il poliziotto privato che, non ricevendo risposta al suo bussare, entrò con la chiave di riserva e trovò l’usuraio morto strangolato; la stanza era tutta sottosopra, la finestra era aperta sopra il tetto di una casa vicina più bassa di due piani. Un ladro con doti acrobatiche anche mediocri avrebbe potuto uscirne senza difficoltà e anche senza farsi notare. Comunque, la polizia arrivò subito dopo, verso le sei meno venti.»

«Immagino che la polizia non abbia accettato la teoria dell’omicidio commesso da un ladro sorpreso a rubare» disse Trumbull.

«No, infatti. Non trovarono tracce di un passaggio né sul muro né sul tetto sotto la finestra. Invece, avendo saputo della lite fra l’usuraio e il mio cliente, pensano che Johnson sia tornato una seconda volta per mettere in pratica la minaccia; pensano che abbia aggredito e strangolato l’usuraio e che nella lotta mobili e vetri siano andati in frantumi e che poi abbia aperto la finestra per far credere a un’intrusione per quella via. Commesso il delitto, avrebbe preso l’ascensore evitando di poco il poliziotto privato che saliva a controllare.»

«E lei pensa che sia impossibile?» domandò ancora Trumbull.

«Ma tutto è possibile!» rispose freddamente Levine. «Comunque, il magistrato incaricato dell’inchiesta non deve dimostrare che è possibile, ma deve dimostrare che è accaduto al di là di ogni ragionevole dubbio. Il fatto che la polizia non abbia trovato tracce sul muro o sul tetto sotto la finestra non ha la minima importanza; può darsi che non abbiano guardato con tutta l’attenzione necessaria per scoprirle. Un risultato negativo non impressiona mai né il giudice né i giurati e dev’essere così. Proprio per questo motivo, le minacce fatte alle tre e un quarto non hanno niente a che fare con quanto è accaduto alle sei meno venti o giù di lì, a meno che non si possano collegare con prove irrefutabili al fatto susseguente.»

«E allora dove stanno le difficoltà che lei dice di incontrare?» domandò Gonzalo, che con le mani afferrate alla tavola faceva dondolare la sedia sulle due gambe posteriori.

«Le difficoltà nascono dal fatto che Johnson è stato visto sul luogo del delitto verso l’ora in cui il delitto veniva commesso» rispose l’avvocato.

«E ci sono testimoni sicuri?» domandò Gonzalo, rimettendo la sedia in posizione normale con un tonfo.

«I migliori che si potrebbero desiderare, e come se non bastasse, Johnson lo ammette lui stesso. Ma ecco come sono andate le cose: nelle due ore fra la lite e l’omicidio, Johnson aveva racimolato in fretta e furia tutto il denaro che aveva potuto trovare; aveva preso a prestito piccole somme da diversi amici, era andato a impegnare quello che aveva e, racimolato circa un terzo della somma che doveva all’usuraio, era tornato in quell’albergo sperando di ottenere, grazie a quella dimostrazione di buona volontà, la sospirata dilazione per la somma restante. Non che avesse molta speranza di riuscire, ma doveva tentare.

«Arrivò in albergo verso le sei meno un quarto, quando l’usuraio era già morto, e notò un’auto della polizia ferma davanti all’ingresso. Comunque, non vi fece caso più che tanto perché in testa aveva solo quell’idea fissa. L’ascensore era a pianterreno, con la porta aperta. Johnson lo prese e salì, ma appena messo piede nel corridoio vide un poliziotto fermo davanti alla porta dell’usuraio e, tornato istintivamente nell’ascensore, scese e se ne andò a casa dritto filato e ci rimase sino a quando i poliziotti andarono a prenderlo.»

La testa di Drake era immersa in una nuvola di fumo. «La polizia avrà saputo delle minacce che aveva formulato contro l’usuraio e l’avrà portato al comando per interrogarlo.»

«Esatto» rispose Levine. «Ma non possono costringere Johnson a testimoniare contro se stesso, e allora come fanno a sapere che era sul posto circa nell’ora in cui veniva commesso il delitto?»

«Brancusi l’aveva visto mentre si avviava verso l’ascensore. L’aveva chiamato, voleva avvertirlo di non salire, dirgli che c’era la polizia, ma Johnson non l’aveva sentito e l’ascensore era partito prima che Brancusi potesse raggiungerlo e fermarlo. Comunque, Brancusi afferma che Johnson ridiscese subito, nel giro di un paio di minuti, poco più o poco meno, afferma che se ne andò in fretta e furia ed è pronto a giurare che Johnson uscì dall’albergo quando mancavano circa dieci minuti alle sei.»

«E questo Brancusi è assolutamente sicuro di quello che afferma?» domandò Drake.

«Assolutamente. Il suo turno finiva alle sei ed era furioso per quel che era accaduto. Se fosse accaduto un’ora dopo, lui sarebbe stato fuori dai pasticci e invece così era sicuro che l’avrebbero interrogato e magari l’avrebbero trattenuto per ore e ore ancora. Ecco perché è così preciso circa l’ora. E come se non bastasse, alla parete accanto alla scrivania avevano installato da poco un grosso orologio elettrico molto preciso. Brancusi è sicuro che fossero le sei meno dieci.»

«In questo caso, se Brancusi conferma la deposizione, mi pare che il suo cliente non abbia nulla da temere» disse Avalon, dopo essersi raschiato la gola. «C’è un testimone che afferma che Johnson non era lì quando il delitto veniva commesso.»

«Ma è proprio a questo punto che entrano in ballo quelle che potremmo definire inezie!» rispose Levine. «Brancusi è un pessimo testimone. Balbetta, sia pure leggermente, e questo lo fa apparire incerto; non guarda mai in faccia l’interlocutore e chi lo vede ha l’impressione di trovarsi dinnanzi un ipocrita. I giurati lo prenderanno sicuramente per bugiardo.

«C’è di più. Brancusi è amico di Johnson, si conoscono da quando erano ragazzi, frequentano lo stesso bar. Questa amicizia potrebbe indurlo a mentire per aiutare un amico e il pubblico ministero non mancherà di approfittarne.

«Infine, Brancusi potrebbe anche rifiutarsi di testimoniare. Ha già scontato sei mesi di carcere, molti anni fa, per un reato minore, ma da allora ha condotto vita onesta e non è disposto a riportare a galla quel trascorso che, se si risapesse, potrebbe costargli l’impiego.»

«E lei pensa che l’accusa ne approfitterebbe per tirare in ballo quella vecchia storia?» domandò Rubin. «È un fatto senza alcuna importanza, se non m’inganno.»

«Su questo io sono d’accordo con lei. Ma se il pubblico ministero decidesse di screditare Brancusi come testimone, potrebbe farlo.»

«Ma se lei decidesse di non far testimoniare né Brancusi né Johnson stesso, l’accusa avrebbe parecchie difficoltà se volesse dimostrare che Johnson era sul luogo del delitto nel momento critico» disse Rubin. «Il pubblico ministero non può costringere l’imputato a testimoniare, se quello non vuole. Non può citare Brancusi come testimone d’accusa perché poi non potrebbe controinterrogarlo screditandolo col tirar fuori quel suo vecchio conto con la giustizia.»

«Purtroppo c’è un terzo testimone» disse Levine, sospirando. «È un certo William Sandow, un ragioniere che si era fermato nell’atrio dell’albergo per comperare una scatoletta di pasticche per la gola e mentre era davanti all’edicola vide Johnson che usciva correndo dall’albergo. Quella sera stessa, dopo aver letto del delitto, questo Sandow ha telefonato alla polizia e si è offerto di testimoniare, ha dato una buona descrizione dell’uomo che aveva visto uscire in fretta e furia e in seguito l’ha anche riconosciuto in un confronto all’americana.

«Secondo lui, l’uomo che fuggiva avrebbe attirato la sua attenzione perché pareva in preda all’orrore. Naturalmente, sarà difficile che possa suffragare immagini come questa una volta salito sul banco dei testimoni, ma il pubblico ministero non avrà difficoltà a fargli dire che Johnson tremava, che sudava, e particolari del genere potrebbero appiccicargli addosso l’aria di un assassino che fugge dopo aver commesso il delitto.»

«Ma niente affatto» rispose Rubin. «Un uomo può sudare e tremare per mille motivi e Johnson aveva buone ragioni per tremare e sudare pur senza aver commesso un omicidio. Inoltre, mi sembra che questo Sandow debba convalidare le testimonianze di Brancusi e del suo cliente.»

«Per nulla» rispose Levine, scuotendo la testa. «Sandow afferma che mentre Johnson usciva guardò l’ora, per caso, e adesso giura che erano le cinque e mezzo esatte, ossia pochi minuti dopo che l’usuraio era stato ucciso e pochi minuti prima che arrivasse la polizia. Se fosse vero, una simile testimonianza rovinerebbe la deposizione di Johnson e la testimonianza di Brancusi mentre convaliderebbe potentemente il sospetto che l’assassino sia proprio lui.»

«Brancusi difende Johnson» insistette Rubin. «È la parola di un testimone contro la parola di un altro testimone. Non si può condannare nessuno con simili prove.»

«Sì che si può» rispose Levine. «Basta che i giurati credano al testimone citato dall’accusa e non a quello citato dalla difesa. Se Brancusi dovesse fare cattiva impressione, come tutto lascia prevedere, Sandow potrebbe fare benissimo l’impressione contraria. È un tipo dall’espressione sincera, molto accurato nel vestire e nella persona, ha la parlantina facile e un timbro di voce piacevole e sprizza capacità e onestà da tutti i pori. Il fatto poi che sia un ragioniere induce a pensare che sia una persona precisa, meticolosa. Mentre di Brancusi si sa che è amico dell’imputato e proprio per questo è già sospetto, Sandow è completamente estraneo a tutta la faccenda, e quindi non ha alcun motivo per mentire.»

«Lei ne è proprio sicuro?» domandò Rubin. «Dopo tutto, questo Sandow si è immischiato in questa storia senza perdere tempo, si è offerto spontaneamente di testimoniare. Non è che abbia, per caso, qualche motivo di rancore contro Johnson o che sia collegato, in qualche modo, con la vittima?»

Levine si strinse nelle spalle. «Capita anche al giorno d’oggi di trovare alcuni cittadini che hanno un atteggiamento fanatico nei confronti della giustizia. Il fatto che si sia offerto spontaneamente giocherebbe in suo favore agli occhi della giuria ma, ad ogni buon conto, io ho fatto fare ricerche sul suo passato. Non abbiamo trovato nulla che si possa usare contro di lui, almeno per ora.»

Nella sala scese un silenzio profondo, sino a quando Rubin riprese a parlare. «Però anche le persone oneste possono sbagliare. Sandow afferma che guardò l’ora per caso, ma come? Guardò il suo orologio? Perché? Brancusi aveva un buon motivo per guardare l’ora, ma quale motivo poteva avere Sandow?»

«Non ha detto di aver guardato il suo orologio, ma di aver visto, per caso, l’ora segnata dallo stesso orologio che stava accanto a Brancusi. Sia lui che Brancusi hanno guardato lo stesso orologio alla stessa ora, ma quell’orologio non poteva mostrare le cinque e mezzo a uno dei due e le sei meno dieci all’altro. Chiaro, dunque, che uno dei due mente e si può star certi che la giuria crederà a Sandow.»

«Brancusi guardava deliberatamente l’orologio» fece osservare Rubin. «Sandow ha affermato di averlo visto per caso. Può darsi che sia lui quello che sbaglia.»

«Ho preso in considerazione questa possibilità, ma non sono sicuro che possa giovarmi» disse Levine. «L’affermazione di Sandow, secondo la quale vide l’ora per caso, sembra sincera; il fatto che non cerchi di esagerare, che dica semplicemente com’è andata senza compiere il minimo sforzo per farsi credere, dà un accento di verità alla sua testimonianza e in più è un ragioniere, un tipo abituato ad aver a che fare coi numeri, a ricordarli. Il pubblico ministero non avrà difficoltà a farglielo ammettere in tribunale, e i giurati accetteranno quel punto di vista.

«Se cercassi di controbilanciare la testimonianza di Sandow, così freddo e sicuro di sé, inducendo Brancusi ad essere molto preciso, a insistere nella sua affermazione che erano le sei meno dieci, si potrebbe dare l’impressione che fa di tutto per confermare una menzogna bella e buona. Se poi riuscisse a fare buona impressione sulla giuria, il pubblico ministero farebbe di tutto per riportare a galla il suo trascorso giudiziario.»

«Dica un po’» intervenne Halsted, con foga improvvisa «ma quel Sandow poteva vedere l’orologio da dove stava, lì all’edicola nell’atrio dell’albergo?»

«Poteva benissimo» rispose Levine. «Abbiamo controllato immediatamente e la risposta è che poteva vedere benissimo quell’orologio.»

Fra i presenti scese un nuovo silenzio, più prolungato del precedente.

«Vediamo di ricapitolare brevemente» disse Trumbull, alla fine. «Lei è convinto che Johnson è innocente e che Brancusi dice la verità e, come logica conseguenza, è altrettanto convinto che quel Sandow o ha mentito o si è sbagliato, ma non vede come sia possibile dimostrarlo. Inoltre, la giuria presterà fede a Sandow e condannerà Johnson.»

«Sì» rispose Levine. «Pressappoco è così.»

«Le giurie sono imprevedibili» disse Rubin. «Questo è notorio.»

«È vero» ammise Levine. «Ma se questa fosse l’unica mia speranza, bisognerebbe proprio dire che sono in cattive acque.»

Avalon stava tamburellando rumorosamente con le dita sulla tavola. «Anch’io sono avvocato, anche se ho poca esperienza di processi in tribunale» disse. «Comunque, basta che lei riesca ad insinuare un dubbio ben radicato nei giurati. Non può mettere in risalto che la libertà o la condanna d’un uomo dipendono da un’occhiata distratta data per caso ad un orologio?»

«Posso farlo e insisterò il più possibile su questo particolare, ma non sino a costringere il pubblico ministero a tirare in ballo i trascorsi giudiziari di Brancusi. Ma vorrei aver in mano qualche cosa di meglio.»

Ritto accanto alla dispensa, Henry intervenne improvvisamente, quando nessuno pensava a lui. «Signor Levine… chiedo scusa» disse. «Credo che l’orologio al quale si riferiscono sia Brancusi che Sandow abbia un quadrante numerico.»

«Sì» rispose Levine, aggrottando la fronte. «Ma non mi sembra di averlo detto! Come ha fatto a indovinare?...» Poi comprese e l’espressione confusa svanì com’era apparsa. Ma certo! È chiaro. Ho detto che era un orologio nuovo, e oggi gli orologi elettrici hanno quasi tutti i quadranti numerici.»

«Ne sono convinto» rispose Henry «ma non era questo il motivo che mi ha portato a questa conclusione. Lei, poco fa, ha detto che il signor Sandow è un ragioniere, che è abituato ai numeri e che li ricorda facilmente, ma di un orologio con quadrante normale non si rammentano i numeri: si rammenta la posizione delle lancette ed è facile leggere l’ora anche se i numeri sono sostituiti da segni diversi.»

«Bene, e con ciò?» domandò Levine.

«In questo modo, ogni individuo di una certa intelligenza, anche limitata, sa leggere l’ora e i ragionieri non avrebbero alcun vantaggio in questo caso. Un orologio con quadrante numerico è diverso.»

«E siccome era un orologio con quadrante numerico, un ragioniere poteva avere un vantaggio su un’altra persona» ribadì l’avvocato. «Lei, Henry, non mi aiuta affatto.»

«Io credo di sì. Lei, signor Levine, ci ha fuorviati senza volerlo dandoci l’ora come la si leggerebbe sul quadrante di un orologio di vecchio tipo. Lei ha detto precisamente le tre e un quarto, le sei meno dieci e così via, mentre gli orologi coi quadranti numerici mostrano le stesse ore con numeri che sono le tre e quindici, le cinque e cinquanta e così via e io penso che con la diffusione degli orologi moderni, ci si abituerà a leggere le ore in questo modo.»

«E con ciò? Cosa cambia, Henry?» domandò Levine, mostrando qualche sintomo d’impazienza.

«Lei ha detto che Brancusi è sicuro che fossero le sei meno dieci, mentre Sandow è altrettanto sicuro che fossero le cinque e mezzo» rispose Henry. «Se fosse vero, e se si fosse trattato di un orologio di vecchio tipo, le lancette avrebbero occupato posizioni molto diverse nei due casi e nessuno dei due avrebbe potuto sbagliare a leggere l’ora. Uno dei due avrebbe dovuto mentire deliberatamente. Invece, trattandosi di un orologio con quadrante numerico, uno afferma di aver letto le cinque e mezzo, l’altro le sei meno dieci, ossia le cinque e cinquanta, capisce?»

«Ah!» esclamò Levine. «Lei suggerisce che Sandow abbia scambiato il numero cinque con il tre. Ebbene, non servirebbe a nulla. Si potrebbe affermare, con lo stesso fondamento, che Brancusi ha sbagliato, che è stato lui a scambiare il tre con il cinque, anche perché era irritato all’idea di doversi trattenere oltre la fine del suo orario di lavoro.»

«Io non mi riferivo affatto a errori di questo genere» rispose Henry. «Alludevo a un errore che può capitare più facilmente a un ragioniere che ad altri. Cinquanta centesimi formano mezzo dollaro, ma trenta minuti formano mezz’ora, e un ragioniere è particolarmente portato a trattare i numeri in termini monetari. Per un ragioniere, cinque e cinquanta significa cinque dollari e mezzo e una rapida occhiata gettata su un orologio sul quale si legge che sono le cinque e cinquanta può far balenare l’idea che sono le cinque e mezzo. In seguito, il ragioniere, convinto, giurerà che erano esattamente le cinque e mezzo e non ci sarà verso di fargli cambiare idea.»

«E lei, Henry, pensa davvero che Sandow abbia commesso un errore del genere?» domandò Avalon, sbalordito.

Ma fu Levine che rispose gongolando. «Ma sicuro! Non si potrebbe spiegare diversamente il fatto che due persone, guardando contemporaneamente lo stesso orologio, forniscano onestamente due risposte tanto diverse. Resta sempre il dubbio, ed è ragionevole; ma voglio chiedere che installino un quadrante luminoso per proiettare rapidamente numeri, in tribunale. Come pretesto, dirò che voglio controllare la vista di Sandow e la facilità con la quale rammenta i numeri. Se gli facessi lampeggiare davanti agli occhi il numero cinque e cinquanta col segno del dollaro davanti, con tutta probabilità direbbe che sono cinque dollari e mezzo.»

«Ma potrebbe dire anche cinque e cinquanta o qualcosa del genere» obiettò Gonzalo.

«Nel qual caso, io potrei chiedergli cosa intende con cinque e cinquanta, se vuol dire cinquecentocinquanta dollari o cinque dollari e mezzo… Dopo tutto, la vede o non la vede la virgola dei decimali? E si può star certi che risponderebbe cinque dollari e mezzo. In questo modo confermerebbe che, leggendo cinque e cinquanta, anche senza il segno del dollaro davanti, è portato a pensare alle cinque e mezzo e quando gli mostrassi un quadrante di orologio e gli dicessi di leggere l’ora, non sarebbe nemmeno necessario che rispondesse. La giuria capirebbe ugualmente.»

Levine si alzò per andare a stringere la mano a Henry. «Grazie. L’ho sempre detto che la giustizia dipende molto spesso da episodi banali, ma non avrei mai immaginato che la sentenza potesse dipendere da un episodio insignificante come questo, dalla diversità che c’è fra un orologio con quadrante tradizionale e uno con quadrante numerico.»

«Ma da un’inezia come questa dipende la libertà di un uomo molto probabilmente accusato ingiustamente di omicidio, e questa non è affatto un’inezia» replicò Henry.


(Titolo originale: What time is it?)


Provai un certo disappunto quando m’accorsi di aver scritto dieci dei dodici racconti che mi ci volevano per farne un volume, il terzo, e solo uno dei racconti che avevo scritto mi era stato rifiutato. Questo significava che dovevo rinunciare a presentare i due racconti mancanti per la pubblicazione in una rivista qualunque e che dovevo scriverli per inserirli direttamente nel volume.

Siccome dovevo farlo, lo feci e scrissi il racconto che mancava al convegno di Mohonk sulla fantascienza, del quale ho accennato nella conclusione di Irrilevanza.

Che ora è? prende in esame un caso di omicidio, cosa che accade molto raramente nei miei racconti dei Vedovi Neri. Comunque, non è un romanzo poliziesco, non è un giallo poiché manca la ricerca del colpevole, del movente, del modo. È soltanto un racconto imperniato sulla ricerca di una spiegazione resa necessaria da una differenza, una svista o un errore commesso da uno dei personaggi. Questa è proprio la caratteristica principale dei racconti.

I Vedovi Neri, se non altro, hanno avuto il merito di far assolvere un innocente.